L’importanza e le
implicazioni del complesso pensiero di Pomponio Torelli (Fig. 1), conte di
Montechiarugolo, (Montechiarugolo, 1539 – Parma, 1608), autorevole letterato e
uomo di corte, precettore del Duca Ranuccio Farnese I, tra i principali
animatori e ricercatori dell’Accademia degli Innominati di Parma, di cui fu
guida intellettuale,
uno dei più salienti e innovatori tragediografi italiani della fine del XVI
secolo, figura nuova di «letterato – politico barocco e controriformista», studioso della natura e
delle implicazioni delle passioni e degli affetti, della poetica aristotelica,
«neoplatonico controriformato», non sono state fatte
oggetto di uno studio sistematico se non in tempi relativamente recenti.
Torquato Tasso,
come ben noto, è stato ampiamente studiato in molteplici discipline, ma non è
stata approfondita invece un’eventuale relazione del suo pensiero con la quasi
coeva teorizzazione degli affetti di Pomponio Torelli, pur essendo compagni di
Accademia sin dal 1581, anno nel quale Tasso entra a far parte degli Innominati
col nome di «Pentito».
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Fig. 1: Cesare Aretusi, Ritratto del Conte Pomponio Torelli, olio su tela, 1602, Galleria Nazionale di
Parma.
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Giovanni Potente
nel suo libro Eros e allegoria nella
Gerusalemme Liberata, del 2005, tratta ampiamente il tema del controllo e
uso a fini morali delle passioni nell’opera di Tasso, e pur rilevando il crescere col passare del tempo
della consapevolezza dell’autore della funzione morale ed etica dell’arte nel
suo tempo, con una conseguente messa a fuoco teorica, non pone mai in relazione
in alcun modo questa consapevolezza con la sua affiliazione alla Accademia
degli Innominati di Parma, che pure risale agli anni ’80 del sec. XVI ed ai
quali invierà il suo sonetto di dedica ed impresa solo più tardi, nel 1586,
quando verrà liberato da Sant’Anna, e alla coeva e molto
vicina teorizzazione della loro guida intellettuale, Pomponio Torelli.
La poetica degli
affetti, elaborata da Torelli lungo tutta la sua produzione, viene analizzata
in rapporto alle arti e l’influenza esercitata su alcuni capolavori da Stefano
Colonna nel suo libro sulla Galleria dei Carracci di palazzo Farnese a Roma. La complessità del
pensiero torelliano viene messa a paragone con quella di altri letterati,
compreso il Tasso. In Torelli il tema della Ragion di Stato, «il dilemma
ragione – non ragione», «essere – dover essere» viene ricondotto sotto la luce
razionale della morale cattolica dopo il Concilio di Trento, vedendo in ciò un
superamento della «concezione primitiva» del Tasso, meno serena e più manichea
rispetto alla conciliazione degli opposti di gran parte della cultura
umanistica con la nuova ideologia controriformistica, perseguita da Torelli. Colonna ravvede in ciò un
subentro degli «affetti barocchi»
alla «ratio rinascimentale», facendo
predominare «la moderazione, la conoscenza ed il controllo di sé», riconducendo l’etereo
mondo platonico delle idee ad un più proficuo contatto con la terrena medietas aristotelica. La differenza tra
Torelli e Tasso risiederebbe, tra le altre cose, nel fatto che quest’ultimo
trova la conclusione della tragedia nella «disperazione, mancato riscatto»,
mentre Torelli riprenderebbe il concetto della catarsi aristotelica potenziando
l’elemento drammatico teleologicamente volto ad una purificazione finale, scopo ultimo della
poesia.
Infine il tema degli affetti nell’opera di Tasso è stato affrontato
anche da Giovanni Careri. Molte delle istanze
affrontate trovano paragoni stringenti con il pensiero torelliano, come la
moderazione degli affetti, o le passioni quali
l’amore, il desiderio, l’ira, indirizzate ad un fine morale che le regoli e
utilizzi a fin di bene, il principio gesuitico
di purgazione dell’arte nell’arte, eppure anche qui manca
ogni riferimento alla frequentazione culturale di Tasso con l’Accademia degli
Innominati e alle elaborazioni di Torelli, pure così rilevanti in quel torno di
tempo.
Il letterato parmense si dedicò fortemente allo studio e teorizzazione
delle passione e suoi effetti, in particolare su cavalieri, principi e potenti,
che potevano col loro comportamento essere dannosi o al contrario porsi come
esempio morale per la società. Torelli non propone tuttavia l’annullamento
delle passioni, cosa che non sarebbe fattibile per l’animo umano, bensì la loro
temperanza e reindirizzamento verso più utili fini morali. Quindi
l’anima, che non può fare a meno di subire il corpo, non potrà evitare ogni
passione, ma tenderà verso quel piacere e amore divino originari che erano
essenti dal dolore; così le passioni sono provvidenzialmente utili a mettere in
moto l’animo e spingerlo verso l’ascesi contemplativa di Dio. In Torelli si verifica un
singolare e interessante sincretismo filosofico che coniuga l’aristotelismo con
un neoplatonismo ficiniano, il tutto alla luce della Controriforma. Anche se in
Tasso non troviamo una simile teorizzazione, così teleologicamente chiarita, vi
sono tuttavia degli aspetti comuni quantomeno singolari. Non bisogna
dimenticare infatti che anche il Tasso seguiva interessi filosofici molto
vicini, un aristotelismo temprato da neoplatonismo, lo studio di Marsilio
Ficino, sempre con riguardo alla dottrina cattolica.
La critica ha
spesso valutato Torquato Tasso sotto l’ottica di un dualismo che lo vedrebbe
combattuto in un sofferto dissidio interiore tra valori cristiani, istanze
controriformistiche da una parte e retaggi della cultura «“laica” e
“materialista” di stampo umanistico» dall’altra. Un
«bifrontismo spirituale» che produrrebbe
l’alternanza tra «carattere lirico e carattere romanzesco», una interpretazione
che trae matrice da De Sanctis, che nella sua Storia della Letteratura Italiana ritiene l’argomento
epico–religioso del poema tassesco «forzato ed estraneo alle vere vocazioni
dell’autore».
Ma questa
interpretazione non fa del tutto i conti con le diverse fasi del pensiero
tassiano. Il poeta stesso ammette un’evoluzione in corso da quando è cominciata
la revisione e lettura del suo poema da parte del gruppo di letterati a Roma,
dal 1575. Tra l’altro è già qui possibile apprezzare, ben prima della affiliazione
del Tasso all’Accademia degli Innominati che avverrà nel 1581, un suo riguardo
non indifferente ad accordare le varie istanze, filosofiche e poetiche, con la
dottrina cristiana, dovendosi soprattutto «accomodare all’umor di questi
tempi», in pieni anni di Controriforma. Il poeta, pur avendo
affermato nei suoi giovanili Discorsi
dell’arte poetica che fine della poesia è il diletto, non esclude con ciò un
impegno etico e morale, anzi, lo contempla esplicitamente, solo che non come
compito principale del poeta in quanto tale, bensì in quanto cittadino:
«Taccio per ora che dovendo
il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte della repubblica, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri
uomini con l’esempio de’ cavalieri fedeli che d’infedeli, movendo sempre più
l’esempio de’ simili che dei dissimili […]».
Comunque,
sia compito del cittadino piuttosto che del poeta, qui c’è già un esplicita
citazione dell’esempio insito nella poesia, volto al giovamento; esempio che
meglio farà presa quanto più muoverà gli affetti in virtù del principio di
somiglianza ed immedesimazione del lettore.
Tasso
e Torelli condividono le idee aristoteliche su come debba essere la lirica
moderna, che non potrà prescindere dalla verosimiglianza e la fama dei fatti ad
esempio.
Una teorizzazione
del poema epico moderno compiuta da Tasso, che sembra avere un peso non
indifferente nella riflessione accademica di quegli anni, con le lezioni
torelliane, databili agli anni tra il 1580 e 1590, che seguono dappresso, pur
con varianti di non poco conto, le orme dei Discorsi
dell’arte poetica di Tasso, pubblicati nel 1587 ma molto probabilmente già
noti nei contenuti all’Accademia, visto che Torquato lavorò alla loro stesura
verso il 1561 – 1562, e avendo verosimilmente
influenzato il dibattito innominato riguardo il genere epico. Un esempio viene dato per
quanto riguarda il canone aristotelico della scelta dell’argomento storico,
illustrato da Tasso nei Discorsi
dell’arte poetica in termini che verranno ripresi in modo pressoché
identico nelle successive lezioni di Torelli:
Tasso:
«La materia, che argomento può ancora comodamente
chiamarsi, o si finge, […] o si toglie dall’istorie. Ma molto meglio è a mio
giudicio, che dall’istoria si prenda, perché dovendo l’epico cercare in ogni
parte il verisimile […], non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono
quelle del poema eroico, non sia stata scritta e passata alla memoria de’
posteri con l’aiuto d’alcuna istoria».
Torelli:
«fingere l’attione in persone già note per istoria o
per fama, pur che quell’attioni non fossero convinte da contaria fama, o
contraria istoria», poiché «non è verisimile
che uomini illustri et sopra umani siano stati, de’ quali non si abbia notitia,
et tolto il fondamento del verisimile cade tutta la macchina della Poesia
Epica, non potendosi imprimer l’affetto tanto difficile senza gran vero
similitudine».
Come
possiamo però notare, Tasso fa principalmente appello a principi letterari
aristotelici quali la verosimiglianza delle storie, alla fama già diffusa di un
argomento, si appella alla libertà del poeta, all’autorevolezza di scrittori
antichi come Omero, ma non indica il fine catartico che potrebbero avere tali
difetti, e che per Torelli sarebbe stata la ragione più importante.
Ma,
attraverso le lettere che Torquato scambia coi revisori romani del suo poema in
sviluppo e con amici, è possibile cogliere un divenire, un crescendo di
preoccupazione ed insoddisfazione per quanto riguarda la validità della sua
opera e la convenevolezza ai tempi che corrono, come esplicita preoccupato in
una lettera dell’ottobre 1575 a Scipione Gonzaga:
«[…] forse anco io non ho avuto tutto
quel riguardo che si doveva al rigor de’ tempi presenti, ed al costume c’oggi
regna ne la corte romana: del che è buon tempo ch’io vo’ dubitando; ed ho
temuto talora tant’oltre, che ho disperato di potere stampare il libro senza
gran difficoltà».
Viste quindi le rimostranze fatte nei confronti del poema da alcuni dei
revisori più severi, Tasso decide di scrivere una allegoria del poema. In una missiva dell’ottobre 1575 a Scipione Gonzaga, Tasso
parla della allegoria che servirà a veicolare comunque messaggi buoni e santi:
«E cominciando da l’allegoria, dico
che dubitando io che quelle parti mirabili non paressero poco convenevoli a
l’azion intrapresa, ne la quale forse alcun buon padre del collegio germanico avria potuto desiderare più istoria e men poesia; giudicai
ch’allora il maraviglioso sarebbe tenuto più comportabile, che fosse giudicato
c’ascondesse sotto alcuna buona e santa allegoria.»
Un
famoso passo contenuto in una lettera indirizzata dal Tasso a Luca Scalabrino
nel giugno 1576, venne spesso citata dalla critica letteraria per dimostrare l’artificiosità , il non sentimento, di
questa allegoria aggiunta praticamente alla fine:
«Stanco di poetare, mi son volto a
filosofare, ed ho disteso minutissimamente l’Allegoria non d’una parte ma di
tutto il poema; di maniera che in tutto il poema non v’è né azione né persona
principale che, secondo questo nuovo trovato, non contenga meravigliosi
misteri. Riderete leggendo questo nuovo capriccio. […] Farò il collo torto e mostrerò ch’io non ho avuto altro fine che di
servire al politico, e con questo scudo cercherò ben bene di assicurare gli
amori e gl’incanti. Ma certo, o l’affezione
m’inganna, tutte le parti de l’allegoria son in guisa legate fra loro, ed in
maniera corrispondono al senso litterale
del poema, ed anco a’ miei principii poetici, che nulla più; ond’io dubito
talora che non sia vero, che quando cominciai il mio poema avessi questo
pensiero. Vi vedrete maneggiata, e volta e rivolta gran parte de la moral
filosofia così platonica come peripatetica, ed anco de la scienza de l’anima».
