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L'architettura raccontata dai maestri. Modernissimo Gropius  

Bibiana Borzì
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 27 Marzo 2020, n. 892
http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00892.html
Articolo presentato il 23 Marzo 2020, Approvato il 26 Marzo 2020 e pubblicato il 27 Marzo 2020
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Area Architettura

Chi, se non l’urbanista e l’architetto creativo, dovrebbe essere il primo responsabile custode del nostro possesso più prezioso, il nostro ambiente naturale, e della bellezza e adeguatezza del nostro spazio vitale, come fonte di soddisfazione sentimentale per un modo di vivere nuovo?

Walter Gropius, Architettura integrata, prima ed. 1955, Milano, Il Saggiatore, 1963

Modernissimo Gropius è un omaggio al pensiero illuminato del maestro berlinese, precursore di un modo nuovo di concepire, costruire, vivere l’architettura. È il 1955, quando l’architetto raccoglie articoli e saggi scritti durante gli anni trascorsi all’Università di Harvard (Cambridge, Massachusetts) dal 1937 al 1952, come preside della Facoltà di Architettura, da qui vedrà la luce Scope of Total Architecture, che lungi da volere essere un trattato specialistico è piuttosto una riflessione ampia e profonda sul cambiamento epocale attraversato dall’architettura. Cambiamento che Gropius sente e vive appieno, insieme ai contemporanei Le Corbusier e Mies van der Rohe, all’interno di quel Movimento Moderno egregiamente celebrato dalla penna di Nikolaus Pevsner1. Lo storico tedesco è tra i primi a tracciare un percorso dell’architettura che da William Morris prosegue dritto fino a Gropius: un fil rouge che scandisce con forza l’inizio di un nuovo lessico architettonico, identificato appunto dall’aggettivo moderno. Un impeto che attraversa tutta l’Europa, a fianco delle Avanguardie novecentesche, con un comune denominatore: giungere ad un nuovo linguaggio, rompere con la tradizione.

I “pionieri” delineati da Pevsner sono al contempo architetti e teorici, binomio affatto casuale, che lascia intravedere il senso di grande responsabilità etica, oltre che l’indiscusso spessore culturale, dei protagonisti di una stagione certamente felice per l’architettura. Gropius condivide con Le Corbusier e Mies van der Rohe un impegno quasi pedagogico, certo che l’architettura, al di là del mero costruire, possa influire positivamente sulla vita dell’uomo. I tre maestri si ritrovano fianco a fianco in più occasioni, in primis nel rinomato studio di Peter Behrens2 a Berlino, uno dei più avanzati sul fronte della ricerca estetica e tecnologica a servizio dell’industria. Qui Gropius, nominato primo assistente nel cantiere della fabbrica AEG, avrà modo di seguire Behrens nel suo ruolo di art director aziendale, tra i primi della storia, con un impegno che non si limita alla sola fase costruttiva, ma comprende tutti gli aspetti relativi all’elaborazione, produzione e comunicazione del prodotto, anticipando gli esiti del moderno industrial design. Un’esperienza che sarà capitale per il giovane architetto.

«Nel 1908, quando portai a termine il mio periodo di formazione preparatoria e iniziai la mia carriera professionale con Peter Behrens, la concezione prevalente dell’architettura e della formazione architettonica era ancora totalmente improntata al dominio stilistico degli “Ordini” classici accademici. Fu Behrens che mi introdusse a un metodo di lavoro basato sulla coordinazione logica e sistematica come concetti imprescindibili nell’affrontare problemi di natura architettonica»3.

È il 1927 quando Gropius, Mies van der Rohe e Le Corbusier, concluso l’apprendistato presso il decano Behrens, lavorano a stretto gomito per un quartiere sperimentale a Stoccarda, insieme a molti altri colleghi europei. L’occasione è la seconda mostra del Deutscher Werkbund4, la Lega tedesca degli artigiani, all’interno del quale matura la nuova generazione di architetti tedeschi.

«Lo scopo del Werkbund – dice lo statuto – è di nobilitare il lavoro artigiano, collegandolo con l’arte e con l’industria. L’associazione vuol fare una scelta del meglio nell’arte, nell’industria e nell’artigianato e nelle forze manuali; vuol mettere assieme gli sforzi e le tendenze verso il lavoro di qualità esistenti nel mondo del lavoro; forma il punto di raccolta per tutti coloro che sono capaci e desiderosi di produrre un lavoro di qualità»5.

