Premessa
Il presente testo costituisce un estratto della tesi di laurea magistrale di Flavia De Nicola,
intitolata "La prima attività romana di Michelangelo Buonarroti
e il mecenatismo di Raffaele Riario e di Jacopo Galli", relatore prof. Stefano Colonna, correlatore prof.
Stefano Valeri, tutor Alessia Dessì, AA 2017/2018 .
Già assegnata il 5/12/2014 con il titolo provvisorio "La prima attività romana di Michelangelo Buonarroti
e il mecenatismo del banchiere Galli", la tesi è stata discussa all'Università di Roma La
Sapienza il 24/03/2018. In occasione di tale seduta di laurea,
sono state presentate le inedite acquisizioni raggiunte dall'autrice,
in particolare l'accoglienza della proposta di rivalutare il significato
del Bacco michelangiolesco alla luce dei suoi contenuti antiquariali partendo
dal riconoscimento di un riferimento al rituale religioso antico della danza
dionisiaca nella sua postura, avvalorato dal possibile confronto istituito dall'autrice
con la figura del musico nel perduto dipinto di Luca Signorelli,
e la nuova interpretazione del cosiddetto "rifiuto" del Bacco
considerato nel contesto storico dello stato conflittuale documentato tra il cardinale Raffaele Riario e il papa Alessandro VI Borgia.
Gli esiti del presente lavoro di tesi hanno confermato la
necessità di proseguire le ricerche intorno al progetto di allestimento della collezione
del cardinale Riario nel cortile del suo palazzo e al coinvolgimento di Michelangelo nella
cerchia dei Pomponiani, conducendo così l'autrice a presentare un progetto di ricerca avente
come tema "La genesi del Bacco di Michelangelo Buonarroti alla luce del culto per l’Antico:
ricostruzione del potere e dei valori di un progetto collezionistico rinascimentale",
al concorso di ammissione al XXXIV ciclo del Dottorato di Ricerca in Storia dell'arte presso La Sapienza,
inviato alla segreteria di dottorato il 13/09/2018 e difeso in sede di prova orale il 20/09/2018,
in occasione del quale le recenti scoperte dell'autrice sono state sottoposte al giudizio della commissione.
I. Introduzione
La figura di Michelangelo Buonarroti è stata per troppo tempo investita dalla luce accecante dell’esaltazione, che ha gettato immeritate ombre su alcuni aspetti della sua biografia e produzione artistica finora poco esplorati. Sebbene la prima attività di Michelangelo sia stata delineata grazie al contributo di alcune eminenti pubblicazioni apparse soprattutto negli ultimi decenni , infatti, risulta ad esempio necessario riflettere ancora sull’importanza che l’amore per l’Antico ebbe nella genesi e nella storia delle opere michelangiolesche.
Michelangelo Buonarroti giunse a Roma sabato 25 giugno 1496, tre mesi dopo aver
compiuto il suo ventunesimo anno d’età, desideroso di ammirare con i suoi occhi “le maraviglie ch’udiva de gli
antichi” , ma anche affascinato dalle parole di Jacopo Galli che aveva dipinto ai suoi occhi la città papale “come larghissimo campo di poter ciaschedun mostrar la sua virtù” . Roma era, infatti, uno dei maggiori centri intellettuali ed artistici del Rinascimento italiano e aveva conquistato le seducenti vesti di meta ideale per umanisti e artisti che aspiravano ad elevare la propria sapienza o la propria arte su insegnamento delle vestigia dell’Antichità. I germogli di quella piena fioritura rinascimentale romana avevano già cominciato ad affacciarsi grazie alla vocazione mecenatistica di papa Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, imparentato con la famiglia del primo protettore e committente di Michelangelo nella Roma borgiana, Raffaele Riario . Nonostante lo slancio nei confronti della “renovatio Urbis” non fu colto con altrettanto entusiasmo dai successori di Sisto IV, come papa Innocenzo VIII Cybo e papa Alessandro VI Borgia , l’arrivo di Michelangelo nell’Urbe avvenne in un periodo ancora avvolto da “un’atmosfera propulsiva, quando s’insisteva su una sperimentale riqualificazione urbana della Roma cristiana” .
II. Il Cupido dormiente e il primo soggiorno romano di Michelangelo Buonarroti (1496-1501)
Le circostanze che determinarono la prima esperienza romana di Michelangelo furono introdotte dalla realizzazione del Cupido dormiente da parte del giovane scultore, che risiedeva ancora a Firenze . Attualmente disperso, ma descritto da Condivi come “un dio d’amore, d’età di sei anni in sette, a giacere, in guisa d’uom che dorma” , il Cupido era un’opera di scultura in marmo a grandezza naturale, che fu contraffatta per fargli assumere le sembianze di un reperto di scavo da porre sull’emergente mercato antiquario romano
.
Nella breve biografia dedicata a Michelangelo nella prima edizione delle Vite vasariane, il responsabile del vero e proprio inganno, che si avvantaggiò delle abilità dello scultore all’oscuro di quanto stesse accadendo a Roma, fu Baldassarre del Milanese il quale, comprata la scultura, acconsentì alla sua contraffazione secondo la “maniera antica” . In accordo con quanto già raccontato da Paolo Giovio nella Michaelis Angeli vita, Vasari riferisce che il “fanciullo di marmo” fu poi “portato a Roma e sotterrato in una vigna”, riportato alla luce, fu “tenuto per antico” e “venduto gran prezzo” .