Quindi, sebbene Tasso parli di far «il collo torto» alla
severità dei tempi che corrono, non per questo ha realizzato un’opera che non
corrispondesse ai suoi principi poetici. Lui stesso lo conferma in una lettera
anteriore a quest’ultima, indirizzata a Scipione Gonzaga nel carnevale del
1576:
«non solo ho accomodato a
mio gusto tutto ciò ch’apparteneva alla favola; ma ancora migliorate molte cose
che riguardavano l’allegoria, della quale son fatto, non so come, maggior
prezzatore ch’io non era; sì che non lascio passar cosa che non possa stare a
martello».
E anche se sarebbe in certo qual senso una contraddizione
parlare di «allegoria istintiva», come suggeriva Adolfo Jenni in «Studi
tassiani», verrebbe pur da credere
che all’inizio della composizione il poeta non avesse un programma così ferreo
e strutturato di allegoria, ma che questa facesse già parte del suo modo di
sentire e scrivere, per cui quando si decise a redarla rimase quasi sorpreso
della precisione con cui il testo corrispondeva alle figure allegoriche.
Per ammissione dello stesso Tasso, parte importante in certi
cambiamenti, soprattutto intorno alla materia amorosa, l’ha avuta uno dei suoi
revisori romani, Flaminio De’ Nobili:
«Quanto
a gli amori et a gli incanti, quanto più vi penso, tanto più mi confermo che
siano materia per sè convenevolissima al poema eroico. Parlo de gli amori
nobili, non di quelli della Fiammetta, né di quelli che hanno alquanto del
tragico. Né tragici io chiamo solamente gl’infelici di fine (sebbene questi maggiormente
son tragici), perché la infelicità del fine, come testimonia Aristotele, non è
necessaria nella tragedia; ma tragici chiamo tutti quelli che son perturbati
con grandi e maravigliosi accidenti e grandemente patetici; e tale è l’amore di
Erminia, della quale accennerei volentieri nel poema il fine, e ’l vorrei santo
e religioso. Ora questa parte de gli amori io spero di difenderla in modo che
non vi rimarrà peraventura luogo a contraddizione; e mi varrò anco, fra le
altre ragioni, della dottrina del signor Flaminio nostro, insegnatami da lui
ne’ suoi libri morali, ov’egli attribuisce l’eccesso
dell’ira e dell’amore a gli eroi, quasi loro proprio e convenevole affetto;
e questa opinione è in guisa platonica, ch’insieme è peripatetica».
In questo passo ho ravvisato un punto di concordanza con
Torelli che, nelle sue disquisizioni sull’arte poetica, contempla la presenza
di personaggi suscettibili di eccessi, sia di vizi che di virtù, ma puntualizza
che su di essi non deve ricadere la catarsi finale, essendo essi cause
efficienti e non agenti della favola. Torelli va però più a fondo nella chiarificazione teorica,
identificando come questi «errori umani» «mossi d’affetti, che rapiscono la
natura nostra»,
mettono sì in moto il meccanismo della narrazione, come già detto da Tasso, ma
al fine di innescare l’effetto catartico. Così nel Trattato del debito del cavalliero, Torelli spiega che se queste
passioni soverchie possono essere presenti negli eroi, tanto più possono
esserci nei cavalieri, che identificandosi quindi con tali errori ne possono
venire mondati:
«[…] perciò posero i buoni poeti
molti falli in molti Heroi; non perché non vedessero, che male si convenivano
in persone eccellenti errori simili; ma per far noi più cauti con gli errori
loro, & così molti affetti smoderati, ne gli Dei, & ne gli Heroi si
espongono».
Il
conte di Montechiarugolo riprende alcuni concetti comuni al Tasso, ma ne
approfondisce e chiarifica alla luce della dottrina controriformistica gli
aspetti morali teleologicamente volti ad una precisa finalità. Ma pochi anni
dopo, in un altro scritto del Tasso, vediamo riprendere il tema degli eccessi
passionali negli eroi già con una maggior coloritura etica, in chiave di
contenimento degli affetti eccessivi. Nel dialogo «Il Forno overo de la
nobiltà», composto dal poeta nel 1578 e poi rielaborato più volte negli anni
‘80, nel periodo di maggior travaglio spirituale e psicologico, precipitato
nella reclusione nell’ospedale di Sant’Anna dal 1579,
l’autore torna sulle intemperanze eroiche per voce dei dialoganti, Antonio del
Forno, nobile modenese e Agostino Bucci, medico e cortigiano alla corte dei
Savoia:
Forno:
«La giustizia qualche volta è odiosa a molti , e la temperanza pare
odiosetta anzi che no, e la nemica sua fu amata almeno negli eroi, io dico in
Ercole, in Achille, in Alessandro, i quali si lasciarono vincere bene spesso da
l’amore e da l’ira e dal vino; laonde io non so che mi dica de gli eroi:
perché, se risguardo le cose fatte da loro, mi paiono maggiori degli altri
uomini, ma ne le passioni gli stimo simili, se non peggiori».
Risponde
l’interlocutore Bucci:
«Come l’onde de l’oceano sono maggiori di quelle del
Meditarraneo, così la tempesta de le passioni negli eroi supera gli affetti
umani di gran lunga. […] Ma chi giudicate voi miglior nocchiero, quel che ne
le maggiori fortune sa regger la nave o quel che ne le minori? […] Dunque la
prudenza che può regger l’animo degli eroi ne’ grandissimi affetti è maggior di
quella ch’è moderatrice de’ piccioli movimenti».
Ecco
richiamato l’esempio degli eroi atto a moderare le passioni eccessive, sebbene
il concetto non sia espresso così puntualmente come in Torelli.
Flaminio de’
Nobili, filosofo neoplatonico, grecista, traduttore di Aristotele, intrattenne una nutrita corrispondenza
col poeta, purtroppo non pervenuta, che richiedeva molto i suoi pareri. Nel 1556 aveva scritto a
Ferrara il suo primo successo editoriale, il Trattato dell’amore humano, pubblicato poi nel 1567, opera letta e postillata
da Tasso.
In questo trattato il Flaminio denota l’influenza di Marsilio Ficino
soprattutto per quanto riguarda il tema dell’amore divino in rapporto con
quello umano. Parte da qui per una analisi della natura dell’amore, che
distingue tra intellettuale e bestiale quando preda dei sensi, onde evitare gli
eccessi a cui può portare. Arriva infine a parlare dell’Amore Divino che è di
altra natura e si coltiva con la contemplazione del mistero del creato. Quindi
lungi dal condannare l’amore, lo riconosce come cosa buona, anche se va
trattato con cautela, potendo «allontanare dalla
famiglia e da Dio, poiché sua ineliminabile funzione è procurare nobiltà
d’animo e soffocare ciò che di ferino e bizzarro risiede nell’uomo».
Ritroviamo qui una teorizzazione che si avvicina sempre più alla trattazione
degli affetti di Pomponio Torelli. Tasso si era servito già all’inizio del 1570
del Trattato dell’amore
humano per prepararsi alla
disputa sul tema dell’affezione amorosa, che svolse nell’Accademia Ferrarese. La
conoscenza col De’ Nobili, che potrebbe risalire al breve soggiorno romano del
1571,
perfezionatasi sicuramente alla fine del 1575, può
aver rappresentato a mio parere un tramite per il successivo avvicinamento tra
il pensiero di Tasso e Torelli.
Passando
all’analisi della Allegoria, salta
allo sguardo sin dal primo paragrafo un cambiamento di rotta rispetto ai
giovanili Discorsi dell’arte poetica, dove sosteneva che, pur dovendo
contemplare il giovamento dell’uomo in quanto cittadino piuttosto che in quanto
poeta, fine ultimo della poesia era il diletto. Qui
invece, pur non rinnegando le sue vecchie posizioni e ribadendo l’importanza
del diletto, contempla come secondo elemento costitutivo della poesia la
allegoria che guida gli uomini alla virtù:
«L’eroica Poesia, quasi
animale, in cui due nature si congiungono, d’imitazione, e d’Allegorìa è
composta. Con quella alletta a sè gli animi e gli orecchi degli uomini, e
meravigliosamente gli diletta; con quella nella Virtù, o nella Scienza, o
nell’una, o nell’altra gli ammaestra».
Qui le posizioni
di Tasso e Torelli si sono notevolmente avvicinate. In questo momento, la
neonata Accademia parmense degli Innominati, con in primis il Conte Pomponio
Torelli, sta lavorando ad un aggiustamento della filosofia neoplatonica
ficiniana ai canoni dell’ortodossia cattolica contro riformata, ma comunque non
si è ancora abbandonato il «patrimonio sapienziale umanistico e laico». Torquato Tasso sta
compiendo un analogo percorso, seppure più accidentato e di più lunga
gestazione, che solo a questo punto sta volgendo nella simile direzione di una
finalità morale e formativa dell’arte. Il comune patrimonio culturale composto
da aristotelismo, declinato per entrambi nella scuola padovana, neoplatonismo di Marsilio Ficino, e la severità
dell’ambiente post-tridentino, creerà le
basi per un avvicinamento tra i due letterati, con l’affiliazione del Tasso
all’Accademia Innominata nel 1581.
Questo veicolare
messaggi virtuosi attraverso il diletto è già presente sin dalle prime ottave
nella Gerusalemme Liberata quando il
poeta invoca, sul modello della poesia epica antica, la musa, che però questa
volta è cristiana. Si scusa se adorna di soverchi ornamenti la verità,
adducendo che ciò, attraverso il diletto, veicolerà il bene nel lettore
distratto, come un fanciullo al quale si addolcisce la medicina affinchè riceva
la salute, qui intesa come salute dell’anima:
«O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte
d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.
Sai che là corre il mondo ove più versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che 'l vero, condito in molli versi,
i più schivi allettando ha persuaso.
Così a l'egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l'inganno suo vita riceve».
Seppure Tasso
abbia chiaramente espresso, nei già citati Discorsi
giovanili, che fine della poesia era il diletto, a quest’altezza è già
apprezzabile un cambiamento, una limatura del suo pensiero, che vedremo poi
sarà drammaticamente compiuta nell’ultimo decennio della sua vita. Così ora ci
sembrano meno distanti le sue posizioni rispetto a quelle più tardi espresse da
Torelli nel Trattato del debito del
cavalliero, ma già presenti nelle sue lezioni all’Accademia degli
Innominati:
«[…] ne perch'io la ponga qui per Arte,
che ricreare possa gli animi, si pensi alcuno, ch'io stabilisca il suo fine nel
diletto, perche in questo mi rimetto, alle lettioni lette, & disputate
nell'Academia de gli Innominati di Parma. Dico bene, che ò fine essentiale,
& ultimo, ò mezano, & subordinato, in essa è il diletto; nè cosa è in
lei, che diletto non ci apporti. […] Ma molto più ella ci ricrea; perchè è
d’affetti piena, che con simigliante forma toccandoci nel cuore quelle
passioni, ch’impresse vi habbiamo, ci apporta non poco piacere. Viene dunque la
Poesia sopra modo dilettandoci à ricreare; & utile & honesto è quel
diletto; perchè ci propone passioni d’animo, & con ingannevole arte, mostrandoci, i diffetti suoi ci apparta da loro».
Tasso
descrive la multiformità dell’esercito cristiano impegnato nella guerra come
figurale dell’uomo, che è composto di corpo e d’anima, e quest’ultima a sua
volta è molteplice, governata da varie potenze. Gerusalemme,
«Città forte, ed in
aspra, e montuosa regione collocata, alla quale, siccome ad ultimo fine, sono
dirizzate tutte le imprese dell'Esercito fedele, ci segna la felicità civile,
qual però conviene al buon Cristiano […]; la quale è un bene molto difficile da
conseguire, e posto in cima all’alpestre, e faticoso giogo della Virtù; ed a
quello sono volte, come ad ultima meta, tutte le azioni dell’uomo politico».
