Persone di ogni ceto, cultura, lingua,
religione, età, professione, sani o malati, ricchi o poveri, belli o brutti, il
museo fa bene a tutti. Le prove degli scienziati lo confermano.
Sottoponendo il cervello umano a
risonanza magnetica è possibile rilevare il ferro (trasportato dal sangue nei
muscoli quando sono a lavoro) che evidenzia i luoghi dell'azione cerebrale. Durante
l'osservazione delle opere d'arte si attivano processi Bottom-up (che ci portano
alla lettura di ciò che vediamo e che gli storici dell'arte chiamerebbero di
descrizione iconografica: al centro dell'immagine vedo un uomo vestito di rosso
con in testa una corona) e processi Top-down (quelli che fanno emergere le
conoscenze culturali, descrizione iconologica: al centro dell'immagine vedo un
re) che fanno emergere le complesse dinamiche dello sguardo davanti a uno
stimolo. Sembrano ormai essere tutti d'accordo, l'osservazione non è ricezione
passiva di dati, uguale per tutti, ma partecipe creazione di questi, conseguente
ad un'attività mnemonica e attenzionale, fondamentale e diversa per ciascuno.
Scopriamo che gli occhi davanti a un soggetto si muovono moltissimo, in un
secondo più dei battiti del cuore. Questo, movimento biologico, è nell'istinto
dell'uomo: per la sua sopravvivenza, non sapere distinguere un gatto da una
tigre può risultare fatale; per la sua socializzazione, riconoscere parenti,
amici, colleghi diventa necessario; per la sua serenità, attuare delle scelte,
ciò che è buono, commestibile, bello rende più vivibile la quotidianità.
L'interesse sull'argomento ha
portato a più pareri che negli ultimi anni si sono incontrati e scontrati:
sulla possibilità di abbozzare una teoria estetica su base biologica, sul ruolo
del cervello nella genesi artistica, sul rapporto tra arte e sistema nervoso.
Molti studi scientifici hanno avvalorato i benefici dell'arte sull'individuo
anche se solo pochi hanno attribuito un preciso ruolo al museo, ancora
marginale. Si è parlato spesso di arteterapia ma raramente di museoterapia.
La visita al museo e
l'osservazione delle opere d'arte all'interno delle sale, invece, permetterebbe
condizioni privilegiate di elaborazione delle informazioni che portano alla
percezione attraverso particolari: stimoli ambientali, registro sensoriale,
selezione, riconoscimento.
La domanda più frequente per
confutare tale tesi è: perché studiare le reazioni del soggetto proprio davanti
ad opere d'arte e non ad altre immagini qualsiasi ?
Perché le opere d'arte, che si
sono conquistate tale definizione, assumono agli occhi di chiunque uno statuto
speciale e possono attivare una ulteriore esperienza di selezione (così come i
nostri occhi, gli artisti scelgono cosa inserire nelle loro opere e cosa
lasciare fuori), che sollecita la concentrazione, la decodifica, la memoria
(visiva, verbale, emozionale), il senso critico, la valutazione dello
spettatore che si interroga su: Com'è fatto ? Cosa rappresenta ? Cosa mi vuole
dire ? A cosa mi fa pensare ? Questo artista è un genio ? un folle ? un talento
? un imbroglione ? Perché è arte ?
La seconda domanda più
frequente che suscita il neologismo museoterapia è: perché studiare le reazioni
del soggetto proprio all'interno di un museo ?
Perché i musei, d'arte nello
specifico, sono luoghi con un'aura particolare; custodi di oggetti raccolti, conservati,
studiati, ritenuti tanto rilevanti da sfidare il tempo; che preservano memoria,
bellezza, curiosità, tracce dell'uomo sulla terra. Capaci di sollecitare
connessioni con il vissuto collettivo e individuale di chi li visita. Non solo
con le opere a carattere figurativo ma anche con quelle astratte nel loro
intreccio di segno e forma, o concettuali nel loro potere evocativo e
simbolico, che le fa diventare concrete davanti ai nostri occhi, come può
diventarlo il tempo cercato dentro a un orologio.
Luoghi d'apprendimento
informale (cogliendo questa definizione non nell'accezione che la differenzia
dai luoghi di apprendimento formale, come scuola o università, ma nel senso più
diffuso che rende all'informalità una dimensione in cui si può sentirsi più
liberi, fuori dal canonico, dall'ordinario, dal prestabilito), i musei parlano
a una società bisognosa di stimoli che, soprattutto nelle opere contemporanee, riconosce
sue ambiguità, debolezze, forze, trova sollecitazioni trasversali che
riguardano tutti, nessuno escluso.
Luoghi d'ammaliamento. A volte
austeri, consacrati al silenzio della contemplazione, paragonabile a quello
delle chiese; altre volte più popolari, più vicini alla piazza. Difficilmente
anonimi, sono portatori di un'identità, un sapere, una storia.