A tre anni di distanza dalla biografia vasariana, l’apporto della Vita di Michelangiolo di Ascanio Condivi arricchisce di nuovi dettagli il motivo della contraffazione: l’opera, caratterizzata come un “dio d’amore”, “Cupidine” o “putto” fu realizzata da Michelangelo al suo rientro a Firenze, nel periodo successivo al soggiorno bolognese e dunque datata tra la fine del 1495 e l’inizio del 1496 . Notata da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici detto il Popolano, il quale era a quel tempo diventato il protettore dell’artista, l’opera fu da quest’ultimo ritenuta di tale bellezza da suggerire allo scultore di contraffarla donandogli le sembianze di un manufatto antico
“che paresse stato sotto terra”, con l’intento di inviarla poi a Roma e offrirla in vendita come un reale reperto ad un costo elevato . La scultura, tramite un intermediario il cui intervento è omesso dal Condivi ma che Vasari avrebbe poi ribadito di riconoscere in Baldassarre del Milanese, giunse a Roma . Il mancato riferimento a Baldassarre del Milanese è probabilmente motivato dal risentimento che “colui” provocava ancora nello stesso artista, anni dopo averlo truffato insieme a Lorenzo di Pierfrancesco ed aver intrattenuto una controversia con entrambi in relazione alla scultura .
Nella seconda edizione delle Vite, Vasari menziona nuovamente il coinvolgimento di Baldassarre del Milanese o altri personaggi a lui legati. È proprio la figura di “Baldassarri del Milanese” a permettere che la scultura venisse mostrata a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, anch’egli incluso da Vasari nell’episodio. Baldassarre condusse poi il Cupido a Roma, lo interrò in una vigna di sua proprietà e lo vendette al cardinale per la somma di duecento ducati . Contestualmente, il biografo aretino menziona anche un’altra versione, secondo la quale l’inganno fu perpetrato mediante un emissario dello stesso Baldassarre . Motivato dal desiderio di impreziosire la propria raccolta di antichità , l’acquisto da parte dell’allora cardinale di San Giorgio in Velabro Raffaele Riario del Cupido dormiente michelangiolesco non fu sicuramente casuale, se si tiene in considerazione che la stessa figura di Baldassarre Del Milanese poté fungere da tramite tra Michelangelo e Riario . Quest'ultimo corrispose, dunque, la lauta somma di duecento ducati d’oro, mentre Michelangelo a Firenze fu remunerato soltanto con trenta ducati .
Il cardinale si rese alla fine conto della truffa e decise di restituire l’opera a colui dal quale l’aveva comprata, perché era a tutti gli effetti un falso che era stato venduto con l’inganno ad un “principe della Chiesa” . Dai libri dei conti del banco Galli-Balducci si deduce che il 5 maggio 1496 il cardinale fu risarcito dei duecento ducati per l’acquisto forse troppo avventato dell’opera, che fu messa in vendita presso il Palazzo Sforza Cesarini a partire dal 27 giugno di quello stesso anno . Riario, tuttavia, decise di beneficiare dello stupefacente talento di quell’artista,
che aveva conquistato una reputazione dimostrando di saper rivaleggiare con la scultura antica . Il cardinale, pertanto, incaricò forse Jacopo Galli di partire per Firenze con l’intento di identificare l’artefice dell’opera, convincendolo infine a recarsi con il suo emissario alla volta di Roma .
La commissione del Bacco, la prima opera prettamente romana di Michelangelo, avvenne all’indomani dell’arrivo a Roma, quando il giovane artista incontrò Raffaele Riario presso la “chasa nuova”, ossia il nuovo palazzo del cardinale allora in costruzione e in seguito denominato “la Cancelleria” . Michelangelo fu benevolmente ricevuto da Riario, che si giovò prontamente della sua opera, non limitandosi a mostrargli le sue collezioni, ma chiedendogli di “fa qual cosa di bello” . Michelangelo si trattenne nei pressi del cardinale per circa un anno, ma questo riferimento non comporta conseguentemente che l’artista abitasse davvero nella dimora di Riario, bensì solamente che prestò i suoi servizi presso di lui . Si potrebbe, infatti, dar credito alla prima edizione delle Vite vasariane e all’affermazione di Condivi, secondo il quale Michelangelo risiedette verosimilmente nella vicina residenza di Jacopo Galli , appartenente all’entourage del cardinale Riario , per tutto il tempo necessario alla realizzazione della scultura del Bacco [fig. 1] . Michelangelo rimase nella Roma di Alessandro VI Borgia fino alla metà del mese di maggio dell’anno 1501, per poi tornare a Firenze .
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Fig. 1: Giuseppe Vasi, Palazzo della Cancelleria, dalle Magnificenze di Roma antica e moderna, libro IV, incisione, 1747-1761, Wikimedia Commons.
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III. Riario e la rinascita della drammaturgia antica
La prima esperienza romana del giovane Michelangelo risulta profondamente segnata dall’amore per l’Antico, che egli coltivava e condivideva anche con Raffaele Riario e Jacopo Galli, suoi committenti e protettori, e che si riverberò nella creazione di opere quali il Cupido dormiente e il Bacco.
In particolare, gli interessi antiquariali praticati da Raffaele Riario furono incoraggiati dal rapporto instaurato con un audace intellettuale del suo tempo, Giulio Pomponio Leto , illustre fondatore dell’Accademia Romana, dedita agli studi proto-archeologici e alla cultura antiquariale e filosofica.
Già discepolo di Lorenzo Valla nello studio del latino e della Roma antica ,
sotto l’egida del cardinale Riario Leto fu professore preposto allo Studium Urbis . Tale umanista era animato da un sincero trasporto che lo conduceva ad un culto del paganesimo giudicato persino eversivo, tanto da essere esposto alla persecuzione politica e avversato almeno pubblicamente da papa Paolo II Barbo
. Gli studi proto-archeologici di Pomponio Leto e dei sodales della sua accademia che, come ha provato Maurizio Calvesi, rimandano al tema dell’eterodossia e del “neopaganesimo di matrice proto-archeologizzante ed antiquaria” furono trattati, infatti, con enorme sospetto . L’accusa di coltivare un materialismo epicureo insieme a quella di complottare contro il potere temporale della Chiesa funsero da pretesto per l’imprigionamento nel 1468 in Castel Sant’Angelo dei Pomponiani, che furono fatti processare dallo stesso Paolo II anche se poi ricevettero una completa assoluzione .