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Fig. 2: Annibale Carracci, Ercole al bivio, 1595 ca. Napoli, Museo di Capodimonte, già camerino di Palazzo Farnese, Roma.
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Sembra
qui di leggere quasi una descrizione dell’Ercole al bivio, pensieroso nel
decidere tra il cammino facile del vizio e quello erto e faticoso della virtù
(Fig. 2). Si continua poi con l’identificare Goffredo, capitano dell’esercito,
come figura dell’intelletto, e poiché lui è stato eletto e ispirato da Dio
quale capo dell’impresa, così Tasso spiega che il nostro intelletto è stato
eletto da Dio quale capo che deve governare sulle altre virtù dell’anima e del
corpo; ma mentre il corpo va dominato «con imperio regale», sulle passioni
dell’anima il comando deve essere «con podestà civile». Quindi lo scrittore ci
sta indicando come i moti dell’animo non possano venire soppressi o repressi
con la forza. L’intelletto deve addivenire ad un controllo e reindirizzamento
di queste passioni, volgendole al giusto fine. Così come Goffredo non elimina
dall’esercito i pur valenti soldati che cadono preda di difetti e vizi, ma
cerca di ricondurli, ridurli, re-ducere, all’unità dell’esercito che permetterà
la conquista della Città Santa, la «felicità civile» che sarà poi premessa
della ascesi contemplativa a cui deve tendere il perfetto cristiano, come
Goffredo ritiratosi in preghiera nella città finalmente conquistata. Giovanni
Potente mette giustamente questo ragionamento in rapporto con l’idea
eminentemente platonica «che le passioni non vadano represse o castrate bensì
indirizzate, corrette e guidate dalla ragione». I sentimenti, ineliminabili per
non svuotare l’anima, vanno conservati, ma trasformati in modo da poter essere
purificati ed avviati al raggiungimento del Bene. Ecco la vera sofrosyne. Mentre «la podestà della
mente sovra il corpo è regia», non ammette deroghe, quella sulle potenze
dell’anima, soprattutto quelle giudicate più vicine alla mente come l’ira,
dev’essere fatta «con civil moderazione», «cittadinescamente». E questo diviene
evidente quando, per esempio, Goffredo acconsente a che alcuni cavalieri si
allontanino momentaneamente per prestare aiuto alla presunta donzella in
difficoltà, Armida. In un primo momento il capitano nega il permesso, ma
vedendo che ciò rischia di creare pericolose spaccature nell’esercito, li
asseconda in parte, avvertendoli però, se ancora hanno in lui fiducia,
«temprate i vostri affetti». Ecco che l’intelletto
non può esercitare una forza brutale sulle passioni dell’animo, ma richiede
loro di esercitare un autocontrollo in modo di sottostare di buona lena alla
ragione. Giovanni Careri rileva in questo «un programma di civilizzazione che
associa l’esercizio del potere assoluto all’interiorizzazione, da parte dei
sudditi, di un controllo della propria affettività ». Così, tenuta sotto
controllo l’aggressività, e gli impulsi individuali fini a sè stessi o a mete
troppo materialistiche, può venire incanalata e istituzionalizzata dal capitano
dell’esercito – Intelletto, dando luogo ad una «violenza istituzionale e
centralizzata», volta ad un più alto e utile fine sotto l’egida della ragione;
e l’appetito concupiscibile ricondotto nell’alveo del religioso e lecito
matrimonio.
Pensiero che coincide con quello espresso da Torelli in più occasioni. Così
come per Tasso i soldati rappresentano le varie virtù dell’animo che
sottostanno all’intelletto – Goffredo, così più tardi Torelli scriverà : «[…]
percioche alla ragione come à Reina furono dati i sentimenti, che à guisa di
ministri, & servi le stessero all’intorno, & d’ogni parte a lei
obbedissero […]».
Come notato da Fabrizio Bondi, Torelli fa suo il pensiero di Platone su una
«politica dell’anima», arricchendola tra l’altro con la catarsi aristotelica
nella poesia:
le passioni non vanno nè possono venire eliminate, ma nemmeno subite. Esse
possono giocare un importante ruolo in dinamiche virtuose; destare con il loro
moto altre virtù che bisognano di una spinta all’agire, come indica ad esempio
in una delle sue lezioni quando parla dell’amore, del appetito concupiscibile,
che può spingere all’azione il cavaliere, spronarlo ad ottenere onori, a dare
un freno all’ira;
concetto ribadito più tardi anche nel Trattato
del debito del Cavalliero, «perchè il piacere lo farà più pronto alla
fatica, et al travaglio» e «perciò il Cavalliero
non solo non sarà dall’amore sviato dal bene operare; ma come da pungente
sprone vi sarà spinto» .
Tasso
e Torelli sono concordi nel bisogno di un governo politico delle passioni.
Quindi si evince
che anche l’amore terreno per una donna, per le bellezze di questo mondo, pure
se insidiato da incontinenze, può giovare, in quanto per piacere all’amata si
cercherà di essere persone migliori e ci si adornerà di altre virtù. Così anche
gli amori di matrice cortese, accesi dalle terrene bellezze, purchè onesti,
possono essere utili e contribuire alla purgazione e temperanza degli animi.
Anche in Tasso la
matrice della sua concezione dell’amore è platonica: distinto in due diversi
tipi, l’amore «Pandemio, ossia volgare» e quello «Uranio, ossia celeste» in
Platone, per lui divengono
l’«amor lascivo» e l’«amor divino», e li analizza in rapporto ad alcune canzoni
scritte da M. Battista Pigna, nel 1571, ossia nelle prime fasi della
composizione della Gerusalemme Liberata. Torquato distingue tra
due tipi di eros, quello basato sui sensi e quello basato sull’intelletto:
«Onde è ragionevole che la corporea
bellezza sia conosciuta dal senso, virtù similmente congiunta ad istrumenti
materiali: o che la bellezza immortale, e separata, si comprenda dall’
intelletto, che solo in noi mortali è divino, ed eterno, e simile a colui, che
ne fu donatore. Ma la maestra natura al senso ed all’intelletto, che sono le
due potenze, colle quali conosciamo, e giudichiamo tutte le cose, congiunse, e
quasi innestò i due appetiti: uno de’quali segue i giudicj del senso, e però
sensitivo si chiama: l’altro quelli della mente, e con proprio nome è detto
volontà ».
Ma come si evince
già da questa introduzione, seppure un tipo di appetito è superiore e l’altro è
legato ai sensi terreni: in realtà sono due aspetti di un unico amore, quello
assoluto che ci riporta verso Dio, poichè anche gli stimoli
e gli affetti terreni servono a mettere in moto le cose, che altrimenti «tutte
pigre e neghittose se ne starebbono», per raggiungere la perfezione, la
dimensione superiore dell’amore divino. Quindi di per sè,
l’amore non è mai «cattivo», poichè è sempre emanazione della originaria
tendenza dell’essere umano a mettersi in moto per cercare di ritrovare il bene
e l’amore assoluto, senza dolore.
Non quindi una
brutale repressione dell’eros, come sostenne parte della critica tassesca, ma
una concordia civile tra ragione e sensi, che infine devono obbedire alla prima
per non pregiudicare la salute dell’anima, una «giustizia naturale»:
«Or che l’anima sottoposta al lascivo
appetito non sia concorde, assai è noto per se stesso. Perciocchè, oltre che le
cupidità sono infinite, e contrarie tra se stesse, quando non è giustizia
nell’animo, non vi può esser concordia fra la parte ragionevole, e l’appetito
concupiscibile. Dico essere giustizia nell'animo, allora che comanda chi dee
comandare; ed obbedisce chi dee obbedire: ma la parte ragionevole è nata in sua
natura per signoreggiare con imperio civile l’uno, e altro appetito, che segue
i giudicj delle sentimenta».
Un
esempio interessante che accomuna i due letterati è dato dall’ira. Tasso,
nell’Allegoria della Gerusalemme, identifica Rinaldo con l’irascibile virtù,
che tra le varie è quella che «fra tutte l’altre potenze dell’anima meno
s’allontana dalla nobiltà della mente». L’ira, sotto il comando
politico della ragione, è strumento fondamentale della mente per operare
fattualmente contro i vizi e le ingiustizie, come i guerrieri sono
imprescindibili per l’esercito guidato da Goffredo:
«[…] Così è debito della irascibile, parte
dell'animo guerriera e robusta, armarsi per la ragione contra le concupiscenze,
e con quella veemenza, e ferocità , che è propria di lei, ribattere, e
discacciare tutto quello, che può essere d'impedimento alla felicità : ma quando
essa non ubbidisce alla ragione, ma si lascia trasportare dal suo proprio
impeto, alle volte avviene, che combatte non contra le concupiscenze, ma per le
concupiscenze […]».
Un esempio della
potenza irascibile che si lascia traviare dalla lussuria è da lui indicato
nell’episodio di Rinaldo e Armida, e così viene citato più tardi anche da
Torelli nel Trattato del debito del cavaliere, che indica come Tasso,
eccellentissimo poeta, ci abbia con questo episodio mostrato come «il piacere
de i sensi disperde, & miete in herba le operationi della fortezza, &
della giustitia, & ritira il cavalliero da fare quello, che piu deve».
Torelli mette
dunque in chiaro che «senza fortezza, come mezzo; et giustitia come fine, il
Cavalliero esser non può», e sembra qui riprendere
letteralmente il concetto già espresso da Tasso, che scrisse che la parte
ragionevole non deve escludere la irascibile, come invece fecero a torto «gli
stoici», ma «dee farsela compagna e
ministra».
Così Torelli:
«[…] l’ira deve nell’estremo, non nel
principio accompagnar l'operationi del forte, perchè com’è allora ministra della ragione, cosi nel
principio la perturba, nè lascia discernere le risposte, nè operare con
prudenza, che è il vero governo di tutte l’attioni […]».
Il Perduto
chiarisce poi come la potenza concupiscibile e quella irascibile si combinano e
operano al fine del mantenimento della virtù e della giustizia:
«[…] si come il senso nostro, ch’è potenza
concupiscibile non desidera altro, che ‘l piacevole, & s’attrista nel
contrario, cosi secondo il parer commune de dotti l’irascibile non brama altro,
che la conservatione di questo stesso piacere, senza impedimento veruno; et
perciò quando ci viene impedita quella voluttà , che il senso diletta sorge
l’ira per difendersi, o per vendicarsi».
Nel suo Trattato
delle passioni dell’animo, Torelli individua nelle virtù «purgatorie» o
«civili» gli agenti utili a ridurre gli affetti a mediocrità , dato che in un
sistema che non esclude le passioni, ma le re-duce, riconduce e riduce nel loro
giusto alveo, come Goffredo che «sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni
erranti»,
ogni virtù è «moderatrice di qualche affetto»: «la fortezza è
mediocrità tra la paura e l’audacia», per esempio, e così via.
Molto indicativa a
tal proposito la pressochè contemporanea teorizzazione del Tasso sul medesimo
argomento, con l’utilizzo di un lessico in tutto simile a quello Torelliano,
basandosi entrambi sull’analisi delle virtù e delle passioni nell’Etica e nella Poetica di Aristotele. Nel tassiano discorso Il Forestiero Napolitano overo della gelosia, composto in una prima
redazione nel 1579, ma rielaborato più volte fino alla stampa nel 1586, lo scrittore analizza il
tema della gelosia, in chiave morale, ma non solo:
«Laonde
questo effetto ancora, scemando quello ch'è in lui soverchio e riducendosi a
bella e, per così dire, aurea mediocrità ,
diverrà nobile e graziosa virtù, per la quale, temendo l'amante di perder la
grazia de la sua donna, temerà in conseguenza di far cosa per cui la perda
meritamente: laonde d'intemperante diverrà temperato,
d'avaro liberale, di timido forte, di vile magnanimo; e in questo modo la
gelosia sarà cagione che l'animo s'adorni di tutte le virtù […]. Se dunque tale
è la gelosia, non è di così fiera e maligna natura […]».
