Il
Fregio
delle arti
liberali e meccaniche
in casa Marta-Pellizzari a Castelfranco, databile al 1502-1503 e
attribuito dalla maggioranza della critica a Giorgione e
collaboratori, sviluppa tra i diversi temi, quello dell’astrologia,
che è certamente il più significativo dell’intera decorazione ad
affresco, poiché ne occupa circa un terzo.
La
sezione dedicata al mondo celeste si apre con un’ampia sfera
popolata di stelle e dei simboli del Sole e della Luna, dei Pesci,
dell’Ariete e della Bilancia (fig. 1): la singolare
disposizione
degli astri, collocati sulla superficie del globo secondo un
andamento a semicerchio, terminante in due curiose propaggini
verticali disposte quasi parallelamente, sembra suggerire l’idea
che la composizione non sia maturata dalla pura immaginazione
artistica di Zorzi, ma che piuttosto questi abbia tratto ispirazione
da reali costellazioni raffigurate in libri di materia astronomica
del tempo, se non dall’osservazione diretta dei cieli veneti nelle
ore notturne, suggestione quest’ultima, per quanto carica di
romanticismo, certamente non impossibile.
La sfera armillare (fig.
2), disegnata con spietata precisione ed estrema abilità nella resa
della forma tridimensionale, conferma d’altra parte la familiarità
dell’autore con precisi modelli figurativi, desunti proprio da
certe opere scientifiche particolarmente diffuse in area veneta: la
figura è infatti ripresa pedissequamente – l’anello dello
Zodiaco presenta addirittura il medesimo grado d’inclinazione, ma
soprattutto il cartiglio alla base che cita il titolo dell’opera –
dalla sfera armillare che compare nella Sphaera
mundi,
di John
Holywood (fig. 3), italianizzato in Giovanni Sacrobosco, astronomo e
matematico inglese del XIII secolo, stampata a Venezia in almeno otto
edizioni a partire dal 1478, a dimostrazione della larga popolarità
di cui godeva in quell’area geografica a cavallo tra Quattro e Cinquecento.
Dalla
versione del 1482 sono estrapolate anche le altre immagini che si
susseguono, come in una summa
visiva della scienza astronomica, sulla parete di Castelfranco: le
eclissi lunare e solare, uno schema geometrico con due cerchi
sovrapposti e altri complessi modelli che esemplificano posizioni e
movimenti dei corpi celesti.
Tra
le figure di questi strumenti si dispiegano alcune tabelle, decorate
di nastri posti specularmente, come negli stemmi araldici, in cui
campeggiano antiche massime, che suonano come autentici moniti e
richiedono di essere logicamente interpretate in stretta relazione
col tema descritto dalle immagini.
Nella
prima di esse è scritto che «Umbre
transitus est tempus
nostrum»
(fig. 4):
il
passo è ripreso dal Libro della Sapienza
(II,5) e si colloca in quel corposo filone di sentenze sulla fugacità
del tempo che dalla più remota antichità, con gli esempi di
Virgilio
e del celebre Carpe
diem
oraziano, fino
alla non meno nota Canzona
di
Bacco
di Lorenzo de’ Medici, scritta una decina d’anni prima degli
affreschi di Castelfranco, vantava una tradizione pressoché
ininterrotta. La seconda, ripresa da Sallustio e separata dalla prima
sentenza da un medaglione ovale in cui è ritratto un vecchio barbuto
e inturbantato, avverte che «Sola virtus clara eterna
que habetur»,
mentre le ultime due,
anch’esse interpolate come la prima coppia, da un clipeo recante
l’effigie di un anziano con barba lunga e copricapo di foggia
ebraica, riportano: «Qui in suis actibus ratione duce diriguntur
iram celi effugere possunt» e «Fortuna nemini plus quam consilium
valet».
I
concetti veicolati dai quattro motti sono strettamente concatenati,
per cui devono essere ragionevolmente compresi in termini di
consequenzialità: dunque, se il tempo dell’esistenza umana è
transitorio come il passaggio di un’ombra, la virtù è invece
eterna, perciò coloro che dirigeranno le loro azioni secondo ragione
potranno scampare all’ira del cielo perché per nessun uomo la
fortuna vale più del senno.