Nel decennio che precedette l’arrivo di Michelangelo a Roma, il cardinale Raffaele Riario era già attivamente coinvolto come importante promotore dell’impresa culturale portata avanti da Pomponio Leto e dai suoi seguaci, quella di “rifondare un sogno di radicale umanesimo” , ossia ridestare la gloria e le forme del teatro antico nella Roma cristiana, attraverso la messa in scena di drammi in latino, quali commedie, ma anche tragedie, di autori come Seneca, Plauto e Terenzio . Lo stesso cardinale Raffaele Riario arrivò a ricoprire il ruolo di vero e proprio “impresario”, come è rammentato dalle cronache del tempo , sapendo forse che gli spettacoli, così come i riti misterici e i sacrifici, potevano rivestire nell’antichità una funzione catartica e didattica . Tra gli spettacoli organizzati grazie al suo supporto, riuscì a mettere in scena due tragedie in latino a soggetto moderno e le cronache riportano anche un dramma scritto dallo stesso Riario nel 1480, la Conversione di San Paolo . Piazze all’aperto o altri spazi sufficientemente idonei allo scopo si offrivano come luoghi temporanei prescelti per gli spettacoli patrocinati da Riario, in attesa che il nuovo palazzo fosse completato .
In questo periodo,
proliferavano i dibattiti circa l’esatta ricostruzione all’antica della scena teatrale,
accesi dalle reinterpretazioni albertiane dell’imprescindibile testo di Vitruvio .
Furono proprio gli spettacoli organizzati con la supervisione di Riario ad essere allestiti per la prima volta in scene a carattere vitruviano . Il riferimento consapevole a Vitruvio concerneva pure l’integrale edificazione del nuovo palazzo del cardinale . Decantato da Leto come “marmoream domum” , il palazzo era concepito secondo chiari principi antichi , analoghi a quelli che il cardinale poteva riscontrare nella prima edizione a stampa del trattato vitruviano De Architectura. Tale pubblicazione, datata intorno al 1486-1487, fu forse finanziata da lui stesso e curata da Giovanni Sulpizio da Veroli, discepolo di Pomponio Leto e insegnante come lui presso lo Studium Urbis dal 1480 . Nell’introdurre l’edizione di Vitruvio, non a caso, Sulpizio antepose una lettera dedicatoria al magnanimo Raffaele Riario, nella quale è significativamente ribadito il riconoscimento dell’importante ruolo rivestito dal cardinale come fautore della rinascita del teatro antico . Secondo l’umanista, Raffaele Riario, celebrato in quanto esperto di Vitruvio , avrebbe conseguito un’insigne reputazione se avesse incoraggiato la costruzione di un teatro stabile, il primo dai tempi dell’antichità . L’edizione vitruviana non assunse quindi il solo valore di lavoro storico , ma aspirava anche a rivestire il ruolo programmatico di catalizzatore di una rinascita dell’Antico in ambito teatrale.
La costruzione del palazzo del cardinale Raffaele Riario si presentava come l’occasione tanto attesa di vedere realizzato uno spazio scenico che potesse essere all’altezza di ospitare e far rivivere le antiche rappresentazioni, materializzando le aspirazioni utopiche dei Pomponiani . Nel sito di San Lorenzo in Damaso, Pomponio Leto riconobbe persino la localizzazione dei resti del Teatro di Pompeo , come si può verificare nelle note topografiche ricavabili dai manoscritti degli Excerpta . In virtù della fatidica comunanza del sito, la nuova solenne dimora di Riario avrebbe dunque rivestito il ruolo di palazzo e di teatro insieme, mantenendo degnamente alto lo sfarzo che aveva già contraddistinto il rinomato Teatro di Pompeo . La raffinata residenza intendeva porsi come l’emblema della Renovatio quattrocentesca, che avrebbe riconsegnato l’istituzione fondamentale del teatro all’era moderna . Nel caso del palazzo romano di Riario, si decise di allestire uno spazio teatrale nel cortile . I suoi quattro lati, delimitati da portici e raffrontabili con i modelli teatrali di Vitruvio, potevano essere ornati con statue collocate scenograficamente per il godimento degli ospiti e offrire allo stesso tempo un pratico riparo in caso di pioggia, oppure trasformarsi al bisogno in rimesse per i macchinari e gli apparati scenici [fig. 2] .
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Fig. 2: Il cortile di Palazzo della Cancelleria visto dal portico d’ingresso, Wikimedia Commons.
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In accordo con il progetto mecenatistico di Riario , l’evidente connessione tra il palazzo e il teatro trova una riprova nella probabile decorazione statuaria che continuava ad essere prevista per il portale secondo il progetto più tardo attribuito ad Antonio da Sangallo il Giovane e che era in ogni caso già destinata ad arricchire l’arredamento dello spazio del cortile , elegante ma sobrio . Le due statue colossali romane insieme alle quali il Bacco sarebbe stato esposto, infatti, la cosiddetta Melpomene e Giunone, notate presso il palazzo da Albertini nel 1509-1510, dovevano forse essere collocate fin dall’inizio nel cortile . La scultura michelangiolesca del Bacco sarebbe stata dunque integrata in una compagine figurativa ben pianificata e costituita da statue antiche che alludevano alle arti dello spettacolo . Permangono comunque ancora delle riserve sulla precisa disposizione del Bacco all’interno del cortile: si presume che la statua michelangiolesca fosse posta al centro del cortile in modo da precedere le gradinate mobili ; un’altra possibilità prevede tuttavia la collocazione laterale oppure l’inserimento tra le arcate centrali al pianterreno, che avrebbe reso dunque la statua disponibile all’occorrenza a diventare parte del fondale di una scena teatrale, onorando così le proposte archeologizzanti dei vitruviani .