Rispetto ai primi ragionamenti giovanili del Tasso, qui siamo
in un periodo che vede l’approfondirsi del suo zelo cattolico e morale, un
momento di intensi travagli spirituali e di irrigidimento teorico ed etico,
ancora più sofferti dato il suo imprigionamento nell’ospedale di Sant’Anna. Vediamo così comparire spesso termini tipicamente
controriformistici che prima si ritrovavano più raramente, e che formano
puntualmente la base della teoria degli affetti di Torelli:
«Ma s'egli è zelo diritto ch'avampi
moderatamente, è virtù; perciochè tale è la moderazione
de le passioni. […] Dunque non solo ella qua giù fra gli uomini è virtù
morale, ma virtù purgatoria ancora.
[…] Così di grado in grado abbiamo veduta che la
gelosia negli uomini è virtù morale, negli animi che si purgano virtù
purgatoria, e virtù d'animo già purgato
in quelli che sono in cielo, s'è lecito di parlar con le parole de' poeti,
cotanto gloriosamente accolti, e virtù essemplare in Dio».
Durante la revisione della Gerusalemme Liberata
da parte del circolo di letterati a Roma, dal 1575 circa, si verifica un
approfondimento della questione etica e morale nelle opere d’arte, una
revisione più serrata dei contenuti alla luce della Controriforma, una
crescente preoccupazione del Tasso per quanto riguarda l’adeguatezza spirituale
del suo poema, e questa deriva continuerà accrescendosi fino alla fine della
sua vita. Quindi si trova qui un sempre maggior riferimento alla «purgazione» e
alla moderazione degli affetti. Le stesse virtù purgatorie tante volte
enunciate da Torelli che portano gradualmente dalle passioni alla
contemplazione, e, sembrano le stesse parole utilizzate da Tasso, negli animi
più spirituali conducono alle «virtù dell’animo purgato» o «eroiche» che
preparano alla contemplazione della Divinità .
Ma mentre Tasso sinora parla di queste virtù
purgatorie solo in chiave di passioni dell’uomo, di comportamenti nella vita
civile, Torelli le mette in stretta relazione con le funzioni della poesia:
«Lo
sprezzo delle cose mondane […] è quel vero termino di purgazione ch’intende
ogni Poesia; et questo per essere la Poesia ministra della civile facoltà . Alla
quale essa prepara gli animi mediante la dolcezza degl’affetti, et la tristezza
loro usandoli a sturbar l’un l’altro come meglio le torna: et questo perchè non
solo siano disposti con le virtù purgatorie così chiamate dal commune uso dei
Platonici che consistono nella mediocrità ; ma perchè siano ancora fatti
perfetti con le Virtù purgate riposandosi nella quiete, come in porto sicuro da
ogni passione».
Dopo il crescendo di problemi personali e di crisi di Tasso, culminate
con il suo imprigionamento nell’ospedale di Sant’Anna, il poema sulla crociata
cominciò ad essere pubblicato e gestito prescindendo da lui e anche contro il
suo volere. Le prime versioni «pirata» ed incomplete dell’opera uscirono a
Genova e a Venezia nel 1579. In seguito subentra la
«adozione» del poema da parte degli Innominati di Parma, che cominciano ad
appoggiarlo come esempio tra i più alti del momento di modello finito di poema
eroico volgare, in linea coi loro coevi studi e con le lezioni torelliane sulla
Poetica svolte in Accademia. Così, nel 1581, esce in
due versioni, a distanza di pochi giorni, a Parma e a Casalmaggiore, la prima
edizione integrale della Gerusalemme
Liberata, titolo datole da Angelo Ingegneri, accademico innominato,
curatore della medesima insieme a Muzio Manfredi, principe dell’Accademia per
l’anno 1580.
Secondo Lucia Denarosi, l’Accademia degli Innominati si pose come soggetto
attivo nei confronti della formazione del modello epico tassesco, anche contro
la volontà stessa dell’autore, prendendosi larghe
libertà redazionali, visto che Torquato Tasso «non ha mai curato personalmente
alcuna edizione della Liberata, […]
non ha mai autorizzato alcuna edizione del proprio poema, […] non ha mai
avallato alcuna delle edizioni uscite lui vivo», come ricorda Luigi Poma.
Ma d’altronde il poeta sorrentino era entrato a far parte dell’Accademia
proprio in quel 1581, e la sua opera si
prestava mirabilmente a venire cooptata «entro i canoni dell’aristotelismo
militante sostenuti in quegli anni dall’Accademia». Pur senza osare arrivare
fino alla pubblicazione della Gerusalemme
sotto le insegne accademiche, il messaggio che passa è quasi quello che
questa sia «frutto di quella medesima scuola poetica “Innominata”».
Quasi in risposta a questa «appropriazione» da parte di un ambiente
altro rispetto a quello cortese estense, appaiono due edizioni ferraresi,
sempre nel 1581, curate dallo stampatore Febo Bonnà (Tav. 7). I letterati
parmensi non perdono tempo nel riaffermare la pertinenza del poema al loro
ambiente culturale, e ancora nel 1581 si pubblica a Parma una terza edizione
per i tipi di Erasmo Viotti, stampatore di moltissime
opere Innominate. Questa edizione presenta per giunta un testo diverso da
quello Bonnà , e si dichiara apertamente «l’arbitraria composizione del testo da
parte del nuovo curatore», che dice di aver
interpretato come «ha creduto che fosse per fare l’istesso Autore». Qui vengono pubblicate
insieme col testo le allegorie redatte da Tasso:
«In fronte di ciascun Canto
poi sono poste alcune Allegorie, tolte da quelle, che in maniera di discorso, o
di trattato, scrive l’Auttore». Addirittura Piero Antonio Serassi, amico di
Ireneo Affò, ipotizza che il curatore di questa edizione, «che ridusse il poema
alla sua vera lezione», possa essere lo stesso Pomponio Torelli, «cavalier
intendentissimo dell’arte poetica, e grande amico del nostro Tasso».
Torelli e gli
accademici Innominati si pongono nei confronti del potente entro uno spazio di
relativa indipendenza che permette loro di comporre liriche volte all’educazione
e moderazione del principe, mentre si è fatto notare che invece per Tasso la
celebrazione del potente è sempre presente, sin dalla composizione della Gerusalemme e fino alle seguenti
riflessioni sulle caratteristiche del poema eroico. Pur se questo è vero,
cionondimeno Tasso non ha rinunciato, anche se in modo meno diretto, a proporre
un’immagine ideale del principe giusto da seguire.
Tasso pone Rinaldo
come cavaliere indispensabile per la conquista di Gerusalemme, che trionfa su
essa dopo aver trionfato sulle devianza ed errori indotti dalle «soverchie
passioni», per usare un lessico torelliano, e che si pone come un capostipite
dell’attuale duca d’Este, il quale dovrebbe essere mosso a seguire il suo
onorato esempio. Ma anche Goffredo è stato individuato dalla critica come
modello ideale per il moderno principe - cavaliere; più tardi, verso il
1585, nella Apologia in difesa del
suo poema, Tasso porterà a maturazione le sue riflessioni etiche, e dichiarerà
esplicitamente come Goffredo sia un esempio etico da seguire da parte dei
principi cristiani.
Anche Torelli e
l’Accademia Innominata si pongono come obiettivo l’educazione del perfetto
principe – cavaliere, e poi in misura sempre crescente, la celebrazione come
moderni emuli eroici delle casate nobiliari. Comprensibile, come sottolinea la
Denarosi, l’identificazione di Alessandro Farnese, valoroso e religioso
combattente, che ha strappato Anversa ai protestanti per ricondurla dopo
faticosa guerra ai domini del re cattolico, con un moderno ed epico cavaliere
cristiano,
simile a Goffredo. Questa similitudine ed il riconoscimento Innominato della Gerusalemme come maggior esempio epico
cristiano moderno, trova ulteriore suggello con l’edizione Innominata del poema
del Tasso, per i tipi del Viotti, a Parma, il 7 ottobre 1581, e forse curata
proprio da Torelli, dove compare una dedica
ad Alessandro Farnese, paragonato esplicitamente a Goffredo.
Lo scrittore sorrentino aveva inoltre attuato in
quegli anni un impegno «pionieristico» per dare dignità , alla luce della
Poetica aristotelica, a letterature romanze e cavalleresche, quali le
pastorali, ponendole al livello delle tragedie sia estetica che moralmente.
Questo lavoro di normalizzazione coincideva grandemente con gli intenti poetici
torelliani ed accademici, che accolgono di buon grado questa linea,
approfondendola ed includendola nel loro filone, tanto che poco dopo la
pubblicazione curata da Accademici Innominati della editio princeps della Gerusalemme,
compare nell’aprile 1581, ancora in edizione Viotti, la Aminta, e dedicata per altro allo stesso Torelli. La Denarosi mette in
rapporto questa serie di pubblicazioni di lavori tassiani, a cui si aggiungeva
una stampa sempre del 1581, perduta, dei Dialoghi
amorosi del medesimo, per comprendere che si trattava di «un vero e proprio
lancio editoriale in vasta scala riservato dall’Accademia al più prestigioso
fra i suoi adepti», che comportò sicuramente anche un impegno critico e
letterario da parte degli accademici.
Poco
dopo la pubblicazione del Torrismondo tassiano nel 1587, compare la prima
tragedia del conte Pomponio Torelli, la
Merope. Vincenzo Guercio vede dietro la vitalità dei sentimenti di questo
primo lavoro, un’influenza della quasi coeva tragedia del Tasso. Ma questo momento di
influenza «umanistica» si potrebbe dire, di Tasso su Torelli, è breve e
circoscritto. Lo stesso Torquato cambierà progressivamente indirizzo, nella
medesima direzione controriformistica di Torelli, come si potrà apprezzare
nella Gerusalemme Conquistata o nel Mondo Creato. Anzi, ritengo che
viceversa, si sia esercitata un’influenza di Torelli, o comunque del suo milieu accademico sulla tarda produzione
tassiana.
Dello stesso
avviso è Lucia Denarosi che, rilevando la trasformazione a favore del movente
politico dal Galealto al Torrismondo, individua in ciò
un’influenza Innominata, visto che l’Accademia parmense si stava ponendo quale
«centro di elaborazione estetico-artistica di una nuova tragediografia
protosecentesca». Questa ipotesi viene
avvallata dal fatto che proprio nel periodo in cui Tasso riscrive la sua
tragedia, egli frequentava assiduamente importanti letterati dell’Accademia:
Ingegneri, Ariosti, Ferrante II, e Muzio Manfredi, che si trovava anch’egli a
Mantova con Tasso in quel tempo, e che in una lettera racconta della continua
frequentazione col letterato e dell’interesse di questo per la sua tragedia Semiramide. Praticamente in
contemporanea con Pomponio Torelli, Torquato Tasso porta avanti una
«riqualificazione classicistica e aristotelica del modulo tragico» ed una
«attualizzazione ideologica della tematica in senso politico», concomitante con
la «nascente tragedia della tirannide» che si elaborava nella Accademia, con principale
esponente proprio il Perduto. Se gli
accademici parmensi studiano, fanno proprie, prendono spunti dalle opere
tassiane, lo scrittore sorrentino non rimane certo estraneo a sua volta alla
loro influenza.
Torquato Tasso
aveva redatto in un periodo giovanile, probabilmente fra il 1561 ed il 1562, un trattato riguardante
i fondamenti teorici del poema epico alla luce dei canoni aristotelici. Il
testo uscì alle stampe molto più tardi, nel 1587, e come quasi sempre,
senza l’avvallo dell’autore. Già in quell’anno però,
lo scrittore aveva deciso di rielaborarli, ed era a buon punto con l’opera.