Questa volta la regia è affidata a Mies, che coordina i lavori per il Weissenhof, letteralmente villaggio bianco (perché il bianco sarà il colore guida dell’intero movimento) costruito in posizione periferica rispetto alla città. Una sorta di sobborgo satellite che diviene ben presto una vetrina architettonica irrinunciabile per quanti si riconoscono nel rinnovato linguaggio: un trionfo di grandi terrazze, tetti piani, ampie finestre, realizzati attraverso metodologie innovative che permettono di abbattere tempi e costi di costruzione.

«L’Esposizione di Stoccarda presenta al pubblico per la prima volta un panorama unitario del movimento moderno. Il confronto diretto tra le opere di molti architetti, provenienti da varie nazioni, mette in evidenza i propositi comuni piuttosto che le differenze e fa vedere la convergenza sostanziale fra molte ricerche che hanno origini diverse. Non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono semplicemente accostati tra loro, come nei soliti quartieri periferici. Se però si riflette che gli edifici sono pensati come prototipi, adatti per essere ripetuti in serie e valgono in certo senso come campioni di altrettanti quartieri, il Weissenhof può essere considerato una rappresentazione allusiva della città moderna»6.

Così, sull’onda del funzionalismo, gli autori chiamati a Stoccarda condividono non solo tecniche e materiali, ma un pensiero comune, che presto darà vita ai CIAM7 (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), una ventata di aria nuova per l’architettura e l’urbanistica. Nel Weissenhof l’intento è quello di promuovere, ciascuno a suo modo, un’edilizia economica ma non per questo scadente, ovvero un prototipo di abitazioni replicabili su larga scala. Per l’occasione Gropius realizza due case, una con una struttura di acciaio, e una con blocchi di pietra pomice montati a secco, sperimentando nuove tecniche di prefabbricazione. Il tema è quello dell’alloggio popolare, ampiamente affrontato in quegli anni e molto caro all’architetto che si dedica alla progettazione di quartieri in diverse città tedesche, senza tuttavia tralasciare la partecipazione a convegni internazionali, segno di una chiara inclinazione teorica comune ad altri colleghi, con i quali condivide sì un iter lavorativo ma soprattutto un’affinità intellettuale.

Questa comunione di intenti è chiara fin dagli anni del Bauhaus8, quando il problema della formazione degli architetti è sentito con particolare attenzione. Così Gropius nel 1919 avvia a Weimar una scuola avveniristica, preludio al moderno campus, nata dalle ceneri delle vetuste istituzioni artistiche con una forte carica di innovazione didattica. Sotto gli auspici del suo fondatore, l’architettura è ritenuta sommo vertice, la guglia più alta di una imponente cattedrale gotica, proprio come nella veste grafica concepita da Lyonel Feininger per l’occasione. Si tratta del Manifesto del Bauhaus (1919), dove la cattedrale, frutto di un lavoro collettivo, simboleggia un impegno corale: arte e architettura si uniscono senza attrito, come facce di una stessa medaglia. Perché l’arte non è, o meglio non può essere secondaria nella formazione di un futuro architetto-designer, al pari della perizia tecnica, e dell’attenzione al processo di produzione seriale. Come scrive Gropius:

«Capii che un architetto non poteva avere alcuna speranza di realizzare le proprie idee se non era in grado di influenzare l’industria del proprio paese, stimolando di conseguenza, la nascita di una nuova scuola di design, una scuola che avrebbe dovuto necessariamente acquisire e saper sostenere un ruolo autorevole e significativo. Capii anche che per raggiungere questi obiettivi era necessario avere un corpo di collaboratori e di assistenti in grado di lavorare non obbedendo automaticamente a direttive superiori, come una orchestra alla bacchetta del direttore, ma in modo autonomo, seppur collaborativo, in vista di una causa comune»9.

A questo scopo servivano maestri, e non teorici, nel senso più stretto del termine. Artisti, del calibro di Kandinskij o Klee, rispondono alla chiamata del Bauhaus, lontani anni luce dagli ambienti accademici ma trasgressivi quanto basta per trasmettere agli allievi il senso del colore, del ritmo, della composizione. Certo, nessuno dei due ha mai insegnato, ma nella visione di Gropius questo non costituisce un limite, anzi. Entrambi attivi nella professione hanno piena padronanza della disciplina, ciò li rende dei veri meister, al pari di architetti come Meyer o Mies Van der Rohe ai quali Gropius consegnerà il testimone in qualità di successivi direttori della scuola, confessando tra le righe di essere stato troppo assorbito dal ruolo di preside, a scapito del lavoro e dell’attività intellettuale.