IV. Michelangelo, il Bacco e i Pomponiani
L’ideazione di uno spazio per le rappresentazioni poetiche e teatrali nel cortile del palazzo di Raffaele Riario andò a fondare i presupposti per la scelta del soggetto dell’opera michelangiolesca destinata alla sua decorazione . Il Camerlengo volle infatti commissionare a Michelangelo una statua di Bacco per rappresentare i riti dionisiaci attraverso i suoi simboli occulti e per raffigurare soprattutto il dio inteso come inventore e protettore del teatro .
Nella cultura rinascimentale, il mito di Dioniso aveva già ricevuto considerazione critica da parte di Angelo Poliziano , che restituì per primo Le Dionisiache, il poema alessandrino accolto nel 1481 nella biblioteca di Lorenzo il Magnifico, a Nonno di Panopoli . Diversi letterati del Quattrocento, inoltre, compresi Pomponio Leto e Raffaele Riario, rievocando la funzione sociale di specifici spazi pubblici nelle città antiche greche e romane, avevano compreso come Dioniso soprintendesse, oltre al vino e ai baccanali, anche al teatro e alla danza . Nel De Architectura, lo stesso Vitruvio, trattando della selezione dei luoghi urbani ad uso pubblico , aveva confermato l’opportuna connessione dei templi di Apollo e di Libero, e in particolare delle statue di quegli dei, con gli spazi teatrali animati dagli attori da loro protetti .
La scelta di realizzare un gruppo di due figure rappresentante un Bacco con un piccolo Satiro dovette essere consapevolmente presa di comune accordo tra artista e committente [fig. 3] . Il soggetto della statua, infatti, potrebbe esser stato suggerito da Pomponio Leto allo scultore e al suo mecenate, i quali, forse per ricevere qualche dotto consiglio anche a carattere iconografico , si sarebbero rivolti proprio a lui che poteva istruirli al meglio sull’effettiva natura della divinità mitologica . In quel tempo a Roma, Pomponio Leto era l’esperto più stimato sul mito antico, tanto da aver pubblicato un libro sulla genesi dei trionfi connessi con la figura di Bacco . Si potrebbe supporre che il giovane artista avesse presenziato anche ad una messa in scena ad opera dei Pomponiani, comprendendo in maniera concreta quanto la loro conoscenza antiquariale fosse necessaria all’interpretazione della scultura antica .
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Fig. 3: Michelangelo Buonarroti, Bacco, marmo, altezza con la base 209 cm, altezza della sola figura 190 cm, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 10 S, Wikimedia Commons.
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La forma e l’essenza dell’opera michelangiolesca necessitano dunque di essere rivalutate accogliendo il presupposto che esse traggano vita soprattutto dalle fonti letterarie e filosofiche antiche, coltivate da Michelangelo anche su impulso di Raffaele Riario e dei Pomponiani. Tale gruppo marmoreo è stato definito da Stefano Colonna, infatti, come la “prima opera romana di interesse antiquariale” di Michelangelo Buonarroti . Si potrebbe anche individuare una riprova dell’intenzionale valore antiquariale di questa scultura nelle parole scelte dallo stesso Condivi, che descrive il Bacco come un’opera “la cui forma ed aspetto corrisponde in ogni parte all’intenzione delli scrittori antichi” . Dimostrandosi, pertanto, a conoscenza delle fonti antiche , il giovane artista riuscì ad esprimere al meglio l’essenza di Bacco in quanto dio dei “gioiosi misteri” e protettore delle arti drammatiche. Per esprimere tutto l’ambiguo pathos contenuto nel potere di Bacco di comparire con travestimenti imprevisti e palesarsi apertamente con fatali colpi di scena, Michelangelo ricreò nel marmo una fluida compresenza di forme illusorie mutevoli che si fondono in armonia .
La straordinaria attitudine di Michelangelo a cimentarsi con un soggetto indubbiamente erudito quale il mito antico di Dioniso dimostra come il contenuto simbolico del Bacco sia da vagliare attraverso molteplici livelli di significato che coinvolgono richiami alla natura divina dell’anima . In questo senso, una nuova linea interpretativa, diversa e meno angusta rispetto a quella espressa dalla critica in passato , sostiene che il valore della componente femminile della figura del Bacco michelangiolesco sia stato frainteso e respinge l’idea che la resa instabile del suo portamento rappresenti semplicemente il simbolo dell’ebbrezza e dell’esito al quale si perviene attraverso i suoi eccessi .
Innanzitutto, se esaminato da alcuni punti di vista, la corporatura del dio assume una morbidezza quasi femminea, come già magistralmente espresso da Vasari nella prima edizione delle Vite . Il biografo aretino riconosce nel Bacco un inedito concetto di grazia maschile esibita con fierezza . La disorientante e divina corporeità del Bacco, giovane uomo dal corpo affusolato ma voluttuoso come quello di una donna, permette a Vasari di illustrare la sublime Virtù di Michelangelo e la sua arte complessa ed elevata . L’anima del dio michelangiolesco, fragilmente in bilico tra la femminilità e la mascolinità, è in verità un motivo assiduo nella tradizione letteraria riferita ai temi dionisiaci e nella drammaturgia antica, come ad esempio nelle Baccanti di Euripide . Michelangelo ha scelto di concentrarsi sui valori plastici di un corpo giovane e, in un magistrale equilibrio di vedute, è riuscito a creare una summa delle più gradevoli caratteristiche maschili e femminili insieme. Con una sintesi tra l’imitazione della natura e la sua sublimazione mediante i modelli letterari classici e figurativi tardo-ellenistici, Michelangelo arrivò a concretizzare una bellezza misurata ma con prerogative sovrumane e quindi divine .