Molti aspetti del suo pensiero erano cambiati in quegli anni, soprattutto in
seguito alla detenzione nell’ospedale di Sant’Anna. Il suo zelo religioso era
andato accentuandosi, di pari passo con l’irrigidirsi del clima culturale e con
la sua crisi psicologica e spirituale. In questo contesto, molto hanno anche
contribuito le sue letture e la frequentazione o vicinanza con letterati come
quelli dell’Accademia degli Innominati. Tasso si dedicò alla lettura sia di
opere teologiche che filosofiche e poetiche, quali la Summa di Tommaso d’Aquino, i libri di Sant’Agostino, i commenti
biblici di Girolamo, Gregorio Magno e Bernardo di Chiaravalle, le versioni
tradotte della Repubblica di Platone,
ovviamente la Poetica e la Metafisica di Aristotele, ed i commenti al
medesimo di Alessandro Piccolomini.
L’editio princeps dei Discorsi del poema eroico, apparve a Napoli nel 1594, stamperia
Stigliola, e dedicata al cardinale Pietro Aldobrandini.
Sebbene
fondamenti aristotelici sulla composizione dei poemi sia rimasta pressoché
invariata, il cambiamento più rilevante è avvenuto sul piano etico, per quanto
riguarda il fine della poesia. Benché Tasso contemplasse già da allora
l’utilità del giovamento morale insito nella letteratura, cionondimeno
l’argomento era citato brevemente e ci teneva a chiarire che comunque quello
non era il compito del poeta, essendo fine della poesia il diletto.
In questa nuova
stesura dei Discorsi, il fine etico e
di giovamento della poesia è diventato elemento costitutivo dal quale non si
può prescindere, e con un rovesciamento molto indicativo dei tempi correnti, il
diletto è diventato fine secondario e strumentale all’edificazione morale. Già
dal primo paragrafo appare chiaro che i poemi eroici saranno opere che
stimolino l’emulazione delle grandi imprese e l’accrescimento delle virtù:
«I poemi
eroici, e i discorsi intorno a l’arte, e il modo del comporli a niuno
ragionevolmente dovrebbono esser più cari che a coloro i quali leggono
volentieri azioni somiglianti a le proprie operazioni ed a quelle de’ lor
maggiori: perciò che si veggono messa innanzi quasi un’imagine di quella gloria
per la quale essi sono stimati a gli altri superiori; e riconoscendo le virtù
del padre e de gli avi, se non più belle, almeno più ornate con varii e diversi
lumi de la poesia, cercano di conformar l’animo loro a quello esempio; e
l’intelletto loro medesimo è il pittore che va dipingendo ne l’anima a quella
similitudine le forme de la fortezza, de la temperanza, de la prudenza, de la
giustizia, de la fede, e de la pietà, e de la religione, e d’ogni altra virtù,
la quale o sia acquistata per lunga esercitazione o infusa per grazia divina».
Come Torelli
esprimerà nel Trattato del debito del
cavalliero, le virtù possono essere già innate in persone nobili, ma si
possono e si devono allenare col continuo esercizio, modellando la propria
natura.
Se nei
giovanili discorsi poi, l’imitazione delle azioni umane che caratterizza la
poesia è volta soprattutto a coinvolgere emotivamente il lettore per
dilettarlo, senza specificare un qualche fine catartico, qui la mimesis è volta ad una azione educativa:
«[…]
debbiamo ne la definizione de la poesia preporci un ottimo fine; ma l’ottimo fine è quello di giovare a gli uomini con
l’esempio de l’azioni umane, perché l’esempio de le bestie non può giovare
egualmente, e quel de le divine non e nostro proprio: dunque a questo deve
esser dirizzata. La poesia è dunque imitazione de l’azioni umane, fatta per ammaestramento de la vita. E
perché ogni azione si fa con qualche consiglio e qualch’elezione, si tratterà
del costume e de la sentenzia per conseguente, la quale da’ Greci è detta dianoia; e benché, facendosi questa imitazione,
si dia grandissimo diletto, non si può dire che duo sian i fini, l’uno del
diletto, l’altro del giovamento […], perché un’arte sola non può aver due fini,
l’uno de’ quali a l’altro non sia subordinato; ma o si dee lasciare da parte il
giovamento de l’ammonire e del consigliare (come dice Isocrate), e co l’esempio
di Omero e de’ tragici rivolger tutto lo sforzo de l’orazione al dilettare; o
volendo ritener il giovamento, si dee dirizzar il piacere a questo fine; e
peraventura il diletto è fine de la
poesia, e fine ordinato al giovamento. Però si legge ne la seconda orazione
del medesimo Isocrate che gli antichi poeti lasciarono ammaestramenti de la
vita, per li quali gli uomini divennero migliori; e nel Panatenaico, che la
poesia ci divertisce da molti delitti. Però null’altro esercizio più conviene a
la giovenezza».
Quindi il diletto
rimane uno dei fini della poesia, ma poiché questa non può avere due finalità
diverse e non convergenti, il piacere sarà strumentale al giovamento, adesso
diventato vero fine ultimo. Questa funzione della poesia, afferma lo scrittore,
è tanto più utile in gioventù, quando si è maggiormente sottoposti alle
passioni ed agli errori, ma non ci si è incalliti nel vizio, esattamente come
teorizzato da Pomponio Torelli. Ecco perché non
qualunque tipo di piacere e diletto può essere ammesso nella poesia.
Riprendendo la metafora già utilizzata all’inizio della Gerusalemme, di origine lucreziana e ricorrente nelle poetiche
cinquecentesche come le Annotazioni alla
poetica di Aristotele del Piccolomini, della medicina amara
addolcita a fin di bene, Tasso specifica che il dolce va misurato, in modo da
non divenire nocivo e deviante:
«[…] al
politico s’appartiene di considerare quale poesia debba esser proibita e qual
diletto, acciò che il piacere, il quale dee esser in vece di quel mele di cui
s’unge il vaso quando si dà la medicina a’ fanciulli, non facesse effetto di
pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta preporsi per fine il
piacere, […] ma ’l giovamento:
perché la poesia, come estima il medesimo autore, seguendo l’opinione de gli antichi,
è una prima filosofia, la qual sin da la
tenera età ci ammaestra ne’ costumi e ne le ragioni de la vita. […] Almeno
si dee credere che non ogni piacere sia il fine de la poesia, ma quel solamente
il quale è congiunto con l’onestà: perché sì come il diletto, il quale nasce
dal leggere l’azioni brutte e disoneste, è indignissimo del buon poeta, così il
piacere d’imparar molte cose congiunto con l’onestà è suo proprio».
Il diletto ed il giovamento non contrastano, purché questo
piacere sia giovevole e non disonesto. Giudizio che lo porta inevitabilmente a
stroncare l’Ariosto dell’Orlando Furioso,
spostando il loro lungo contrasto dal campo poetico a quello morale:
«Laonde non meritano lode
alcuna coloro che hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa
che l’Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina […]».
Colpisce qui la frase di Tasso, mai da lui espressa più
chiaramente, Non dee dunque il poeta
preporsi per fine il piacere, […] ma
’l giovamento. Questa si può calzantemente confrontare con una frase di
Torelli nel Trattato del debito del
cavalliero, uscito alle stampe appena due anni dopo i Discorsi del poema eroico:
«[…]
ne perch’io la ponga qui per Arte, che ricreare possa gli animi, si pensi
alcuno, ch’io stabilisca il suo fine nel diletto [..]. Dico bene, che ò fine
essentiale, & ultimo, ò mezano, & subordinato,
in essa è il diletto; nè cosa è in lei, che diletto non ci apporti. […] Ma
molto più ella ci ricrea; perché è d’affetti piena, che con simigliante forma
toccandoci nel cuore quelle passioni, ch’impresse vi habbiamo, ci apporta non
poco piacere. Viene dunque la Poesia sopra modo dilettandoci à ricreare; & utile & honesto è quel diletto;
perché ci propone passioni d’animo, & con ingannevole arte, mostrandoci, i diffetti suoi ci apparta
da loro».
C’è una
coincidenza teorica più che notevole: il diletto, utile e onesto, subordinato
al giovamento, ed il suo utilizzo «ingannevole» per veicolare messaggi
benefici. Ma si aggiunge un punto in comune in più rispetto a precedenti scritti.
Torelli ha da sempre sostenuto che «è adunque il fine de i Lirici di purgar
l’eccesso delle passioni co’l mezzo del diletto che dall’immitatione
dell’istesse passioni e costumi de gli appassionati ci proviene». Tasso non si era
espresso chiaramente al riguardo, se non en
passant in qualche lettera, ma ora anche per lui la tragedia ha una
funzione purgatoria. E sebbene il giovare si possa ritrovare anche in altri
generi, è proprio della tragedia muovere la catarsi:
«Io
dico che il poema eroico è una imitazione d’azione illustre, grande e perfetta,
fatta narrando con altissimo verso, a
fine di giovar dilettando, cioè a fine che ’l diletto sia cagione ch’altri
leggendo più volentieri non escluda il giovamento. Ma ’l giovar dilettando è
peraventura di tutte le poesie: perchè giova dilettando la tragedia, e giova
dilettando la comedia. […] Ma l’operazione de la tragedia è di purgar gli animi co ’l terrore e con la
compassione, e quella de la comedia di muovere riso de le cose brutte […] e da
questa operazione de la comedia nasce il giovamento, perché è noi ridendoci de la
bruttezza che veggiamo ne gli altri, ci vergogniamo di far cose che siano
brutte egualmente. Dee dunque ancora l’epopeia aver il suo proprio diletto co
la sua propria operazione; e questa peraventura è il mover meraviglia […]».
Non solo col terrore e la compassione, ma anche con gli
strumenti propri del genere «la tragedia, oltre il verso, adopera per purgar
gli animi il ritmo e l’armonia».
Tasso difende
inoltre ancora una volta la presenza più volte contestatagli delle meraviglie
nella Gerusalemme. La meraviglia,
come fine dell’epopea, «è uno dei temi originali della poetica tassiana»,
elemento che ha portato ha considerare questa poetica del Tasso come
«presecentistica», dato che in genere, gli scrittori delle poetiche del
cinquecento la intendevano come quegli orrori e compassioni che muovevano la
catarsi aristotelica. Una meraviglia che per
lo scrittore sorrentino non escludeva comunque il fine etico:
«Diremo
dunque ch’il poema eroico sia imitazione d’azione illustre, grande e perfetta,
fatta narrando con altissimo verso, a fine di muover gli animi con la
maraviglia, e di giovare in questa guisa».
Tasso arriva a
paragonare il poeta al teologo e al dialettico, dato che hanno in comune il
potere di introdurre e spingere il lettore o ascoltatore alla contemplazione
delle cose divine, quel grado superiore di perfezione che segue dopo la
coltivazione delle virtù. E le immagini sono il vettore privilegiato:
«Laonde il
conducere a la contemplazione de le cose divine e il destare in questa guisa
con l’imagini, come fa il teologo mistico ed il poeta, è molto più nobile
operazione che l’ammaestrar con le demostrazioni, com’e officio del teologo
scolastico. Il teologo mistico adunque e il poeta sono oltre tutti gli altri
nobilissimi […]».
A ben vedere, si dimostra lo stesso fine propugnato da
Torelli per la poesia, che dopo aver «purgato dalle passioni soverchie», con
l’acquisizione delle Virtù, porta gli animi alla quiete ed alla contemplazione,
«perché siano ancora fatti perfetti con le Virtù purgate riposandosi nella
quiete, come in porto sicuro da ogni passione».
Infine, il cambiamento del pensiero di Tasso, si palesa
notevolmente in un passo, che viene ripreso quasi testualmente dai precedenti
discorsi, ma con la significativa ellissi di una parentesi pregna di
significato. Si legge infatti nei giovanili Discorsi
dell’arte poetica:
«Taccio per ora che dovendo
il poeta aver molto riguardo al giovamento, se non in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte della repubblica, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri
uomini con l’esempio de’ cavalieri fedeli che d’infedeli, movendo sempre più
l’esempio de’ simili che dei dissimili […]».