Il
programma decorativo fu certamente suggerito, in modo anche piuttosto
circostanziato, da una personalità appartenente a una di quelle
ristrette élites intellettuali dell’Umanesimo veneto, alle quali
Zorzi da Castelfranco era molto vicino, imbevuta di una cultura non
solo letteraria, qui orgogliosamente
sfoggiata nelle tavolette coi motti in latino, ma anche sedotta da
conoscenze astrologiche più che scientificamente astronomiche,
poiché come sottolinea Augusto Gentili
«in quest’epoca l’indagine “astronomica” è integralmente
funzionale alla previsione “astrologica”».
Infatti
è in un coevo trattato di predizioni celesti che può essere
identificato uno dei principali moventi del brano astrologico di
Castelfranco, il Dialogus
in astrologiae defensionem
cum
vaticinio
a diluvio
usque ad annos 1702 di
Giovan Battista Abioso, medico, matematico e astronomo campano,
stampato presso il veneziano Franciscum Lapicidam nel 1494.
In
esso l’autore designa, sulla base dei propri calcoli,
il 1503, il 1524 e addirittura il 1702, come anni infausti, e proprio
nel globo che introduce la sezione astrologica del Fregio, Gentili
individua una rappresentazione della grande congiunzione astrale di
Saturno, Giove e Marte in Cancro, prevista per il 1503-1504:
un’osservazione che autorizza a ritenere che la realizzazione
dell’intero Fregio
fosse stata in qualche modo “imposta” dall’inquietante scadenza
della sciagura vaticinata nel Dialogus,
quasi a volerne esorcizzare il timore, sublimandola nelle forme
ideali di un ciclo decorativo.
Questa
grande congiuntura, che tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo si ripeteva ogni venti anni, era ritenuta foriera di tremende calamità, come testimonia anche una xilografia di Dürer, raffigurante un uomo dall’espressione sofferente, martoriato di disgustose pustole, sul cui capo pende un globo coi segni zodiacali e il raggruppamento di
Sole, Luna e quattro pianeti nello Scorpione (fig. 5).
L’Abioso,
che a Treviso dirigeva tra il 1497 e il 1499 una rinomata scuola di
astrologia, aveva un cospicuo seguito di discepoli e godeva di una
profonda stima tra gli abitanti del luogo, come testimoniano la
stesura del Divinus
tractatus
terrestrium
et coelestium trutina
portata a termine il 5 febbraio 1498 e stimolata, secondo le stesse
parole dell’autore, dall’entusiasta insistenza dei suoi allievi e
dei cittadini trevigiani, e la pubblicazione di un Vaticinium
per l’anno 1499, redatto da alcuni suoi allievi secondo le
direttive scientifiche del maestro, nonché un lusinghiero ritratto
dell’autorevole astrologo Luca Gaurico che nel 1507 manifestava la
propria ammirazione per le competenze astrologiche dello studioso
campano. La notevole considerazione di cui beneficiava una
personalità come Giovan Battista Abioso attesta il grado di serietà
con cui la tradizione astrologica veniva accolta dalla società
contemporanea e specialmente dagli umanisti, animati da un lato dal
desiderio di ampliare le proprie conoscenze, tradizionalmente
letterarie e filosofiche, e dall’altro versante, psicologicamente
sensibili all’inquietudine suscitata dai pronostici celesti.
Il
Fregio
di Castelfranco
fornisce una testimonianza unica e preziosa di questa particolare
predisposizione umanistica verso l’astronomia e le sue finalità
astrologiche, perché se le meticolose raffigurazioni degli eventi
cosmici e dei complicati strumenti per decifrarli palesano la
scrupolosa attenzione e il vivo interesse del dotto committente verso
questa scienza, gli adagi riportati nelle tabelle fungono come una
sorta di antidoto morale alla negatività degli eventi terreni
determinati dalle nefaste congiunzioni astrali, poiché se queste
ultime sono ineluttabili ma comunque transeunti, ciò che resiste
nella sua immanenza universale e infallibile è la Sapienza degli
antichi, che perciò deve essere ricordata saggiamente e con ferma
perentorietà, attraverso motti antichi scritti in capitale quadrata,
come nelle epigrafi romane destinate a durare per l’eternità - così
che sarebbe forse più appropriato definirli “incisi” - e collocati alle
estremità della sezione astrologica, a conchiuderla e a ribadire la
superiorità di certi princìpi virtuosi: una precisa scelta formale
e compositiva, perfetta sintesi di un’identità tra forma e
contenuto mirata a sottolineare la supremazia e l’assolutezza,
metastorica, della cultura umanistica e dei suoi insegnamenti sulle
asperità degli accidenti storici.