«Nel 1928, quando mi parve che la stabilità e il futuro del Bauhaus fossero assicurati, lasciai la direzione al mio successore e tornai ad esercitare la libera professione a Berlino, dove potei dedicare più tempo agli aspetti sociologi e strutturali del problema abitativo»10.

L’esperienza Bauhaus avrà profonde ripercussioni sulle nascenti scuole di architettura e sul futuro del disegno industriale, ma rimarrà unica nel suo genere, come unici rimarranno i suoi maestri ed i loro rispettivi metodi. Un approccio laboratoriale, è questa la novità più grande proposta dall’istituto, affiancata dal dialogo aperto e costante, complice la struttura di cittadella universitaria, tra docenti e discenti, che si traduce in infinite occasioni di scambio, e perché no di guadagno, quando Gropius, sordo alle polemiche, metterà in produzione i progetti degli studenti più meritevoli, anticipando quel sodalizio formazione/lavoro, oggi così attuale. Come sottolinea Benevolo, questo nuovo approccio didattico, nato dalla felice intuizione di Gropius, incide profondamente sulla cultura architettonica.

«L’istanza formale non è più collocata in una sfera indipendente, capace di dar luogo ad una esperienza separata, ma è calata risolutamente nell’attività produttiva. Il lavoro artistico ha per scopo non d’inventare una forma, ma di modificare, mediante questa forma, il corso della vita quotidiana e vale in quanto investe tutta la produzione e l’ambiente in cui vivono tutti gli uomini»11.

Il motto di William Morris, “arte del popolo per il popolo”, riassume la nuova sfida rivolta ai progettisti, ossia rendere la bellezza alla portata di tutti. Gropius, insieme ai colleghi che sposano la causa del funzionalismo non è immune a questo appello, anzi ne diventa protagonista con una personale linea di azione. Rispetto alla diatriba tra artigianato e industria, che aveva animato il dibattito tra gli esponenti del Werkbund, preferisce non schierarsi a favore dell’uno o dell’altro termine, convinto che in medio stat virtus. Infatti, né l’artigianato è pura creazione, dovendo sempre confrontarsi con la tecnica, né l’industria è pura manualità, perché il processo seriale presuppone sempre un’istanza creativa. Si tratta dunque di attuare una sintesi tra prassi e teoria, e ciò a partire dalla conoscenza dell’intero processo. In quest’ottica, è fondamentale un modello educativo che consenta di formare nuovi e più consapevoli addetti ai lavori. Sarà questo, in una data fase della sua vita, l’impegno di Gropius, ma certamente non l’unico.

La vera svolta nella vita dell’architetto, infatti deve ancora arrivare: l’occasione sarà la triste diaspora di intellettuali in fuga dalla Germania nazista, un lungo elenco di cui farà parte anche Gropius. Nel 1937 gli Stati Uniti lo accolgono con entusiasmo, del resto il suo nome è già noto in ambito universitario, sia come progettista che come teorico e animatore culturale. Lo attendono una florida carriera accademica, come professore di architettura della prestigiosa Graduate School of Design di Harvard, una vivace carriera architettonica, con importanti committenze sia pubbliche che private, seguiti da una serie di premi e riconoscimenti. Qui, non solo il suo pensiero si completa, ma egli riesce a far proprio il linguaggio architettonico locale, introducendo strutture e finiture lignee, la presenza di portici e brise-soleil, segno di un graduale adattamento al nuovo contesto. Se, per dirla con Ponti, un architetto dopo dieci anni non è più lo stesso architetto, Gropius non fa certo eccezione. Nelle sue pagine “americane” traspare la voglia di cambiamento, evidente fin dalle prime battute di Architettura Integrata, dove il maestro si sforza di raccogliere i pensieri di una vita, supportato dalla moglie Isa Frank, curatrice della prima edizione del volume.

«Apprendo un nuovo capitolo della mia vita, che all’opposto di quel che normalmente ci si attende dopo i settant’anni, mi appare movimentato e periglioso quanto il tempo che l’ha preceduto, m’accorgo di essere una figura coperta di etichette, a tal punto forse da esserne oscurata. Definizioni come “stile Bauhaus”, “stile internazionale”, “stile funzionale”, sono giunte ad occultare quasi dietro di sé la mia personalità: e dunque sono ansioso di aprire qualche spiraglio in questa mascheratura nella quale gente frettolosa mi ha avviluppato»12.