Circa
trent’anni dopo il passo è così mutato:
«Ultimamente,
dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento, molto meglio accenderà
l’animo de’ nostri cavalieri con l’esempio de’ fideli che de gl’infideli,
movendo sempre più l’autorità de’ simili che de’ non simili, e de’ domestici
che de gli stranieri».
Il poeta deve aver molto riguardo al giovamento. Questo è il
nuovo fine della poesia, sebbene non disgiunto dal diletto. La precisazione che
ciò non spettava al poeta, ma tutt’al più all’uomo in quanto cittadino, è
scomparsa.
Tasso è riemerso dal suo naufragio nel mare della crisi della
fine del Rinascimento.
Nel Mondo creato,
composto tra il 1592 e il 1594, «finalmente il Poeta riesce ad esaltarsi
consapevole di “risorgere” dagli abissi interiori, portando alla luce la “bella
verità”: la verità cristiana, faticosamente recuperata e celebrata nell’ultima
stazione del suo viaggio letterario»:
«Così dal suo profondo
[del mare] anch’io risorgo,
e da gli oscuri e
tenebrosi abissi
la bella verità, ch’è più
lucente
di gemme onde abbian
pregio Arabi ed Indi,
la bella verità, ch’ivi
sommersa
par che si giaccia, porto
in chiara luce.
E pura a gli occhi de’
mortali esposta
l’offro da contemplar
[...]».
Tasso,
l’ideal-classicismo e il proto barocco. La Galleria dei Carracci di Palazzo
Farnese a Roma
Stefano Colonna ha
ampiamente analizzato, nel suo volume sulla Galleria dei Carracci a Palazzo
Farnese in Roma, le influenze esercitate dai letterati di corte sul tenore dei
programmi iconografici ed il loro più profondo significato morale. Lungi dal rappresentare
una paganeggiante e lussuriosa carrellata di miti antichi, la galleria sottende
un messaggio morale di moderazione degli affetti, che trova il suo culmine
nella celebrazione del matrimonio di Margherita Aldobrandini e Ranuccio
Farnese, avvenuto nel maggio del 1600, come casto e immancabile coronamento del
loro amore, teso verso più alti livelli di amore neoplatonico.
Importante
nell’interpretazione del messaggio, il ruolo teoretico degli uomini di cultura
di entrambe le corti farnesiane di Roma e Parma, Fulvio Orsini e Pomponio
Torelli.
Ritengo che, in
quest’ambito, possa non essere del tutto estranea una certa influenza culturale
di Torquato Tasso nel substrato culturale dietro la realizzazione della Galleria
di Palazzo Farnese a Roma.
Sebbene lo
scrittore sorrentino fosse già deceduto alla data di realizzazione degli
affreschi, nel 1600, egli intrattenne rapporti di lunga durata con i Farnese,
come segnalato da Prinzivalli e Valente. Quasi
sicuramente conobbe il Cardinale Alessandro Farnese durante i suoi viaggi a
Roma, dato che il porporato aveva larghi interessi culturali e fama di generoso
mecenate di letterati, come suggerito da Angela Valente. Questo rapporto sembra
confermato dal fatto che Tasso insiste fiduciosamente con il cardinale,
affinché questi acconsenta all’accettazione di un suo nipote tra i familiari di
Odoardo Farnese, e dalle lettere con cui
il letterato insiste con Ranuccio per avere in ricordo una coppa già
appartenuta al cardinale. Ancora più chiara
risulta questa relazione, in una lettera inedita riferita dalla Valente, in cui
il duca Ottavio Farnese si rivolge al fratello Alessandro, per ottenere un
beneficio del Tasso per un suo amico, vista la «molta autorità» che il prelato
avrebbe sul poeta.
La continuazione
del rapporto con il cardinale Odoardo Farnese, residente nel magnifico palazzo
di Roma, e l’interesse di questo per l’opera di Tasso è testimoniata dal fatto
che dopo la morte dello scrittore, nella spinosa diatriba seguita per il
possesso dei manoscritti del letterato, il cardinale riuscì a spuntare da Marco
Pio di Savoia il deposito di questi documenti.
Significativa
risulta inoltre una delle rime del Tasso dedicata proprio al giovanetto
Ranuccio Farnese, in cui lo incita a coltivare le virtù superiori e vincere
l’empio Amore,
con concetti paralleli a quelli di Pomponio Torelli, precettore di Ranuccio:
«Nel campo de la vita aspra contesa
farai, signor, con forte empio guerriero,
ma sì pietoso in vista e lusinghiero
che n’è dolce per lui mortale offesa:
or chi l’arme ti dà perché l’impresa
tu vinca, ardito giovinetto altero?
Indarno per sì nobil magistero
in fucina d’uom vivo è fiamma accesa.
Vengan dunque dal ciel come già quelle,
se Roma non mentì, che fabro eterno
fece al buon Numa, e ’l cor ne cingi e l’alma:
ch’al fin, domo il nemico, a le rubelle
voglie torrai di te l’alto governo
ed avrai lauro trionfale e palma».
A parte le
relazioni dirette o meno coi Farnese, Torquato Tasso ebbe un’indubbia influenza
sulle arti situate alla nascita del barocco, come mise molte volte in luce
Giulio Carlo Argan. Lo storico dell’arte
pone lo scrittore sulla scia della teoria del «ut pictura poà«sis», che riconosce un’unità di espressione alla
pittura e alla poesia, con uno stesso fine, «che non è più la rappresentazione
della natura, ma l’espressione degli affetti o dei sentimenti umani». In ciò Argan rileva che
discendono proprio da Tasso i primi dipinti che intendono fare poesia tramite
la pittura, con una originale elaborazione degli affetti, anziché essere intesi
ad illustrare il solo testo poetico. Una poetica quanto mai
vicina anche agli interessi di Torelli e la sua teoria degli affetti, ma non
solo. Anche per i pittori bolognesi dell’Accademia dei Carracci sussiste questo
parallelismo assoluto di pittura e poesia, la pittura si riveste di maggiori
concetti e discorsi, ma avvalendosi sempre
dei propri mezzi per suscitare l’emozione e l’indagine su quelle insite
nell’opera.
Tasso offre agli
artisti figurativi, una minor descrizione plastica, per esempio rispetto
all’Ariosto, che farebbe presupporre una sua lontananza dal campo pittorico o
scultoreo. Ma proprio lo spazio che lo scrittore concede all’interpretazione di
affetti, sentimenti, sconvolgimenti, sfumati e non descritti in ogni
particolare, passibili di diverse interpretazioni e caricabili di ulteriori
significati, il «progressivo dissolversi della plastica evidenza dell’immagine,
nel suo sfumarsi in un ambiente che a sua volta si sensibilizza e drammatizza,
nel suo caricarsi di significati che vanno al di là dell’oggetto rappresentato» e che perciò esprimono
«piuttosto un’aspirazione che un sicuro possesso», segnano il momento di
passaggio dal Rinascimento al Barocco.
Il nuovo sentire
che unisce le poetiche di Tasso, Torelli ed i Carracci, risiede proprio
nell’analisi dei sentimenti. Un’analisi volta certamente ad individuare i moti
interiori che generano quelli esteriori ed il modo di rappresentarli, ma non
più con intenti puramente naturalistici. Si tratta di dar loro uno spessore
convincente e di suscitarli anche nel fruitore, dato che l’arte deve sempre più
«persuadere, stabilire dei tramiti, dei rapporti tra gli uomini». Come i pittori proto– e
barocchi, Tasso e Torelli si spendono per rappresentare approfonditamente gli
effetti delle passioni e comunicarli allo «spettatore», suscitando in lui un
coinvolgimento emotivo che ingeneri una metamorfosi, una riflessione, una
catarsi, la meraviglia. Loro si collocano agli albori del teatro seicentesco,
con le passioni messe drammaticamente in scena, così come i pittori della
scuola carraccesca. E non importa che la artificiosità teatrale sia visibile:
non è più la natura pura al centro dell’interesse; la rappresentazione diventa
«un banco di prova per sperimentare il comportamento umano o per verificare, in vitro, quali umani sentimenti vengano
mossi da un avvenimento tanto grave, per misurare le reazioni, i contrasti che
avvengono nell’animo sotto l’urto di simili eventi».
Significativo a
tal riguardo, nella Gerusalemme, un
passo che crea la cornice epica e teatrale intorno al combattimento di Clorinda
e Tancredi:
«Degne d’un chiaro sol,
degne d’un pieno
teatro, opre sarian sà memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sí
grande,
piacciati ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel
sereno
a le future et&arave; lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria».
Parallelamente al
teatro, anche la musica, nel corso del XVI secolo, si adopera sempre pi&urave; per
esprimere gli affetti che rivestono l’oratione;
non pi&urave; quindi muovere soltanto gli affetti, ma mostrare anche gli effetti che
esso produce,
«& secondo le parole muover la misura per dimostrare gli effetti delle
passioni della parole, & l’armonia&rquo;. La ricerca si svolge
soprattutto nel campo dei madrigali, dove Monteverdi ne dedicher&arave; uno superbo
proprio al combattimento tra Clorinda e Tancredi.
Ma Torelli è mosso da interessi maggiormente
didattici ed edificanti, mentre nel Tasso della Liberata, quella che ha maggiormente influito nelle arti, la
tempesta passionale, le contraddizioni e travagli dell’animo, sono palesemente
messi in mostra e lasciati alla mercégli artisti per essere ulteriormente
elaborati, aggiungendo o togliendo la propria interpretazione degli affetti e
relative sfumature.
È stata più volte
segnalata l’influenza o quantomeno la contiguit&arave; poetica, di Tasso su pittori
veneziani come Tintoretto e Tiziano, e proprio sul
loro studio, segnatamente su Tintoretto, nell’ambito dell’influsso che l’arte
della zona lagunare ha esercitato sulle scuole vicine, come quella bolognese,
in seguito al Concilio di Trento, i pittori della scuola
bolognese hanno fondato la loro riforma pittorica. Quindi non potevano non
sentire in Tasso «il creatore di un nuovo modo di espressione degli affetti o
dei sentimenti umani». E sarà proprio Agostino
Carracci, insieme all’ideatore Bernardo Castello, ad incidere le tavole per la
prima edizione illustrata della Gerusalemme
Liberata nel 1590 (Fig. 3).
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Fig. 3: Incisione di Agostino Carracci per la prima edizione illustrata della Gerusalemme Liberata, Clorinda muore tra le braccia di Tancredi, canto XII, bulino su rame, 1590.
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Il loro modo di
far pittura è solo in apparenza «classico&rquo;. Si tratta di ideal – classicismo;
un manierismo che pur facendosi erede del classicismo, e conservando la forma e
la «struttura razionale della natura», muta i significati e le funzioni
dell’immagine.
Un’artificiosità che ha tutta l’apparenza della naturalezza, una presunta
spontaneità, atta alla persuasione e alla meraviglia, che nasconde nella
struttura uno studio minuzioso e curato. Il precetto aristotelico di «nasconder
l’arte», fondamentale per la teoria estetica barocca.
Tasso si fa
portatore di questo principio estetico dell’«arte che tutto fa, nulla si
scopre»,
e proprio a lui si rifaranno i primi teorici estetici del barocco.
Numerosi i
passaggi della Gerusalemme Liberata che
espongono questo principio, come nella bellezza negligente e non cercata di
Sofronia, che Vergine «d’alti pensieri e regi, d’alta beltà; ma sua beltà non
cura»,
di cui non si saprebbe dire se il caso o studiatissima arte abbiano composto le
sue bellezze:
«La vergine tra ’l vulgo uscí soletta,
non coprí sue bellezze, e non l’espose,
raccolse gli occhi, andò nel vel
ristretta,
con ischive maniere e generose.
Non sai ben dir
s’adorna o se negletta,
se caso od arte il
bel volto compose.
Di natura, d’Amor, de’ cieli amici
le negligenze sue
sono artifici».
Quando invece la
maga Armida si presenta nel campo dei crociati per irretirli, le sue grazie
sono curatissime e appositamente studiate, tanto bene da sembrare assolutamente
naturali.