Non
è infatti casuale la raffigurazione, immediatamente dopo la coppia
di immagini che chiude il brano astrologico, di due alabarde
incrociate che inquadrano un elmo (fig. 6), chiari riferimenti al
tema della guerra, perché la collocazione di questa chiarissima
allusione, che dà luogo a un vero continuum
della sezione precedente, in questa parte del Fregio, vuol
significare, come osserva ancora Gentili
che le guerre sono incoraggiate dalle ostili condizioni celesti e
dalle ingannevoli profezie di certi astrologi di corte, ciarlatani
privi di studio, “superstiziosi sofisti” come li giudica l’Abioso
nel Dialogus,
contrapponendogli Tolomeo e Albumasar, tanto l’uno quanto l’altro
ragionevolmente identificabili nel ritratto clipeato del vecchio
arabo col turbante.
L’interpretazione
in chiave storico-pessimistica della decorazione astrologica di
Castelfranco è incoraggiata dalla particolare situazione politica in
cui si trovavano Treviso e di riflesso i centri minori della Marca,
notevolmente delegittimati sin dalla riforma deliberata dal Senato
veneziano nel 1407, che aveva determinato un sostanziale
esautoramento dei poteri esecutivi delle autorità locali, ridotte a
organi meramente consultivi subordinati alle direttive della
Dominante, per cui la popolazione della terraferma di questa area,
poteva rintracciare nei venefici influssi siderali pronosticati
dall’Abioso, che come abbiamo visto in area trevigiana godeva della
massima ammirazione intellettuale, l’annuncio dei prolungati
effetti della perdita dell’antica sovranità municipale,
verosimilmente messaggeri di nuove sciagure politiche, come quella di
natura non più solamente cittadina, ma “nazionale”, che da lì a
un anno sarebbe stata già idealmente sancita dalla costituzione
della Lega antiveneziana di Cambrai (1504), premessa della terribile
disfatta di Agnadello del 1509. Pertanto è plausibile che il
committente del Fregio di Casa Marta-Pellizzari fosse una personalità
non solo imbevuta di una profonda cultura umanistica, incline alla
passione astrologica, ma anche particolarmente integrata nella vita
politica di Castelfranco, nella quale infondere la virtus
che fu di Alessandro
Magno, verosimilmente identificabile nello sbiaditissimo ritratto di
profilo posto tra le due tabelle che segnalano la parte “bellica”
del Fregio.
Nello
stesso anno della sconfitta militare di Agnadello, il padovano Giulio
Campagnola, amico e sodale di Giorgione, realizzava la sua più
celebre incisione, l’Astrologo
(fig. 7).
Adagiato
scalzo sul morbido terreno erboso, un vecchio di aspetto davvero
giorgionesco,
col volto barbuto e la testa calva, vestito di un’ampia tunica
sormontata di scapolare, è intento a calcolare una congiunzione
astrale puntando un compasso su una sfera, dove sono riportati i
simboli del Sole, della Luna e della Bilancia, e dall’alto in basso
i seguenti numeri: 3, 21, 40, 43, 50 e la data 1509 (fig. 8). Alle
sue spalle un tronco mozzo e ancor più dietro un arbusto rigoglioso
che protende i suoi rami verso l’alto. Sullo sfondo una magnifica
veduta di una città protesa sul mare e in primo piano, dal lato
opposto a quello dell’anziano sapiente, una mostruosa creatura con
coda di rettile, minacciose zampe unghiute e muso a becco, e un
teschio con le ossa incrociate.
Diverse
le interpretazioni critiche intorno a questo enigmatico bulino.