D’altra parte, si sono rivelati esigui i casi nella storiografia critica di studiosi che, riguardo al Bacco, non si sono limitati a valutare la postura del dio soltanto come quella di un giovane ubriaco in procinto di perdere l’equilibrio . Condivi, ad esempio, lesse una morale sottesa all’opera di Michelangelo, in quanto dava forma e immagine alle conseguenze del bere, dissuadendo dall’intemperanza . L’ “amor del vino”, che si impadronisce e assoggetta fino alla distruzione l’uomo, era dimostrato dall’espressione appagata del viso del giovane dio e dallo sguardo dissoluto concentrato sulla coppa, così come la pelle d’animale appariva come un presagio di morte . Tale valore di monito, in realtà, dovrebbe più verosimilmente essere considerato una forzatura concepita in un periodo molto più tardo e lontano dall’approccio culturale tipico del pieno Rinascimento, come quello della Riforma Cattolica .
La lettura condiviana dell’opera di Michelangelo non convince a pieno, infatti, se si considera che per gli autori classici e del tardo Quattrocento l’ebrezza del dio assumeva un significato di gran lunga più positivo . Marsilio Ficino , filosofo neoplatonico appartenente alla cerchia di Lorenzo de’ Medici, in una lettera indirizzata ad un amico nel 1481 rivela che l’ebrezza di Dioniso è da interpretare come un’esperienza che consente l’epifania e il chiarimento dei misteri divini . Il cardinale Riario, per commissionare a Michelangelo una statua di tale soggetto, aveva probabilmente appreso grazie all’amico Marsilio Ficino come il Bacco fosse il dio del Furor creativo, che innalza l’anima dell’artefice liberandolo delle spoglie terrene . La spiegazione di Ficino si fonde su un noto brano del Fedro di Platone , dove sono esposte quattro tipologie di furore divino . Anche Ascanio Condivi coinvolge, nella sua biografia del maestro, la filosofia di Platone , ascrivendo la vocazione di Michelangelo ad un amore puramente platonico per la bellezza sensibile . Questo “amor di bellezza” a cui si riferisce Condivi è quello che guida l’ascesa graduale dal basso verso l’alto, fino ad arrivare a Dio .
Sergio Risaliti e Francesco Vossilla notano, inoltre, come Buonarroti potesse attingere a modelli di arte romana che raffiguravano, soprattutto nei rilievi di sarcofagi, un Bacco solitamente sorretto da Sileno o da Satiri, nel caso in cui lo si volesse rappresentare nel suo stato di ebrezza, secondo un’iconografia che fu quindi consapevolmente elusa nell’opera michelangiolesca . Il Satiro che si affaccia lateralmente, godendosi l’uva che il Bacco di Michelangelo lascia pendere verso il basso, infatti, non funge da supporto per il giovane dio ma va invece inteso come una figura essenziale, rivestita dell’importante e autonoma funzione di agire come polo di opposta natura, “rustica” e “intemperante”, rispetto alla bellezza divina del Bacco, in un equilibrio di contrasti secondo il concetto espresso da Marsilio Ficino, ossia che “la deformità e la bellezza son contrarii” .
Il giovane dio avanza dolcemente l’asse del bacino per schiudersi in quello che potrebbe essere piuttosto riconosciuto come un accenno ad un leggiadro passo di danza, raffigurato in fieri mentre il tallone si alza coreograficamente insieme alla gamba . Nell’instabilità della sua posa potrebbe leggersi dunque un possibile riferimento di Michelangelo alla figura e al ritmo del ballo dionisiaco, il choros . Il passo evocato ricorda quello, riferito dagli antichi, in cui i celebranti alzavano con il braccio destro il tirso, che è sostituito in questo caso dalla coppa, insieme al piede corrispondente . Secondo Risaliti e Vossilla, il giovane scultore ha raggiunto il vincolo impostogli dalla materia e, intenzionato a scolpire un unico blocco di pietra, non ha voluto accentuare ulteriormente la distanza del piede dal suolo . Si potrebbe però a maggior ragione ritenere che la postura di Bacco non fu ideata tenendo conto dei limiti tecnici imposti dalla realizzazione materiale della scultura, bensì aderendo ad un concetto di postura specifico che Michelangelo poté già ammirare in un dipinto di Luca Signorelli, realizzato intorno al 1490 per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici o Lorenzo il Magnifico, proprio durante il periodo di frequentazione del Giardino di San Marco da parte del giovane scultore a partire dal 1489-1490 circa . Il dipinto, distrutto a Berlino durante la seconda guerra mondiale ma riprodotto in alcune immagini ancora circolanti, raffigurava l'Educazione o Regno di Pan [fig. 4].
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Fig. 4: Luca Signorelli, Educazione o Regno di Pan, tempera su tela (194 × 257) cm, già a Berlino, Kaiser-Friedrich-Museum, distrutto, riproduzione fotografica della Gemäldegalerie der Staatlichen Museen zu Berlin.
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In un contesto assimilabile ad un soggetto dionisiaco, la figura del musico voltato di spalle mostra una stretta somiglianza con il Bacco michelangiolesco, nella corporatura e nella postura, compreso il piede sollevato dal suolo [fig. 5]. Si suppone di aver ritrovato, dunque, una dimostrazione visiva della proposta di riconoscere nella figura del Bacco un riferimento alla danza dionisiaca, in un analogo ambito musicale e quindi rituale. Nella realizzazione della scultura per Raffaele Riario, Michelangelo Buonarroti probabilmente aveva in mente la figura che Luca Signorelli aveva dipinto per i Medici, storici nemici della famiglia del cardinale.
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Fig. 5: Confronto visivo tra il Bacco di Michelangelo e un dettaglio dell’Educazione o Regno di Pan di Luca Signorelli.
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Con il Bacco, quindi, l’imprevedibile creatività di Michelangelo sconvolse ogni aspettativa che avrebbe potuto risiedere nella tradizione scultorea , per arrivare ad una figurazione all’antica che contenesse però le più alte acquisizioni letterarie e filosofiche raggiunte dall’età classica fino al Rinascimento, che lui stesso coltivava e di cui si trova un riflesso nella sua produzione poetica. In un suo sonetto, ad esempio, egli rivela il vero senso della bellezza terrena per le persone sagge, che possono scorgere in essa il riflesso di quella divina e assoluta .