«Lodata passa e vagheggiata Armida
fra le cupide turbe, e se n’avede.
No ’l mostra già, benché in suo cor ne
rida,
e ne disegni alte vittorie e prede».
La descrizione
delle opere d’arte presenti nel giardino d’Armida, è uno dei passaggi più alti
poeticamente e più densi di significati, dove arte e natura gareggiano e si
scambiano i ruoli, confuse dalle arti magiche della maga:
«Le porte qui d’effigiato argento
su i cardini stridean di lucid’oro.
Fermàr ne le figure il guardo intento,
ché vinta la materia è dal lavoro:
manca il parlar, di vivo altro non chiedi;
né manca questo ancor, s’a gli occhi credi.
[…]
Stimi (sí misto il culto è co ‘l negletto)
sol naturali e gli ornamenti e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
l’imitatrice sua scherzando imiti».
Proprio questi
passaggi del Tasso ispireranno due fra i maggiori teorici estetici del periodo
barocco: Mons. Giovanni Battista Agucchi e Giovan Pietro Bellori.
Il primo (Fig. 4),
diplomatico pontificio e colto uomo di lettere, scrisse tra il primo e il
secondo decennio del Seicento un Trattato
della pittura, dato alle stampe nel 1646 e arrivato a noi solo in stralci
frammentari,
dove anticipa le linee del bello ideale che poi saranno più compiutamente
teorizzate dal Bellori (che probabilmente deteneva anche i manoscritti del
Monsignore).
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Fig. 4: Annibale Carracci (attr.), Ritratto di G. B. Agucchi, olio su tela, 1602-1604, New York, City Art Gallery.
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Il prelato fu grande
amico di Annibale Carracci e Domenichino. Bellori riferisce che il monsignore
collaborò anche alla definizione dei significati morali della decorazione del
camerino Farnese, realizzato da Annibale con la collaborazione ideativa di
Agostino Carracci. Giovanni Battista fu
uno dei primi e più entusiasti sostenitori di Annibale Carracci, riconoscendo
nell’opera dei Carracci la restaurazione della pittura dopo la decadenza
rappresentata dal manierismo. Agucchi vedeva
risollevate le sorti della pittura da quegli artefici che
«s’innalzano più in alto con l’intendimento, e
comprendono nella loro Idea l’eccellenza del bello, e del perfetto, che
vorrebbe fare la natura, ancorché ella non l’eseguisca in un sol soggetto, per
le molte circostanze, che impediscono, del tempo, della materia e d’altre
disposizioni: e come valorosi artefici, conoscendo, che se essa non perfettiona
del tutto un individuo, si studia almeno di farlo divisamente in molti, facendo
una parte perfetta in questo, un’altra in quello separatamente; eglino non
contenti d’imitare quel che veggono in
un sol soggetto, vanno raccogliendo le bellezze sparse in molti, e l’uniscono
insieme con finezza di giuditio, e fanno le cose non come sono, ma come esser dovrebbono
per essere perfettissimamente mandate ad effetto. […] Le cose dipinte, &
imitate dal naturale piacciono al popolo, perché egli è solito à vederne di sì
fatte, e l’imitatione di quel che à pieno conosce, li diletta. Ma l’huomo
intendente, sollevando il pensiero all’Idel del bello, che la natura mostra di
voler fare, da quello vien rapito, e come divina la contempla».
Ecco uno dei
passaggi che stanno alla base del discorso sull’Idea di Bellori e che
sicuramente risentono anche dell’estetica tassiana. È presente anche il fine
superiore che tende verso le cose divine, come insito nella poetica di Tasso ma
anche di Torelli.
L’Agucchi era
anche in rapporto con la famiglia Aldobrandini, visto che fu al servizio del
Cardinale segretario di Stato Pietro Aldobrandini sin dal 1596. Gli Aldobrandini erano
legati ai Farnese dal matrimonio celebrato dal Pontefice proprio a Palazzo
Farnese a Roma il 7 maggio del 1600, tra il duca Ranuccio Farnese e la nipote
del Papa, Margherita Aldobrandini, a cui allude il riquadro centrale della
volta della galleria affrescata dai Carracci (Fig. 5). Anche Tasso si
era in qualche modo legato agli Aldobrandini, essendosi messo sotto la
protezione del cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, dopo la
morte del suo precedente protettore, il cardinale Scipione Gonzaga, deceduto nel 1593.
Proprio negli anni in cui il cardinale Cinzio riuniva nelle sue stanze un
nutrito gruppo di letterati, artisti, studiosi e scienziati attorno alla figura
del Tasso, Agostino Carracci incise le armi del porporato (Fig. 6).
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Fig. 5: Annibale Carracci e collaboratori, volta della Galleria dei Carracci, affresco, 1597-1600 ca., Palazzo Farnese, Roma.
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Fig. 6: Agostino Carracci, Stemma del card. Cinzio Aldobrandini tra la Prudenza e la Giustizia, 1594, Pinacoteca Nazionale, Bologna.
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Monsignor Agucchi
aveva letto con attenzione il Tasso, ed era rimasto particolarmente colpito da
alcuni episodi, come quello di Erminia che arriva tra i pastori, ed il
contrasto tra locus terribilis e locus
amoenus che vi si verifica. Vi trovava una corrispondenza con la sua
situazione, che il prelato descrive in numerose lettere, di permanenza
travagliata e quasi forzata nella corte, mentre la sua inclinazione personale
era verso la quiete e la contemplazione. Così Giovanni Battista
Agucchi commissiona una sua impresa dipinta, con tema Erminia tra i pastori, a
Ludovico Carracci, durante il breve soggiorno a Roma di questo alla fine della
primavera del 1602. Agucchi invierà al
pittore anche il programma iconografico preciso, intitolato Impresa per dipingere la storia di Erminia,
capace di esprimere anche il «sentimento» del suo anelito di cambiamento a una
vita maggiormente contemplativa. Ludovico non esiterà a
interpretare in modo maturo le richieste del committente, aggiungendo un
carattere di «conversione filosofica» alla scena (Fig. 7).
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Fig. 7: Ludovico Carracci, Erminia tra i pastori, 1603, olio su tela, Spagna, Real Palacio de la Granja de San Ildefonso.
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Agucchi chiude il suo
trattato sull’ideale di bellezza proprio citando il Tasso: «manca il parlar, di
vivo altro non chiedi; né manca questo ancor,
s’a gli occhi credi».
In effetti Tasso
stesso si era espresso in termini che precorrono la teorizzazione del bello
ideale, dell’ideal – classicismo che contraddistinguerà poi la scuola bolognese
dei Carracci.
Nei tardi Discorsi del poema eroico, dedicati
proprio al cardinale Cinzio Aldobrandini, Tasso così si esprime
sull’esemplarità dell’idea:
«Dico adunque che in tutte le cose si dee
riguardare a l’ultimo, come dice Aristotele ne la Topica; ma l’ultimo è uno,
laonde non si può ritrovare unitamente in molti particolari; ma considerando le bontà ne l’eccelenze che sono
divise fra molti, si forma l’idea de la bontà e de l’eccelenza, come formò
Zeusi quella de la bellezza quando volle dipingere Elena in Crotone; e questa
differenza è peraventura fra l’idee de le cose naturali che sono ne la mente
divina, e quella de l’artificiali, de le quali si figura e quasi dipinge
l’intelletto umano: ché ne l’una l’universale è innanzi le cose stesse, ne
l’altro da poi le cose naturali. L’idea dunque de le cose artificiali è formata
dopo la considerazione di molte opere fatte artificiosamente, ne le quali
tuttavolta non è l’ottimo, ma quella è migliore che più gli s’avvicina. Dovendo
dunque io mostrar l’idea de l’eccelentissimo poema eroico, non debbo proporre
per esempio un poema solo, benché egli fosse più bello de gli altri; ma, raccogliendo le bellezze e le perfezioni di
ciascuno, insegnare come egli si possa fare bellissimo e perfettissimo insieme.
[…] se per abondare d’argumenti debbiamo rimirare ne l’esemplare, rimiriamo
ne l’idea, perché l’idea è ’l vero
esemplare e ’l vero esempio».
Dopo l’Agucchi, il
concetto della bellezza ideale, specchio del mondo delle idee e non di quello
contingente delle apparenze, verrà più profondamente sistematizzato dal più
importante teorico estetico del Seicento, Giovanni Pietro Bellori. In un suo
discorso tenutosi nel 1672 all’Accademia romana di San Luca, esplicita il
concetto dell’Idea, mostrandosi vicino alla poetica di Tasso:
«Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto ed
eccellente esempio della mente, alla cui immaginata forma imitando, si
rassomigliano le cose che cadono sotto la vista: Così
l’Idea costituisce il perfetto della bellezza naturale, ed unisce il vero al
verisimile delle cose sottoposte all’occhio, sempre aspirando all’ottimo, ed al
maraviglioso; onde non solo emula, ma superiore fassi alla Natura, palesandoci
l’opere sue eleganti e compite, quali essa non è solita dimostrarci perfette in
ogni parte. […]
Insegna Leon Battista Alberti, che si ami in
tutte le cose non solo la simiglianza, ma principalmente la bellezza, e che si
debba andar scegliendo da corpi bellissimi le più lodate parti.
Così Leonardo da Vinci instruisce il pittore a formarsi
questa idea ed a considerare ciò che esso vede e parlar seco, eleggendo le
parti più eccellenti di qualunque cosa. Rafaelle da Urbino il
gran maestro di coloro che sanno, così scrive al Castiglione della
sua Galatea: “Per dipingere una bella mi bisognerebbe vedere più belle, ma per essere carestia di belle donne, io mi
servo di una certa idea che mi viene in mente”.
[…]
Dobbiamo di più considerare che essendo la
pittura rappresentazione d’umana azzione, deve insieme il pittore ritenere
nella mente gli essempi de gli affetti, che cadono sotto esse azzioni, nel modo
che ’l poeta conserva l’idea dell’iracondo, del timido, del mesto, del lieto, e
così del riso e del pianto, del timore e dell’ardire. Li quali moti deono molto
più restare impressi nell’animo dell’artefice con la continua contemplazione
della natura, essendo impossibile ch’egli li ritragga con la mano dal naturale,
se prima non li averà formati nella fantasia; ed a questo è necessaria
grandissima attenzione; poiché mai si veggono li moti dell’anima, se non per
transito e per alcuni subiti momenti. Siché intraprendendo il pittore e lo
scultore ad imitare le operazioni dell’animo, che derivano dalle passioni, non
può vederle dal modello che si pone avanti, non ritenendo esso alcun affetto;
che anzi languisce con lo spirito e con le membra nell’atto in cui si volge, e
si ferma ad arbitrio altrui. È però necessario formarsene un’imagine su la
natura, osservando le commozioni umane, ed accompagnando li moti del corpo, con
li moti dell’animo; in modo che gli uni da gli altri dipendino vicendevolmente».
Quindi non andrà
rappresentata solo la natura visibile delle cose, ora assumono sempre maggior
importanza i moti dell’animo ed il modo in cui questi agiscono sull’esterno.
Interesse già dimostrato da Torelli, oltre che nelle sue lezioni accademiche,
anche nel romanzo Movimenti dell’animo.
Bellori conclude
infine citando proprio il Tasso della Gerusalemme:
«Dice Filone che Dio, come
buono architetto, riguardando all’idea ed all’esempio propostosi, fabbricò il
mondo sensibile dal mondo ideale ed intelligibile. Siché dipendendo
l’architettura dalla cagione esemplare, fassi anch’ella superiore alla natura.
Al che riguardò forse Torquato Tasso descrivendo il giardino di Armida:
“Di natura arte par, che per diletto; L’imitatrice sua scherzando imiti».