Luoghi di sensibilizzazione ed educazione
estetica, civica, democratica, permanente. Incontrano anche i consensi della
neuroscienza cognitiva, dopo avere avuto l'importante sostegno della pedagogia,
psicologia, psichiatria (i capisaldi di questa convinzione nascono negli Stati
Uniti, nelle declinazioni del verbo del learning
by doing di John Dewey, nelle responsive
activities di Jerome S. Burner, nell'emotional
intelligence di Daniel Goleman, nella visual
literacy di Robert Coles).
I Servizi Educativi dei musei
diventano un banco di prova per la sperimentazione e diffusione delle buone
pratiche con cui coinvolgere il pubblico dei musei: visite animate, laboratori
concettuali e pratici, azioni perfomative, seminari, eventi. Alcuni progetti
pilota monitorizzano i benefici sul cervello dati dall'esperienza al museo di
differenti pubblici ,
bambini, adolescenti, adulti, studenti, professionisti, visitatori diversamente
abili, malati con particolari patologie, anziani affetti da demenza. Due
progetti, in particolare, nati in Italia dopo avere preso a modello
l'esperienza statunitense, sottolineano l'importanza della realtà museale come
luogo della terapia: il progetto Ad Arte
per i malati di Alzheimer sperimentato a Napoli e il progetto di Terapie complementari per i malati di
Parkinson sperimentato a Milano. Dalle equipe
molto spesso costituite da storici dell'arte e medici (ancora troppo poco da
museologi o personale interno ai musei), dopo i primi consensi ricevuti
dall'incremento delle richieste e dall'apprezzamento dei pazienti, si aspettano
ora i dati scientifici con cui perfezionare le ricerche.
La museoterapia però non sarebbe da somministrare solo a pubblici speciali, affetti da particolari malattie, aiutati da cure complementari rispetto a quelle tradizionali, ma sarebbe rivoluzionaria per tutti. Il museo aiuterebbe l'intera società a diventare più serena, coperativa, responsabile, intelligente. Il termine dunque sarebbe da applicarsi, scientificamente, ad una tecnica riabilitativa e di sostegno per chi soffre di particolari patologie o
diverse abilità, progettata da esperti, svolta all'interno del museo; genericamente, ad una terapia per tutti, volta a stimolare le capacità cognitive, comunicative, creative dell'individuo durante l'intera sua vita, attraverso la frequentazione del museo e la partecipazione alle attività in esso svolte.
Se, come afferma la
neuroscienza, un'immagine non è la replica di un oggetto ma il risultato di un
rilevamento sensoriale del cervello che tiene conto di esperienze ed emozioni e
costruisce la configurazione neuronale più adatta a rappresentare mentalmente
ciò che vediamo: più sviluppiamo potenzialità configurative, meglio possiamo
comprendere e padroneggiare la realtà. Il museo, soprattutto quello d'arte
contemporanea, contrasterebbe l'isolamento, l'ottundimento, il ritiro a cui
generalmente la contemporaneità, prolifica di immagini, a volte ripetitive (molto
spesso specchio di drammi o crisi veicolate da televisioni e computer) ci ha
abituato, sollecitando stimoli creativi, critici, attivi, di connessione con la
quotidianità. Chi non riesce a rappresentarsi un fatto, uno stile di vita, un
comportamento altrui, è portato all'intolleranza, al pregiudizio, alla fuga
dalla realtà. Dall'esercizio dello sguardo e dell'attenzione,
dall'addestramento dell'esperienza e delle connessioni, dalla palestra del
cervello che diventa il museo, ci dotiamo di strumenti di lettura della vita e
di configurazioni del reale che contrastano l'ansia dell'incomprensione.
Per gli scienziati, tutto si
concentrerebbe dentro ad una piccola mandorla situata in fondo al cervello,
l'amigdala, archivio della nostra memoria emozionale, capace di classificare le
percezioni, analizzare le esperienze, confrontarle per associazione. Anche per
gli storici dell'arte, a cominciare dai motivi decorativi gotici, l'amigdala, è
sempre stata una forma assai cara, culla del sacro, in cui simbolicamente
veniva rappresentato l'eterno. Da questo incontro di scienza e arte, dentro al
museo, la lista dei miracoli che potrebbe verificarsi su persone di ogni
latitudine e credo, sarebbe lunga perché l'individuo imparerebbe a:
identificare, denominare, valutare, interpretare, esprimere opinioni, leggere
dentro e fuori di sé, risolvere problemi, controllare lo stress; essere
empatico, perspicace, aperto, consapevole, responsabile, sicuro, comprensivo, sensibile,
democratico, altruista. E, aggiungerei, felice.
Come aveva scritto Italo
Calvino, illuminato e illuminista, “Vorrei servirmi del dato scientifico come
d'una carica propulsiva per uscire da abitudini dell'immaginazione e vivere
il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza”, “le grandi
spiegazioni del mondo sono sempre apparse come favole o come utopie” ma per
realizzarle serve “guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica,
altri metodi di conoscenza e di verifica”.
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