V. Una nuova interpretazione del “rifiuto” del Bacco
L’errata valutazione della natura del Bacco di Michelangelo ha influito anche sulla carente considerazione delle circostanze che ne segnarono il destino a partire dal cosiddetto “rifiuto” da parte del suo committente . Molti pareri discordanti della critica artistica si sono concentrati sulla mancanza di una idealizzazione nei lineamenti del Bacco, come il giudizio negativo espresso da Canova in una lettera scritta a Cicognara nel 1815 . Secondo altri, il cardinale Riario avrebbe percepito dei presupposti riferimenti alla sfera peccaminosa dell’ubriachezza e dell’erotismo, insiti in un’opera dal soggetto ambiguo e dalla posa provocante, e se ne sarebbe voluto distaccare, allarmato dai giudizi altrui . Frommel giustifica tale rinuncia di Riario, invece, con una sua perdita d’interesse nei confronti della statua che lasciò quindi a Jacopo Galli .
La presente indagine suggerisce però di escludere la perdita d’interesse da parte di Riario come causa del mancato trasferimento definitivo del Bacco nel palazzo del cardinale. È vero che l’impatto di Riario in campo artistico, strettamente connesso con l’Umanesimo dei Pomponiani, si concentrò nel decennio precedente il 1496 e che venne meno durante i pontificati di Giulio II e Leone X . Negli anni della commissione del Bacco, tuttavia, e in quelli successivi, l’attività di mecenatismo da parte di Riario non cessò del tutto, tanto che non ci sarebbe stato motivo di non accogliere nel proprio palazzo una statua ormai conclusa e pagata. Intorno al 1512, ad esempio, Raffaele Riario commissionò a Baldassarre Peruzzi e Jacopo Ripanda la decorazione del salone dell’Episcopio di Ostia e negli anni subito successivi fu forse coinvolto nella realizzazione del Teatro della Passione di Velletri . Nel 1514, inoltre, Riario pagò uno scultore per l'esecuzione di una statua e, secondo Cornelio de Fine, nella basilica di San Lorenzo in Damaso ordinò di realizzare la tomba parietale nella quale fu inumato .
Bisogna dunque ripartire da un dato fondamentale, ovvero la considerevole somma totale di centocinquanta fiorini d’oro che Raffaele Riario versò al giovane Michelangelo presso il banco dei Galli-Balducci in tre frazioni, fino all’ultima datata al 3 luglio 1497 . Nel caso del Bacco, non si può quindi parlare di “rifiuto”, perché se Riario non fosse rimasto soddisfatto dell’opera, per la resa formale oppure per il mancato apprezzamento del suo gusto quattrocentesco o, ancora, per la scelta del soggetto, non avrebbe retribuito ripetutamente l’artista fino all’ultimo pagamento stabilito, ma avrebbe sospeso i versamenti alle prime rate . La cautela nel rapportarsi con Riario, espressa da Michelangelo nella lettera spedita il primo luglio 1497 al padre Lodovico a Firenze, dimostra come il saldo del pagamento sarebbe prontamente avvenuto solo in accordo con il pieno soddisfacimento delle richieste del committente. Si potrebbe anche aggiungere che la supposizione di una ritrattazione della scelta del soggetto, considerato “scandaloso” nella sua esposizione in un’area significativa del palazzo, non potrebbe essere verosimile né conciliabile con l’originale progetto del committente, il quale desiderava collocare intenzionalmente il Bacco insieme ad altre statue antiche in un allestimento coerente, il cui contenuto sarebbe stato comprensibile soltanto in quello specifico contesto rappresentativo .
Nonostante dalle note di spesa di Riario e dalla lettera di Michelangelo del 1497 si possa desumere che la realizzazione del Bacco fosse conclusa nella tarda primavera o al principio dell’estate di quell’anno , le testimonianze visive e documentarie suggeriscono l’ipotesi che il Bacco non fu accolto in maniera definitiva nel nuovo palazzo di San Lorenzo in Damaso, né durante questi sei anni, né dopo, bensì restò probabilmente presso l’abitazione dell’amico Jacopo Galli . È stato però ipotizzato che Riario avesse iniziato ad alloggiare presso la nuova residenza fin dal gennaio del 1497, benché i lavori di costruzione non fossero ancora completati e il cortile-teatro del palazzo fosse ancora occupato da materiali di costruzione e operai indaffarati . Giovanni Agosti sostiene, inoltre, che il Bacco fu effettivamente collocato nel palazzo di Riario e che rientrò poi in casa Galli in coincidenza con l’abbandono di Roma da parte di Riario nel novembre del 1497 . In base anche a queste ultime considerazioni, si potrebbe sostenere l’ipotesi che il reale ostacolo al definitivo allestimento del Bacco non vada comunque ricercato nell’intralcio provocato dai lavori di costruzione del palazzo, bensì nel timore di una reazione ostile del papa Borgia, giustificata dai significati di un programma mecenatistico esposto fin troppo temerariamente.
Si propone, in particolare, che la riflessione circa il profondo legame intellettuale del gruppo scultoreo michelangiolesco con l’antichità classica sia stata una delle giustificazioni per il “rifiuto” dell’opera da parte del committente . Tale rifiuto potrebbe essersi basato sulla volontà di nascondere il chiaro e quindi rischioso valore antiquariale dell’opera pur approvandone il significato. La comunanza culturale che interessava la cerchia di Pomponio Leto e Raffaele Riario e che costituì le condizioni per la nascita del Bacco rende plausibile l’ipotesi che si volessero occultare i loro interessi antiquariali e i frutti di quelle attività intellettuali poiché appartenevano ad un ambito che era stato giudicato eversivo e potevano diventare, pertanto, il pretesto perfetto per giustificare le mire di papa Borgia sul patrimonio del cardinale .