La mimesis dell’arte non riguarda più la
natura, ora si tratta dell’imitazione dell’idea, sempre entro l’aristotelico
limite della verosimiglianza o del possibile/credibile. Tasso ha strenuamente
difeso e spiegato la libertà dell’artista di immaginare e anche di utilizzare
il meraviglioso, purché potesse essere credibile, conosciuto o possibile,
finalizzato alla comunicazione col pubblico, anticipando i teorici
barocchi. Torquato Tasso, unendo neoplatonismo e aristotelismo, ha messo le
basi di quella correlazione di «idea, immagine, parola» che costituisce il
nucleo delle poetiche barocche, dato che in questo
periodo inizia e va sempre crescendo la certezza che la comunicazione
persuasiva, il «docere, delectare, movere»,
il produrre un effetto sui comportamenti morali finalizzati alla felicità
civile ed alla salvezza dell’anima, siano il fine ultimo e più importante delle
arti, rispetto alla sola rappresentazione o diletto; concezione di cui Torelli
è uno dei più grandi teorizzatori in letteratura. L’evoluzione di queste
poetiche segue il percorso compiuto dal Tasso: dal diletto come fine,
all’utilità morale e spirituale che si serve del diletto per raggiungere la
meta. Come giustamente sottolinea Argan, «la contemplazione non può più essere
disinteressata e, affinché non lo sia, bisogna che l’oggetto contemplato
interessi, susciti una reazione affettiva, agisca sui movimenti dell’agire». Si passa «da un
interesse sensorio a un interesse morale».
I Carracci non
sono rimasti estranei all’influenza di Torquato Tasso. Agostino ha inciso
insieme a Bernardo Castello le tavole e il frontespizio per la prima edizione
illustrata della Gerusalemme Liberata,
e Ludovico e Annibale hanno dedicato più opere loro a episodi del poema.
Appartiene a
Ludovico Carracci una delle prime raffigurazioni dell’episodio di Rinaldo e
Armida nel giardino, del 1593, (Fig. 8), che presenta un impianto poco classico ma più vicino
a una sorta di «idillio boschivo» che insieme all'«accentuata tenerezza di
ascendenza correggesca fanno pensare a una realizzazione del dipinto per la
corte ducale di Parma, dove Ludovico si recò nel 1593, in occasione delle
esequie di Alessandro Farnese».
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Fig. 8: Ludovico Carracci, Rinaldo e Armida nel giardino incantato, olio su tela, 1593, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
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Fig. 9: Annibale Carracci, Rinaldo e Armida nel giardino incantato con Carlo e Ubaldo nascosti che osservano, olio su tela, 1601, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
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Annibale
Carracci realizza poi,
intorno al 1601 forse in collaborazione con la bottega, per il palazzo romano
dei Farnese, un’altra versione molto
più classica dell’idillio di Rinaldo e Armida (Fig. 9), dove è messa in
evidenza con una potente carica trasgressiva, la femminilizzazione e la
soggezione del paladino cristiano alla maga, continuando lo stesso tenore e
messaggio della galleria principale del palazzo. L’opera «rimase in loco per
oltre sessant’anni, esposta nel primo camerino del ‘Palazzetto della Morte’
insieme con la ‘Venere dormiente’ e altri quadri di Annibale ed Agostino, come
l’‘Arrigo peloso’ di Capodimonte o il ‘Ratto di Europa’ di Londra».
Proprio la Venere Dormiente viene descritta in una famosa ekphrasis da Mons. Agucchi, riportata da Carlo Cesare
Malvasia nel suo Felsina
Pittrice del 1678, dove cita anche il quadro di Annibale:
«Perciocchè, essendomene ito a casa
Farnese per vedervi un quadro della favola del
Tasso, divinamente in pittura rappresentato dal Sig. Annibale Carracci […]».
La Venere
addormentata che era attigua all’opera di Annibale, crea una corrispondenza di
forme orizzontali con Rinaldo, a sottolineare ancora
di più la iperfemminilizzazione del cavaliere.
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Fig. 10: Annibale Carracci, Ercole e Onfale, affresco, 1597-1607 ca., volta della Galleria dei Carracci, Palazzo Farnese, Roma.
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Femminilizzazione
presente anche nel riquadro della volta della Galleria, nella scena di Ercole e
Onfale (Fig. 10), dove l’eroe indossa vesti femminili, scambiati abiti e ruoli
con la donna, proprio come Rinaldo e Armida. La scena di Ercole e Iole trova
quasi testuale corrispondenza nella descrizione del mito raffigurato nei fregi
della porta del palazzo di Armida nella Gerusalemme;
anzi, secondo Bellori, i Carracci si sarebbero rifatti proprio a quella
descrizione per comporre la scena sulla volta della Galleria di Palazzo Farnese:
«Qual forza resisterà più ad Amore? mirasi Ercole
femminilmente avvolto nel manto d’oro dell’amata Iole, che gli siede a
lato; con la destra domatrice de’ mostri scuote il rotondo timpano lascivo e
verso lei si volge, che approva il suono e di Ercole trionfa. La superba
fanciulla cinto il dosso con la spoglia nemea ed annodati li fieri artigli su
le tenere mammelle, s’appoggia con la destra imbelle su la clava guerriera, e
con la sinistra abbraccia la spalla dell’effemminato amante, soggiogando col
molle braccio quella cervice che sostenne le sfere. Ben sembra il cuoio del
leone ruvido troppo alle sue delicate membra; e troppo ruvido ancora l’amante
che le siede appresso, posando essa la pulita gamba sopra l’erculea coscia
ispida e dura. In questa favola Annibale seguitò la descrizione
del Tasso, che mirabile scultore mostrossi nell’istessa poesia; e
fecevi Amore che da una loggia mira Ercole e ride, e con la mano
accenna il forte eroe effemminato e vinto».
Anche nella descrizione
che lo storico dà di un altro soggetto, presente nel camerino Farnese, sembra
di cogliere un parallelismo con l’idea tassiana, ma anche torelliana, del
riposo contemplativo dopo le imprese compiute nel raggiungimento delle virtù
nella vita attiva. Si tratta del riposo meditativo di Ercole dopo le sue
fatiche (Fig. 11). Su di un masso si legge una
scritta in greco:
«"PONOS TOU KALOS ESUXASEIN AITIOS" cioè la
fatica è cagione di riposarsi bene. Sì come questa imagine comprende la vita
attiva, che consiste nelle azzioni per tanti di Ercole gloriosi fatti,
così l’altra del medesimo che sostiene il mondo è simbolo della vita
contemplativa, e l’una e l’altra si confà alla virtù ed alla felicità umana,
avendo l’una per fine il bene, l’altra il
vero».
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Fig. 11: Annibale Carracci, Ercole in riposo, affresco, 1595-1597 ca., Camerino di Palazzo Farnese, Roma.
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Stefano Colonna,
nel suo saggio sulla Galleria dei Carracci, analizza l’importanza che rivestono
gli Amorini in lotta agli angoli della volta, punto di partenza per
l’interpretazione sostanzialmente corretta che Bellori dà della decorazione, e
che li riconosce come Eros e Anteros che lottano, e che trovano finalmente un
accordo di pacificazione nel nome della corresponsione tra Amor Divino e Amor
terreno, che trova luogo nel matrimonio. Una temperanza di amore
che otterrà su di sé «corona e palma», come recita la conclusione della
tragedia torelliana Tancredi,
individuando la rilevanza del magistero torelliano per la cultura farnesiana.
Come ho già
ricordato, anche Tasso parla di Anterote come Amore reciproco, nato per far
maturare l’Amore fanciullo, che infine condurrà alla pace contemplativa del
terzo stadio dell’amore. Inoltre, nella rima per
Ranuccio Farnese, poc’anzi citata, si ritrova una conclusione simile a quella
che utilizzerà Torelli:
«ch’al fin, domo il nemico [Amore], a le rubelle
voglie torrai di te l’alto governo
ed avrai lauro
trionfale e palma»
Sembra una
calzante descrizione degli angoli della volta della Galleria, dove, domato
finalmente l’amore terreno, si trionferà con alloro e palma (Figg. 12 – 13).
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Fig. 12: Annibale Carracci, Eros e Anteros lottano sovrastati da una corona d’alloro, Roma, Palazzo Farnese, Galleria dei Carracci.
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Fig. 13: Annibale Carracci, Eros e Anteros lottano per la palma, Roma, Palazzo Farnese, Galleria dei Carracci.
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La fortuna
pittorica della Gerusalemme Liberata
verrà non solo continuata, ma anche ampliata, dai più dotati seguaci della
scuola carracesca, come Domenichino, Giovanni Lanfranco (che collaborò alla
decorazione della Galleria di Palazzo Farnese), Guercino, Sisto Badalocchio,
dando spesso occasione di creare, tra le prime volte, della pittura di
paesaggio, tradizione iniziata proprio dai Carracci e continuata dai nuovi
classicisti come Poussin. Anche nel poema di
Tasso vi sono ampi brani di descrizione del paesaggio. Una natura che avvolge i
protagonisti ed assume di volta in volta caratteri legati ai significati
spirituali più profondi degli episodi.
Argan mette in
luce la compiutezza del principio ut
pictura poësis verificatosi, attraverso il pensiero del Tasso,
nell’«affinità tra la poetica letteraria di Giambattista Marino e la poetica
figurativa di Annibale Carracci». Tasso ha esercitato
un’importante influenza su Marino durante la sua formazione, e sebbene il
rapporto con Annibale sia meno diretto, hanno pur condotto parallele e per
certi versi simili riforme della letteratura l’uno, della pittura l’altro,
proprio nel periodo nel quale a Bologna viene istituita l’Accademia dei
Carracci.
Giulio Carlo Argan istituisce un parallelo tra questi autori per quanto
riguarda proprio la nuova concezione della figura dell’artista, corrispondente
a quella del poeta «di cui è prototipo il Tasso», che «imposta la propria arte
non più su una concezione del mondo ma su una concezione dell’arte […], non
avendo apparentemente altro fine che l’autonomia dell’arte, ma proprio perciò
non potendo sfuggire al problema della specifica funzione e responsabilità
dell’artista».
L’artista deve creare un rapporto con lo spettatore che non si limiti più alla
sola contemplazione o meraviglia fine a sé stessa; l’immaginazione è potente e
viene stimolata, ma anche indirizzata, dall’autore verso un immaginare
rivestito di utilità morale.
Torquato Tasso non
portò mai avanti una teorizzazione così scientifica e sistematica delle
passioni e loro moderazione, come fece invece Torelli, ma gli elementi che la
compongono sono tutti presenti nelle varie opere dello scrittore sorrentino.
Negli ultimi anni
della vita di Tasso, lui e Torelli seguono binari pressoché paralleli che si
intersecano sovente, in un proficuo interscambio culturale e una continua
osmosi tra i vivaci ambienti culturali delle corti principesche e papali. Dopo
la morte dello scrittore sorrentino, avvenuta nel 1595, la sua eredità
continuerà, più vitale che mai, ad influenzare i dibattiti letterari e culturali,
ed anche le arti figurative. La poetica di Tasso accompagna le arti verso
l’ingresso nell’età barocca, e avrà un peso che non si limiterà alla sola
iconografia. La rivoluzione che lui ha portato avanti in letteratura, corre
parallela nella riforma della pittura.
Così come Torelli
ha influito in modo importante nella produzione culturale e figurativa della
corte farnesiana, non solo di Parma ma perfino di Roma, non è assente in queste
anche lo spirito di Torquato Tasso.
NOTE
Una disamina di una Raccolta di Lettere nella Biblioteca Civica di
Ferrara, ha permesso a Lucia Denarosi di anticipare a tale data l’affiliazione
del Tasso all’Accademia, che fino allora veniva fatta risalire al 1586 e
all’intervento di Ranuccio Farnese sulla scorta di Ireneo Affò, che scrisse una
importante Memoria Storica dell’Accademia, tutt’ora base documentale per la
conoscenza di molti aspetti del circolo letterario e dei suoi membri.
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Archives
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Flavio DE
BERNARDINIS, voce «Flaminio de’ Nobili» in Dizionario Biografico degli Italiani
- Volume 38 (1990), http://www.treccani.it/enciclopedia/flaminio-de-nobili_(Dizionario-Biografico)/
MUSEO CAPODIMONTE
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