Prendendo in prestito le parole di Gropius, egli sente l’urgenza di strapparsi di dosso una serie di etichette strette e pesanti. Non si tratta certamente di rinnegare esperienze passate, tanto meno riferite al Bauhaus che rimarrà emblematico nella storia dell’architettura. È piuttosto il pericolo di restare imbrigliato in una rigida griglia preconfezionata a spaventare il maestro, giunto agli anni della maturità, quando è inevitabile fermarsi a tirare le somme. Ecco perché, con grande nonchalance, l’architetto fa scivolare tra le righe di essere incline ad una scelta multicolore che corrisponde a quel «desiderio intenso di includere ogni comportamento organico della vita, anziché escluderne alcuni per amore di atteggiamenti troppo ristretti e dogmatici»13. Come afferma, in difesa della categoria, non sono gli architetti a creare sterili e pericolose dispute estetiche - forse perché impegnati in attività più edificanti - ma piuttosto i critici, affannati nel tentativo di incasellare dentro aride definizioni di stili e scuole, pensieri e affermazioni altrui, spesso senza comprendere il contesto dal quale scaturiscono. Una polemica dunque, tutt’altro che velata, verso coloro che si sono limitati a ridurre il contributo del maestro agli anni di Weimar e, in maniera assai più grave, verso chi ha letto il Movimento Moderno in maniera errata, assimilandolo ad uno stile e spogliandolo dei suoi più alti contenuti sociali.

Esiste invece un altro volto dell’architetto, forse meno noto, ma altrettanto sorprendente: quello del modernissimo Gropius. Un volto che reclama grande attenzione anche rispetto agli sviluppi dell’architettura contemporanea, profetizzati in tempi non sospetti proprio dal nostro architetto. In particolare, le pagine di Architettura integrata offrono un brano ancora attualismo del panorama architettonico, facendo emergere quanto il pensiero di Gropius sia stato progredito e rivoluzionario, influenzando colleghi e studenti di quella generazione. Formazione degli architetti e dei progettisti, Architetto contemporaneo, Urbanistica ed edilizia popolare, Per un’Architettura integrata: sono questi i titoli che aprono le rispettive quattro parti in cui è diviso il volume, annunciando in fieri gli interessi primari del maestro.

Il dibattito sulla formazione degli architetti resta un punto cruciale di quegli anni: Gropius che lo aveva ampiamente affrontato con l’istituzione del Bauhaus, può finalmente ritornare sul tema, stilando una sorta di bilancio di quella esperienza. Da subito si chiarisce che «l’obiettivo della Bauhaus non era propagandare un qualunque “stile”, sistema o dogma, ma semplicemente esercitare un’influenza rinnovatrice, dar nuova vita al comporre»14. In altre parole, non si voleva creare uno stile Bauhaus, semmai il contrario, rendere libero il processo creativo, con una distanza di sicurezza rispetto allo stagnante accademismo. I tempi erano maturi per affrontare il binomio estetica/produzione seriale, alla luce di ciò occorrevano giovani professionisti in grado di poter dialogare con l’industria, e questo imponeva una urgente revisione del loro iter formativo. Perché: «solo in casi assai sporadici sono state istituite scuole preparatorie con lo scopo di formare questi nuovi tipi di lavoratori, capaci di fondere in sé le qualità di un artista, di un tecnico, di un uomo d’affari»15. Questa è stata la grande scommessa avviata a Weimar.

Gropius intuisce che la figura dell’architetto-designer sarebbe stata di lì a poco non solo molto richiesta, ma costantemente messa alla prova da mutamenti di natura economica e sociale. Ecco dunque l’importanza di uno sguardo trasversale, interdisciplinare, che implica strategia e lavoro di squadra, oggi requisito indispensabile in qualsiasi ambito della progettazione, che si tratti di architettura o disegno industriale. Si fa strada la consapevolezza che la creazione dei “tipi standard” per i beni di uso quotidiano è una necessità sociale, e che dunque il concetto stesso di standard, prendendo in prestito le parole di Gropius, va rivalutato come pregio culturale, piuttosto che ingiustamente declassato ad ogni tipo di produzione di massa. Del resto, era stato l’amico Le Corbusier, nel suo celebre Vers une architecture (1923), ad anticipare queste tematiche, e non sorprende, proprio con la medesima volontà di riabilitare il significato del termine standard.