È importante notare, infatti, come Riario rivestì i ruoli del potente ecclesiastico insieme a quelli di politico e fu capace di immergersi nell’azione storica fronteggiando i poteri avversari, che intendevano immobilizzarlo in una rete oscura di intrighi e di alternanze di fortuna e che lo condussero infine alla confisca del suo totale patrimonio da parte di papa Leone X de’ Medici . In particolare, dal 21 novembre 1499 fino al mese di settembre del 1503 il cardinale, a causa dei rapporti tesi con l’ostile papa Borgia reputato corrotto e dissoluto dallo zio Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II, fu costretto ad abbandonare Roma per ritirarsi in Francia, in quello che potrebbe essere considerato a tutti gli effetti un esilio. In una tale drammatica situazione, pesavano le mire di Alessandro VI Borgia nei confronti del palazzo del cardinale e delle sue copiose prebende, alle quali Riario seppe comunque resistere grazie alle sue influenti amicizie . Si potrebbe dunque imputare il rallentamento dei lavori alla fabbrica del palazzo e l’allestimento delle statue per decorarlo a questo stato conflittuale esistente tra Riario e il papa Borgia, che perdurò fino al 1503, anno della morte di quest’ultimo .
Nella dimora del fidato Jacopo Galli, invece, il Bacco di Michelangelo poteva mostrarsi nel frattempo libero da quei dissidi politici che, nello scorcio del secolo, affliggevano Riario e quanti si sentivano minacciati dalla sete di potere della famiglia Borgia, che si era già impossessata del Cupido dormiente del giovane artista . La commissione del Bacco va quindi considerata nel più vasto e colto progetto mecenatistico del cardinale Riario, che può essere confrontato con quei tentativi di mecenatismo culturale aspiranti ad una funzione pubblica, ma che negli anni oscuri del papato Borgia dovettero ritirarsi in una forma privata o addirittura anonima. La minaccia comune per questi patroni e umanisti era quella di imbattersi nel famigerato “livor rabidus” che la temibile famiglia di Alessandro VI nutriva nei confronti di chiunque potesse intralciarne la brama di espansione del loro dominio . La stessa sorte incontrò l’Hypnerotomachia Poliphili, il cui autore fu costretto a celare il suo nome dietro l’acrostico inserito nell’editio princeps dell’opera .
Successivamente alla morte di Pomponio Leto avvenuta poco dopo la realizzazione del Bacco nel 1497 e trascorso l’arduo periodo d’esilio, Raffaele Riario accantonò l’aspirazione a poter impiegare il cortile del palazzo di San Lorenzo in Damaso come un teatro . Le velleità del cardinale furono definitivamente spente con il simbolico atto pubblico di sottomissione al quale fu costretto il 24 luglio 1517, di fronte all’intero collegio cardinalizio di cui era persino decano . Il perdono del papa e di tutta la famiglia de’ Medici per gli episodi cruenti del secolo precedente, compresa la congiura Pazzi-Salviati, implicò l’elargizione da parte di Riario della somma di centocinquantamila ducati d’oro, oltre alla tragica confisca del palazzo di San Lorenzo in Damaso che cadde nelle mani di Giulio de’ Medici, designato come esecutore testamentario del cardinale. Spogliato anche della carica di Camerlengo, Riario si spense a Napoli il 7 luglio 1521 .
VI. Conclusioni
Si è così aperto uno scenario nuovo che presenta Michelangelo e i suoi primi mecenati a Roma in uno stretto quanto rischioso contatto con l’Accademia Pomponiana negli anni del papato Borgia. Nonostante tutta la cultura di fine Quattrocento si svolse all’insegna di un cosiddetto “neopaganesimo filosofico”, che coinvolgeva spesso uomini di Chiesa o di professione cristiana, gli interessi antiquariali che accomunavano la dotta cerchia dei Pomponiani, Raffaele Riario e Jacopo Galli potevano apparire sospetti al potere papale ed offrirsi all’occorrenza come una giustificazione delle mire della famiglia Borgia . Questo dato è stato oscurato fin dai tempi delle biografie di Condivi e di Vasari, che forse volevano minimizzare l’impatto che Riario e il suo entourage ebbero sulla formazione del giovane artista, profondamente segnata dai legami del cardinale con la cultura sincretica di Marsilio Ficino e Pomponio Leto, probabilmente visti ancora con circospezione, specialmente nell’età tormentata della Riforma Cattolica .
Molteplici sono inoltre i rapporti di sodalitas culturale coltivati tra gli umanisti e i mecenati gravitanti intorno a Michelangelo in un fertile terreno che si estendeva persino oltre la città papale. A Jacopo Galli, ad esempio, il veronese Baldassarre Crassi, reputato da Giuseppe Biadego un parente di Leonardo Crassi, finanziatore dell’Hypnerotomachia Poliphili , dedicò nel 1498 alcuni esametri premessi alle Epistole familiari di Matteo Bosso . Da Raffaele Riario scaturisce un’altra serie di interessanti legami culturali, che introducono la figura del letterato bolognese Achille Bocchi, il quale dedicò al cardinale la sua Apologia in Plautum, stampata a Bologna nel 1508 . Il cardinale condivise anche con Francesco Colonna, signore di Palestrina, la frequentazione del contesto antiquariale romano e il comune filo-ellenismo manifestato nelle produzioni letterarie .
