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Bartolomeo Manfredi ed i seguaci italiani della Manfrediana Methodus  
Rita Randolfi
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 112 (18 dicembre 1995)
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In una lettera a Teodoro Amayden Vincenzo Giustiniani, uno dei committenti più prestigiosi di Caravaggio e seguaci, segnalava l'affermarsi della moda dei quadri da cavalletto: "Non solo in Roma, in Venezia ed in altre parti d'Italia, ma anco in Fiandra ed in Francia modernamente si è messo in uso di parare compitamente co' quadri, per il passato, massime in Spagna, e nel tempo dell'estate, e questa nuova usanza porge anco gran favore allo spaccio dell'opere dei pittori ..." (1).

Bartolomeo Manfredi si trovava a Roma in un momento di grande fermento culturale. L'artista seppe sfruttare una situazione a lui favorevole che lo condusse al successo nel giro di pochi anni: nel 1606 infatti Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, suo primo maestro, era dovuto partire dalla città per recarsi a Loreto, e contemporaneamente Caravaggio fu costretto a sfuggire alle persecuzioni del Papa, in seguito all'omicidio di Ranuccio Tomassoni (2).

Il pittore ostianese dunque si sentì libero di fare la sua scelta, e prendendo spunto dai personaggi riuniti attorno ad un tavolo che comparivano nella "Vocazione di S. Matteo" del Caravaggio, codificò un linguaggio semplice ed immediato in cui prevaleva la scena di genere, resa secondo quella tecnica del chiaro scuro, che tanto affascinava committenti e artisti. Questi ultimi si porranno alla sua scuola e verranno definiti dal Sandrart seguaci della "Manfrediana Methodus", che dominerà quasi incontrastata per il primo trentennio del secolo (3).

Roma pullulava in quegli anni di artisti venuti con il miraggio di raggiungere la celebrità, attratti sia dall'intramontabile mito dell'antichità classica, sia dal rinnovato fervore del clero cattolico che, avendo trionfato sulla riforma luterana, si adoperava a ricostruire una nuova immagine di sè, attraverso decorazioni di chiese e palazzi. Ma un altro fattore contribuiva a fare di Roma una meta ambita. Infatti nonostante i pittori, soprattutto gli stranieri, non potessero in ogni caso permettersi una vita dignitosa, tanto che la maggior parte di essi decideva, dopo un breve soggiorno, di rimpatriare, si poteva comunque godere di un clima di grande libertà, malgrado il verificarsi di tanto in tanto di risse spesso violente, favorito da un'amministrazione che si limitava a tenere il conteggio dei cittadini, attraverso gli stati delle anime (4). Ma questo andirivieni di "franzesi e fiamminghi" cui "non si può dar regola" come affermava il Mancini, favoriva quel mercato d'arte di dipinti ad olio di piccole dimensioni, che si avvaleva degli stessi artisti, i quali fungevano da veri e propri intermediari tra l'Italia ed il loro paese d'origine (5). Ma ciò che qui preme mettere in rilievo è l'importanza assunta dal Manfredi come creatore di un modo di concepire la pittura, non solo a livello di tecnica, ma anche a livello di soggetti, che influì notevolmente anche sugli artisti italiani per un lungo periodo di tempo.

Alcuni errori attributivi compiuti in passato costituiscono degli indizi per comprendere quanto sia stato vasto il raggio di diffusione dell'arte dell'ostianese. Ad esempio il "Caino e Abele" della Galleria Palatina di Firenze era stato assegnato ad Orazio Riminaldi pisano, giunto a Roma nella seconda decade del XVII secolo.

Ma le radiografie effettuate sul quadro in occasione della mostra cremonese, hanno ribadito l'autografia manfrediana, in relazione alla tecnica pittorica riscontrata anche in altre opere del maestro lombardo (7), il quale del resto aveva già utilizzato una simile composizione nel "Castigo di Cupido" a Chicago"". Il Manfredi aveva eseguito anche un'altra versione del "Caino e Abele" conservata al Kunsthistorische Museum di Vienna, ed il Riminaldi sembra "saccheggiare" da entrambe le tele dell'ostianese per dipingere il fratricidio biblico. Nel quadro conservato al Museo Nazionale di Malta a La Valletta l'artista ripete la posizione di Caino dell'opera fiorentina del Manfredi, mentre Abele è esemplato su quello della versione viennese, con la bocca dischiusa e con il volto incorniciato da una folta capigliatura. Va tuttavia notato che la maniera con cui Caino afferra il braccio di Abele rimanda piuttosto al gesto di Marte del "Castigo di Cupido" a Chicago. Nel dipinto del Riminaldi allo Schloss Weissenstein di Pommersfelden, Abele è invece visto di spalle, e punta la mano contro il terreno, come l'Abele manfrediano della Galleria Palatina. Anche Niccolò Tornioli dimostra di conoscere i quadri del Manfredi. Giunto da Siena intorno al 1637, quando il maestro ostianese era già morto da tempo (8), nelle sue quattro versioni del "Caino e Abele", di cui una nella Galleria Spada di Roma, ripete gli stessi volti dai lineamenti marcati e dalle folte capigliature, e le medesime pose delle opere manfrediane. In rapporti diretti con il maestro ostianese fu sicuramente ""Francesco Furini, il quale infatti nella sua autobiografia, dettata all'allievo Domenico Peruzzi, dichiara di essersi recato a Roma all'età di diciannove anni, ponendosi al seguito di Bartolomeo Manfredi (9). E nonostante l'artista fiorentino evolga il suo stile in modo del tutto indipendente dall'ostianese, tuttavia a tratti ne ricorda gli insegnamenti. E' il caso del dipinto "Cefalo Aurora" nel Museo de Arte Fundacion Luis A. Ferrè a Ponce (Portorico), dove il volto del satiro sulla sinistra, è un palese richiamo di quello del Bacco del "Bacco e il bevitore" della Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini, cui si riferisce anche un anonimo del XVII secolo nella "Testa di giovane" nel Museo Puskin di Mosca.