«Realizzare uno standard significa esprimere tutte le possibilità pratiche e relazionali, dedurre un tipo riconosciuto conforme alle funzioni, rispettando il principio del massimo rendimento con l’impiego minimo di mezzi, mano d’opera, materiali, parole, forme, colori, suoni. […] A causa della concorrenza infaticabile le innumerevoli case di produzione sono state obbligate a dominare la concorrenza e, per questo, a partire da un certo standard di realizzazioni pratiche, è intervenuta la ricerca di una perfezione, di un’armonia che stanno al di là del mero fatto pratico: ricerca che si è espressa non solamente in manifestazioni di perfezione e di armonia, ma anche di bellezza»16.

Questi maestri ripongono dunque massima fiducia nella serie, certi che può contribuire a divulgare in maniera esponenziale una rinnovata estetica e una democratica diffusione della bellezza, dalla piccola scala del design, fino alla grande scala dell’architettura. In serie, infatti, possono essere costruiti oggetti ma anche case.

«Sentiamo dire: “l’epoca moderna pone l’accento sulla vita, non sulla macchina” e “lo slogan di Le Corbusier ‘la casa è una macchina per viverci’ è ormai roba vecchia”. A esso si associa una visione dei primi pionieri del movimento moderno, come uomini di idee rigide, meccanicistiche, dediti alla glorificazione della macchina e del tutto indifferenti agli intimi valori umani. Essendo io stesso uno di questi mostri, mi domando come riuscimmo a sopravvivere su così misere basi»17.

Gropius, con un chiaro riferimento alle polemiche sorte intorno al pensiero di Le Corbusier, racchiuso nello slogan la maison est une machine à habiter18, puntualizza che il funzionalismo non andava inteso come puro processo razionalistico, ma comprendeva soprattutto problemi psicologici. Ciò significa che i progetti dovevano funzionare psicologicamente prima ancora che fisicamente, senza mai perdere di vista i bisogni emotivi, quindi l’uomo nella sua globalità. Per comprendere fino in fondo il significato di queste parole, si rende necessaria una premessa.

Nel 1932, la mostra The International Style: Architecture since 1922 al Moma di New York, consacra il successo del Movimento Moderno e dei suoi esponenti. I due curatori, il critico Henry-Russell Hitchcock e l’architetto Philip Johnson, si occupano anche del catalogo19, con una selezione di circa ottanta opere e più di settanta architetti. Tra questi nomi risuonano quelli di Gropius, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Breuer, Aalto, solo per citare una piccola rappresentanza dei maestri. Nelle intenzioni dei due organizzatori, oltre ad una valenza meramente didascalica, l’esposizione doveva servire a far conoscere al pubblico americano le conquiste dell’architettura europea, «depurate dal loro forte contenuto sociale, per farne uno strumento utile all’approccio pragmatico del capitalismo americano»20. Il Movimento moderno viene dunque non solo privato della sua originaria vocazione sociale, ma descritto attraverso una serie di regole e dettami codificabili in uno stile. Accade insomma l’irreparabile, perché proprio gli esponenti di punta del funzionalismo si erano opposti alla definizione di stile, ritenuto anche da Gropius espressione del passato e retaggio di un pericoloso accademismo. Infatti, non esistono regole fisse, né tanto meno elementi compositivi validi universalmente, ma il buon professionista deve rimanere fedele al proprio linguaggio e rivendicare una propria autonomia creativa. Altresì deve essere in grado di servire e dirigere, quindi guidare tanto il cliente che il proprio team di lavoro, senza tralasciare ciò che è in cima a questo percorso, il fine ultimo dell’architettura: la felicità dell’individuo. Su questo punto Gropius si sofferma con particolare enfasi, quasi con una raccomandazione rivolta alle nuove leve dell’architettura:

«Vorrei che ci fosse una più intensa ricerca da parte dell’architetto, di quali esattamente siano i requisiti di questa cosiddetta “felicità”. Ci fu un tempo in cui gli architetti erano tentati di pensare che il possesso di un tetto che non lasci filtrare la pioggia sia il requisito più importante della felicità; ma abbiamo poi scoperto che sebbene esso possa arrestare la pioggia, non determina necessariamente un clima umano felice»21.