Secondo Wind
la figura dell’astrologo sarebbe una metafora dello scorrere del
tempo, mentre il mostro rappresenterebbe il diavolo e il teschio con
le ossa incrociate la morte; Guidoni
ritiene che la previsione del vecchio saggio sia di pestilenza,
simboleggiata dalla città desolata e dall’orrendo animale che
emerge dalle acque insalubri, collocando l’incisione nel 1508,
quando il contagio della peste infuriava a Padova; Giuseppina Dal
Canton
identifica il protagonista nella figura di un astrologo-alchimista
impegnato a decifrare gli influssi delle stelle sui fenomeni
naturali, valutando il segno della Bilancia come un’allusione
all’equilibrio tra Bene e Male e il mostro alato come un richiamo
al drago sconfitto da San Giorgio, poiché è sotto le spoglie di
quest’ultimo che è talvolta rappresentato l’alchimista; molto
circostanziata la versione di Carradore
che suppone che l’astrologo stia calcolando una minore congiunzione
astrale di Sole e Luna in Bilancia prevista per il 13 settembre 1509
alle ore 21 e 40, mentre le cifre 43 e 50 sarebbero un cenno alla
città di Bologna, allora importante centro di previsioni
astrologiche; Holberton
e Gentili
propendono invece per una spiegazione in chiave più concretamente
storica, affermando che la data 1509 sia un preciso riferimento
proprio alla disfatta militare di Agnadello, evocata dal teschio e
dal tronco disseccato.
Se
la ricchezza di elementi – il globo coi numeri e i segni celesti,
l’orribile mostro, il teschio, il tronco secco – particolarmente
convenienti ad un’interpretazione puramente simbolica e idealistica
della scena, spinge ad accettare come ragionevoli le spiegazioni
critiche (Wind, Dal Canton), che valutano l’Astrologo
come un criptico
riferimento a concetti universali e metastorici (la morte,
l’alchimia), il panorama lagunare dello sfondo riporta la questione
su un terreno decisamente più perimetrato in termini reali. La
spettacolare città galleggiante, con due cupole gemelle che svettano
sulle case, dietro un palazzo signorile, non può che essere Venezia,
con la Basilica di San Marco e il Palazzo Ducale, i più potenti
segni urbani della sua identità, e la citazione nel medesimo
contesto di questa veduta, della cifra «1509», difficilmente può
qualificarsi come segno diverso da quello del richiamo alla pagina
più funesta della storia contemporanea della Serenissima, cioè la
dolorosa disfatta di Agnadello contro la Lega di Cambrai del 14
maggio 1509, a causa della quale la Repubblica veneziana perse gran
parte dei suoi possedimenti sulla terraferma, per cui l’esegesi che
individua nell’Astrologo
un ermetico ricordo di questo importante evento storico deve essere
preferita ad altre, che pure conservano validi spunti di
ragionamento, alcuni dei quali certamente contestualizzabili anche
nel quadro dell’ipotesi “storico-politica”, come ad esempio
quella di Wind, poiché i particolari della bestia ripugnante
valutata come immagine del diavolo e quella del teschio, come un
simbolo ovviamente di morte, ben si attagliano allo scenario
catastrofico che si era venuto a definire in seguito alla sconfitta
militare veneziana. Assolutamente non sottovalutabile è inoltre il
fatto che questa è l’unica incisione datata nella produzione del
Campagnola, segnale importantissimo che consolida la convinzione
secondo cui l’autore ha voluto sottolineare un preciso momento
storico, una svolta epocale, in senso fortemente negativo, destinata
a lasciare un segno profondo nella coscienza della società veneta
del tempo e specialmente dei suoi intellettuali più sensibili, in
costante e drammatico bilico tra l’aspirazione ad un otium
ideale e serenamente
distaccato dalla tragica contingenza degli eventi politici e la
ragion di Stato che chiamava all’adempimento dell’impegno civile,
come certifica in termini emblematici un passaggio delle Leggi
della Compagnia degli Amici,
ristretto cenacolo umanistico di cui facevano parte Pietro Bembo,
Trifone Gabriele, Vincenzo Quirini e Nicolò Tiepolo che stabiliva
che il rispetto delle «guerreggianti patrie»
doveva precedere il sentimento di «amistà» tra i sodali.