La stessa matrice comune rinascimentale del neoplatonismo ficiniano maturò in quella “religione di tipo lucreziano e sincretista, con una componente filosofica di matrice epicurea colta” che contraddistinse l’Accademia Pomponiana nel secondo Quattrocento, fino ad informare anche l’ Hypnerotomachia Poliphili . Imprescindibile figura di riferimento per gli studi antiquari, Pomponio Leto è stato riconosciuto da Maurizio Calvesi, infatti, come uno dei preminenti ispiratori della cultura antiquariale di Francesco Colonna romano, fino a proporre la sua appartenenza all’Accademia romana e ad annotare le tracce delle sodalitates culturali intrattenute tra i Pomponiani e la famiglia Colonna di Roma . In casa Colonna avrebbe avuto poi sede l’Accademia Vitruviana (o Accademia della Virtù), fondata nel 1542 con la partecipazione di Claudio Tolomei che tenne, sempre in casa Colonna, un’accademia architettonica alla presenza dello stesso Michelangelo . La presenza di Leto tra i dedicatari degli Epigrammata, datati al 1499 del Vertunno bresciano Stefano Buzzoni, conosciuto con lo pseudonimo di Vosonio, ha suggerito anche l’ipotesi di legami culturali probabilmente intessuti tra i membri dell’Accademia Pomponiana e gli accademici Vertunni . Nei contenuti del mito di Vertumno e Pomona, che caratterizza il nome dei Vertunni, è possibile riconoscere, non a caso, i sintomi della stessa religione di tipo lucreziano che dovevano contraddistinguere anche l’Accademia di Pomponio Leto . La tematica inerente alla fertilità della natura e alla protezione del mondo agricolo si lega, infatti, alla figura di Priapo, che è affine sia alle divinità protettrici dei campi, Vertumno e Pomona, sia agli interessi della cerchia pomponiana . Il mito priapeo trova pure delle tangenze nei riti intitolati a Dioniso e dunque alla stessa figura del Bacco che, secondo diverse fonti, era padre di Priapo.
Queste tematiche dovettero sicuramente entrare a far parte del bagaglio culturale di Michelangelo, che agì da attivo protagonista in questa rete di rapporti spesso coincidenti tra artisti, umanisti e committenti. L'artista non si risparmiò dall’alimentare costantemente la sua cultura umanistica, fin dalla giovane età: si dedicava agli studi letterari e filosofici e alla composizione poetica, assisteva probabilmente alla messa in scena di drammi classici ad opera dei Pomponiani e curava i rapporti con letterati e filosofi del tempo, tra i quali si annovera non solo Angelo Poliziano, che era in stretto contatto con lui , ma anche molti intellettuali della cerchia dei Pomponiani.
Alla luce di queste acquisizioni, i contenuti delle opere michelangiolesche e la loro stessa genesi assumono un nuovo valore, permettendo di comprendere ad esempio come il Cupido dormiente rappresentasse un falso poetico antiquariale, creato forse originariamente da Michelangelo non con il deliberato intento della truffa, ma come una squisita “prova di genio” e sfida giocosa svolta inseguendo gli stessi principi dell’antico che animavano la cultura romana pomponiana, nella quale vide la luce l’Hypnerotomachia Poliphili. La medesima aspirazione si ritrova, in particolare, nelle epigrafi “d’invenzione” contenute nell’opera polifilesca, che non possono essere reputate dei falsi, bensì delle “invenzioni poetiche” necessarie alla trasmissione di un messaggio occulto . Nel significato antiquariale del Cupido, il “dio d’amore” addormentato , è possibile percepire, inoltre, una cornice allegorica, narrativa e figurativa insieme, complementare a quella polifilesca della “battaglia d’amore in un sogno” .
Anche il confronto tra la figura del musico voltato di spalle dipinto nell’ Educazione di Pan di Luca Signorelli e la postura del Bacco comprova le più profonde implicazioni filosofiche e letterarie, prospere di richiami al pensiero antico, nascoste nel gruppo scultoreo. Il culto michelangiolesco per la bellezza delle forme non è fine a se stesso , infatti, ma permette di anelare al divino, in quanto celebrato nella figura del Bacco colta nell’atto di raggiungere il chiarimento dei sacri misteri anche attraverso un momento fondamentale del rituale religioso dionisiaco, ossia quello della danza. Il valore spirituale dell’opera diventa ancora più pregnante se si considera che nel cristianesimo si sono voluti riconoscere spesso elementi di derivazione dal mito dionisiaco. Dalla Parafrasi del Vangelo di San Giovanni di Nonno di Panopoli, dove il vino riveste un ruolo di anticipazione della passione e resurrezione cristologica comparabile a quello nelle Dionisiache , si è arrivati a considerare il Bacco come la prefigurazione di Cristo , “il dio del pane e del vino, che redime, muore e risorge” . L’armonico equilibrio che ne consegue, anch’esso d’intonazione classica, tra la visione cristiana e quella cosiddetta pagana ben si accorda con quell’ “esoterismo prudenziale cristiano” praticato dall’Accademia Romana di Pomponio Leto. Il cripticismo di ascendenza accademica che accomuna l’Hypnerotomachia Poliphili e il Bacco michelangiolesco non va invero imputato alla volontà di celare “un atto di fede eterodossa” nel richiamo ai riti pagani, bensì al più profondo intento di rendere riservata l’esperienza di “accesso sperimentale ai dati antiquariali in una chiave proto-archeologica”, ancora non acconsentita in maniera ufficiale dalla curia romana , oltre alla necessità di generare simbologie atte ad adombrare le istanze politiche connesse con i turbolenti avvenimenti storici coevi e, in particolare, con le ambizioni dei repubblicani antimedicei .
Si è fin qui compreso, quindi, come Michelangelo Buonarroti fosse particolarmente immerso nella rete di rapporti umanistici della Roma rinascimentale gravitanti intorno all’Accademia Pomponiana, pregna di interessi antiquariali e cultura classica, e ad essa contribuì non come semplice esecutore di mirabili opere d’arte, bensì come intellettuale a tutto tondo, che riusciva a vedere nell’Antichità classica non solo un repertorio di forme alle quali ispirarsi per elevare la propria arte, ma un mondo ricolmo di risvolti spirituali e filosofici da celebrare compiutamente attraverso la propria intera esistenza.
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ZOLLA, Archetipi ; Aure ; Verità segrete ; Dionisio errante : tutto ciò che
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