L’eco di questo pensiero, animato dal clima avanguardistico dei CIAM, arriverà anche in Italia. Il nostro Gio Ponti ne sarà grande sostenitore, certo di una vocazione sempre più politica, sociale, didattica dell’architettura, che non può ovviamente prescindere dai bisogni dell’uomo, dalle posizioni estetiche e dalla responsabilità dell’architetto considerato educatore al buon gusto22. Il progettista, chiamato a risolvere problemi abitativi, deve confrontarsi con il nuovo assetto sociologico e prevedere degli standard che si adattino alle esigenze di ognuno. Così, se massima luce, sole e aria, sulla scorta di Le Corbusier, devono essere garantiti in tutti gli alloggi, «ogni adulto deve avere la propria stanza per quanto piccola possa essere»23. Questo dà la dimensione concreta di quanto Gropius, al di là dell’aspetto speculativo, fosse anche estremamente pragmatico. Se non esistono regole quantitative tout court, esiste certamente un criterio generale che ogni regolamento edilizio urbano dovrebbe assicurare, tenuto conto della nuova organizzazione sociologica. Dall’alloggio unifamiliare si passa infatti all’appartamento, e finalmente alla casa con servizi domestici centralizzati. Lo sviluppo verticale dell’edificio è la soluzione strutturale che meglio interpreta i bisogni della popolazione moderna, e le obiezioni poste dai sostenitori della casa singola, contro l’idea del grattacielo residenziale, appaiono per Gropius del tutto infondate. Infatti, «il grande edificio alto avrà il vantaggio, biologicamente assai importante, di una maggiore quantità di sole e di luce, di una maggiore distanza degli edifici vicini, e la possibilità di assicurare estesi parchi collegati alle case e aree di gioco tra blocchi edilizi»24. Inoltre, se l’abitazione singola con giardino offre la possibilità di godere di spazi verdi e di maggiore quiete, è comunque più isolata dal contesto urbano, in molti casi anche dai luoghi di lavoro, ciò la rende meno economica sul fronte degli spostamenti, dunque meno adatta allo stile di vita della nuova società industriale.

La generale rivalutazione dell’edificio multipiano comporta anche una riflessione apparentemente distante dall’architettura: il nuovo status sociale della donna, sempre più impegnata in ambito lavorativo e dunque con meno tempo da dedicare al ménage domestico. Non è solo una questione remunerativa ma connessa al desiderio di maggiore indipendenza femminile. Gropius aveva previsto anche questo.

«Ne segue che blocchi di appartamenti a torre, moderni, bene organizzati, non possono essere considerati alla stregua di un male necessario: essi sono un tipo di alloggio biologicamente motivato, un genuino prodotto della nostra epoca»25.

Le Corbusier, e ancor prima Auguste Perret, avrebbero certamente approvato queste parole, anche per ciò che riguarda la presenza del tetto giardino - uno dei cinque punti dell’architettura moderna teorizzati da Corbu, e messi a punto nella sua Ville Savoye (1931) - che rende fruibile un luogo della casa di norma adibito a semplice copertura, regalando all’inquilino una piccola oasi di verde con annesso solarium. Grazie al calcestruzzo armato è possibile infatti costruire solai più resistenti adattandoli alle nuove funzioni dell’abitare, accogliendo giardini pensili o piscine.

Il modernissimo Gropius è stato tra i primi a parlare di servizi centrali e comuni: questi riguardano sia la parte impiantistica, sia gli ambienti di comune utilizzo (sale ricreative, palestre, giardini d’infanzia), ormai all’ordine del giorno nei complessi residenziali e nei grattacieli contemporanei. Negli edifici a torre il costo di questi servizi può essere ripartito su un gran numero di famiglie, favorendo socializzazione e tempo libero.

«Una meta così vasta non può essere raggiunta semplicemente con “case migliori”. Il problema di costruire case, rappresentando soltanto una delle molte funzioni comunitarie, non può essere affrontato senza essere posto in relazione con il rimanente, senza verificare la capacità della comunità-ambiente di assorbire nuove aree residenziali, e di assicurare una buona circolazione e una relazione giusta tra le abitazioni, i luoghi di lavoro e i centri ricreativi»26.