Da
un personalità come Giulio Campagnola, il grave evento della
primavera del 1509 doveva essere percepito non solo naturalmente
attraverso lo sguardo del semplice cittadino della Repubblica veneta,
cioè dal punto di vista più immediatamente sociale e politico, ma
soprattutto in termini più individuali e intimistici, come una sorta
di giustificazione storica al proprio modello di vita,
particolarmente incline alla coltivazione degli studi umanistici e
quindi di un otium
di matrice davvero bembesca – e non è affatto escluso che alcune
delle opere più intellettualmente sofisticate del patavino fossero
destinate proprio a quei patrizi veneziani orbitanti attorno alla
Compagnia
- secondo cui l’unica alternativa per sopravvivere ai veleni del
mondo era la profonda dedizione alla cultura, perciò anche una
tragedia come la caduta di Agnadello, eclatante dimostrazione della
precarietà della vicenda umana, poteva ed anzi doveva essere
scongiurata e neutralizzata, attraverso la ricerca del sapere,
incoraggiando il desiderio di leggere nella figura del vecchio
astrologo, intento alla speculazione scientifica e incurante
dell’orrendo mostro, metafora della guerra, che incombe ai suoi
piedi, una proiezione ideale e spirituale dello stesso Giulio.
Dieci
anni dopo, un anonimo artista realizzava un’interessantissima
xilografia per il frontespizio del Liber
in
judiciis
astrorum
di Albohazen
Haly (fig. 9), chiaramente ispirata all’Astrologo
del Campagnola. La presenza di una cicogna sulla guglia di un
edificio sullo sfondo, che è la riproposizione dell’immagine di
Palazzo Ducale, ma soprattutto di altri uccelli della stessa specie
in volo verso l’alto, è stata acutamente indagata da Piermario Vescovo
che ha individuato in un paragrafo, significativamente titolato
Vigiliae
speculationis,
degli Hyeroglyphica
di Pierio Valeriano, il significato allegorico correlato a questa
particolare scena, che è di sventura, perché secondo questo
trattato le cicogne che abbandonavano gli spazi alti che custodivano,
predicevano la rovina di una città, situazione confermata nella
xilografia dalle minacciose nubi che si addensano nel cielo alle
spalle dell’astrologo, segno inequivocabile e invero anche un po’
banale, utilizzato per alludere a infausti presagi, ulteriore riprova
del valore pessimistico connaturato alle profezie del tempo.
La
tematica astrologica veniva affrontata in quegli anni anche da un
anonimo Monogrammista PP, in una sua incisione nota come il Trionfo
della Luna
(fig. 10),
esposta alla recente mostra veneziana dedicata ad Aldo Manuzio,
in cui la critica
ha letto una raffigurazione dell’effetto sugli esseri umani,
ritratti dormienti, dei soporiferos radios della Luna descritti
da Giovanni Pontano negli Orti
delle Esperidi, opera
pubblicata proprio presso l’Accademia Aldina nel 1505. La
particolare tecnica incisoria adottata dall’artefice del bulino,
caratterizzata da un largo uso del punteggiato, la cui ideazione è
rivendicata proprio al Campagnola, frequentatore del Manuzio, induce
a supporre la diretta trasmissione di questo metodo dall’artista
padovano al Monogrammista PP, all’interno di un contesto, non solo
meramente artistico ma più estesamente intellettuale, dove il
fascino per la materia astrologica doveva essere piuttosto diffuso se
da un’opera come quella pontaniana veniva tratto il passo sugli
influssi della Luna ed eletto a soggetto di una creazione artistica
informata a uno stile così apprezzato negli ambienti più colti,
come erano quelli cui appartenevano gli ammiratori delle creazioni campagnolesche.
La
propagazione delle tematiche astrologiche in queste testimonianze
artistiche del primo Cinquecento, unitamente alla
profusione di opere letterarie alle quali erano talvolta
direttamente ispirate, come nel caso del Fregio di Castelfranco, certifica la
non occasionalità dei contatti tra il mondo dei letterati e quello
delle scienze più propriamente intese, restituendo l’immagine di
un Umanesimo veneto non esclusivamente intriso di studi classici, i quali
però fornivano pur sempre gli universali modelli di virtus
per scampare alla maledizione delle stelle.
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