È un problema di urbanistica insomma, che presuppone una attenta pianificazione comunitaria da parte degli enti locali, al fine di evitare l’eccesiva decentralizzazione dei servizi e la creazione di aree residenziali disordinate. Tutto ciò senza perdere di vista che l’uomo è un animale socievole, il cui sviluppo, come scrive Gropius, è favorito dal contatto comunitario: la vicinanza con gli altri individui è fondamentale, quanto lo è il cibo per il corpo. Emerge, ancora una volta, l’importanza attribuita al fattore umano, prioritaria nella poetica funzionalista eppure non abbastanza recepita. A conferma di ciò, l’architetto descrive una ricerca, meglio nota come Peckham experiment27, messa a punto a Londra da due biologi inglesi, Scott Williamson e Innes Pearse, negli anni Venti del Novecento. In un edificio appositamente disegnato, dotato di servizi comuni (piscina, caffè, nursery, palestra, stanze da gioco), centinaia di famiglie medie londinesi vennero poste sotto osservazione, nessuna attività fu loro imposta ma tutte le iniziative nacquero dallo scambio sociale tra inquilini. L’esperimento ha dimostrato un generale incremento della salute, favorito proprio dalla «coltivazione dell’humus sociale»28. Una lezione di cui fare tesoro, partendo anche dalle priorità che ciascun centro comunitario dovrebbe avere: un edificio scolastico in posizione centrale e dimensioni relativamente piccole, a scala umana, al fine di mantenere i servizi principali nel raggio di spostamenti pedonali. Il pericolo è dietro l’angolo, perché «mentre dotiamo l’abitazione individuale di ogni possibile comfort, abbiamo trascurato i vantaggi di riunione che offre la pubblica piazza: abbiamo ceduto quasi interamente all’automobile le nostre strade e i nostri spazi pubblici, e il pedone costretto a ritirarsi su uno stretto marciapiede, ha perduto il diritto di transito»29. Considerato che Gropius scrive il suo saggio negli anni Cinquanta, queste parole sono di una attualità disarmante. Piazza San Marco a Venezia è esempio chiarissimo di come un tempo, la vita comunitaria, fosse organizzata intorno a nuclei ben riconoscibili: la cattedrale, il campanile, il palazzo del potere, e soprattutto la piazza in sé, luogo di aggregazione e palcoscenico pubblico per feste, parate e cerimonie religiose. Ragion per cui, l’architetto ritiene che le città moderne debbano dotarsi di piazze per pedoni, proprio perché in questi spazi, nel contatto e nello scambio quotidiano, si sviluppano le radici della democrazia.

La costruzione di alloggi-tipo, a buon mercato, per assicurare ad ogni famiglia la base di una vita sana, rimane comunque il nodo fondamentale della riflessione di Gropius e dell’approccio funzionalista. La casa come bene primario è un concetto condiviso da altri architetti-teorici di quel periodo, ed espresso a chiare lettere nei loro testi, come nel caso dei già citati Le Corbusier e Gio Ponti. Ma non si tratta semplicemente di costruire nuove abitazioni, piuttosto di affrontare il problema sotto molteplici punti di vista: sociologici, economici, tecnici e formali. E se l’aspetto sociologico è il primo della lista, il lavoro per i progettisti si complica. In che modo vogliamo vivere? È questa la domanda posta da Gropius. «La mancanza di unità dei nostri edifici residenziali sono la prova di quanto vaghe siano le concezioni generalmente diffuse circa l’alloggio più adatto all’uomo moderno»30. Per un architetto abituato a misurarsi con il cantiere, inteso anche come luogo di sperimentazione, la risposta al problema non può prescindere da questioni pragmatiche. Urge l’applicazione di nuove tecniche costruttive, in particolare la standardizzazione di componenti che possano essere replicate e montate in vari tipi di abitazione. Grazie all’utilizzo di queste risorse «godremo dell’esatto incastro delle varie componenti dell’edificio fatte a macchina, a prezzo fisso e con un tempo di montaggio breve, accuratamente prevedibile e garantito»31.

Gli ingegneri sono chiamati in causa nell’impiego di materiali e tecniche performanti, in particolare la prefabbricazione delle parti strutturali andrebbe estesa anche a mura, soffitti e tetto, realizzati attraverso pannelli standardizzati. È interessante notare come «il tecnico impegnato nella progettazione di mezzi di trasporto, come camion, navi, automobili, e aeroplani, ha già sorpassato l’ingegnere edile nello sviluppo dei suoi metodi di costruzione e dei suoi materiali, in quanto ha già perfezionato l’uso dei materiali costruttivi prodotti a macchina e omogenei (ferro, alluminio, vetro) e l’applicazione di parti strutturali fatte a macchina, costituite di questi materiali»32. Il lessico utilizzato da Gropius è in perfetto pendant con Le Corbusier, nella sua carrellata di “occhi che non vedono”33: piroscafi, aeroplani, automobili, esempi lampanti di un processo di standardizzazione che agli occhi dei progettisti può sì contribuire a risolvere problemi abitativi, ma non può essere considerato l’unico possibile approccio. In questo percorso, il talento creativo dell’architetto non viene meno, anzi egli è chiamato ad una supervisione che riguarda non solo la qualità dei materiali, ma il loro impiego in un insieme armonico e ben equilibrato. Egli rimane sempre il detentore della bellezza. Questo concetto è ribadito nell’ultima parte del volume, un finale travolgente, che Gropius dedica proprio all’architettura integrata, accompagnando il lettore alla scoperta del suo più intimo significato.

È chiaro da subito il grande ruolo che attende l’urbanista/architetto. A questo scopo egli dovrà essere pronto ad includere nella propria visione la terra, la natura, l’uomo e l’arte. In sintesi avere una “mentalità polivalente”, questa è la ricetta che gli architetti di ogni tempo dovranno fare propria, una sorta di testamento spirituale che racchiude il cuore della riflessione del maestro. «Se consideriamo il fine strategico del pianificare, nella sua vastità e complessità, vediamo che esso abbraccia la vita civile dell’uomo in tutti i suoi aspetti essenziali: la destinazione del suolo, delle foreste, dell’acqua, della città e della campagna; la conoscenza dell’uomo per mezzo della biologia, della sociologia e della psicologia; il diritto, il governo, l’economia, l’arte, l’architettura e l’ingegneria»34. L’uomo è tutto questo, e l’architettura è a servizio dell’uomo a tal punto da poter condizionare l’inclinazione alla bellezza. E non sorprende che Gropius si chieda come un bambino cresciuto in Main Street (la via principale delle cittadine americane, priva di monumenti e simbolo di provincialismo), possa essere sensibile alla ricerca estetica, non avendo potuto esercitare a dovere le proprie facoltà percettive, in balia di una generale apatia sensoriale. Questo bambino, una volta cresciuto, sarà un potenziale cliente dell’architetto, al quale spetta un difficile compito, nella veste di educatore al buon gusto di pontiana memoria.

Il maestro conclude il suo saggio scrivendo che una casa non basta: la vexata quaestio dell’alloggio contemporaneo impone ai progettisti di correggere il tiro, a partire dalle componenti umane e psicologiche del problema per giungere al rapporto architettura\natura, tema più che mai attuale. E per quanti fossero ancora in dubbio su questi aspetti, aggiunge:

«Sono giunto alla conclusione che un architetto o un urbanista degni di questo nome debbano possedere una visione assai larga e comprensiva per raggiungere una vera sintesi di una comunità futura. Potremmo chiamare questo “architettura integrata”»35.

Ecco perché il pensiero di Gropius, oltre e fuori il Bauhaus, continua ad essere modernissimo, quasi a testimoniare che la via indicata dai mastri funziona come una bussola, è sempre d’aiuto per ritrovare le coordinate.




NOTE

1 Cfr. Pevsner 1936.

2 Cfr. Anderson 2002.

3 Gropius 1935, p. 27.

4 Cfr. Campbell 1978.

5 Pevsner op. cit., pp. 122-123.

6 Benevolo 1966, p. 659.

7 Cfr. Aymonino 1980.

8 Cfr. Droste 1991.

9 Gropius 1935, p. 29.

10 Ivi, p. 78.

11 Benevolo 1966, p. 568.

12 Gropius 1955, p. 11.

13 Ivi, p. 12.

14 Ivi, p. 26.

15 Ivi p. 30.

16 Le Corbusier 1923, pp. 108-109.

17 Gropius 1955, p. 116.

18 Cfr. Le Corbusier, op. cit.

19 Cfr. Hitchcock, Johnson 1932.

20 Dellapiana, Montanari 2015, p. 328.

21 Gropius 1955, p. 124.

22 Ponti 1957.

23 Gropius 1955, p. 136.

24 Ivi, p. 138.

25 Ivi, p. 149.

26 Ivi, p. 170.

27 Cfr. Pearse, Crocker 1943.

28 Gropius 1955, p. 164.

29 Ivi, p. 171.

30 Ivi, p. 176.

31 Ivi, p. 180.

32 Ivi, p. 182.

33 Cfr. Le Corbusier, op. cit.

34 Gropius 1955, p. 197.

35 Ivi, p. 210.




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