Forse in gioventù anche Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino fu alla scuola del Manfredi. Lo dimostra il "Brindisi in Olimpo" conservato in Palazzo Pitti a Firenze (10), dove la fisionomia di Giove rimanda alla tipologia di vecchio codificata dal Manfredi nella "Negazione di San Pietro" all'Herzog Anton Ulrich Museum di Brauschweig, nella "Disputa tra i dottori" agli Uffizi e nella "Carità Romana", in collezione privata a Milano. Ma ancor più convicente è la ripresa, da parte dello Spadarino, di quel personaggio che, in secondo piano, si disseta attaccandosi direttamente al fiasco di vino, personaggio che il pittore ostianese aveva ideato come mezzo per movimentare lo sfondo dei suoi quadri, utilizzandolo per la prima volta nella "Riunione di bevitori" al County Museum di New York. Tale espediente ottenne un successo inaspettato presso i seguaci della Manfrediana, si vedano la "Riunione di bevitori" del Tournier al Musée de Tessé di Le Mans, o il "Concerto con bassorilievo antico" del Valentin al Louvre o ancora l'"Estate" del Regnier in collezione privata a Roma.

Per concludere vorrei sottolineare come anche un artista del calibro di Guercino possa essersi riferito al Manfredi per la trattazione di un soggetto alquanto insolito: "Cristo che appare alla madre dopo la Ressurrezione" nella Pinacoteca Comunale di Cento (11). Bartolomeo Manfredi aveva dipinto una pala d'altare oggi nella collezione di Mina Gregori a Firenze, ma eseguita per Vincenzo Giustiniani, in cui era rappresentato questo silenzioso incontro tra la Vergine e Cristo risorto, mai raccontato nei Vangeli (12).

Il Manfredi in realtà dovette rammentarsi di un dipinto della scuola di Tiziano che doveva aver visto in gioventù nella parrocchiale di Medole, paesino a pochi chilometri da Ostiano (13). Il Vangelo apocrifo di Nicodemo narrava della discesa al limbo della Vergine che, per indurre il figlio a manifestarsi anche in quel luogo angusto, mostrava tutti i suoi tormenti (13). Si verificò con il tempo una fusione dei due soggetti iconografici: l'apparizione di Cristo alla madre e alle anime del limbo (14). Tale associazione è visibile nella tela tizianesca, ma scompare in Manfredi, che tuttavia riprende, reinterpretandoli, alcuni elementi. Cristo avanza da sinistra, ma in Manfredi è visto di profilo, in Tiziano frontalmente, la Madonna compie in ambedue i quadri lo stesso gesto di sorpresa misto a dolore, con le braccia spalancate, le labbra dischiuse, lo sguardo rivolto al figlio. Nel quadro dell'ostianese si respira un'atmosfera più intima e più drammatica: Cristo mostra nel volto e sul corpo i segni del martirio, e sembra barcollare, quasi cercasse con la mano il sostegno di qualcosa. Il suo gesto rammenta quello compiuto da uno dei due discepoli nella" Cena in Emmaus" del Caravaggio alla National Gallery di Londra, mentre il fascio di luce che entra con lui è nuovamente una citazione dalla "Vocazione di S. Matteo". L'ambientazione è ridotta all'essenziale: una sedia, un tavolo, una tenda, e la gamma di colori tende quasi al monocromo.

Il Guercino prese a modello il quadro dell'ostianese, spogliandolo però della sua drammaticità. Cristo infatti è l'eroe con un fisico da atleta greco, che brandisce vittorioso il vessillo della Resurrezione, la madre è una giovane donna, vestita con abiti dai colori squillanti. Torna un'interno di stanza ammobialto con poche cose. Concludendo si può dunque affermare che l'influsso della Manfrediana Methodus coinvolse anche artisti italiani, nonostante la morte del suo fondatore, è il caso del Tornioli e del Guercino. Si può anche dire che in un certo senso il Manfredi contribuì al diffondersi della fortuna del Caravaggio, specie per quanto riguarda quelle scene di genere, così vicine alla realtà quotidiana dell'epoca, da fornirci uno spaccato della vita comune almeno per i primi trent'anni del Seicento.




Note.

  • 1) V. GIUSTINIANI, "Lettera sulla pittura al signor Teodoro Amodeni", in "Lettere Memorabili dell'Abate Vincenzo Giustiniani", Roma 1675, p. III, n. LXXV; G. BOTTARI - S. TICOZZI, in "Raccolta di lettere sulla pittura", Milano 1822, VI, pp. 121-129.

  • 2) R. RANDOLFI, "La vita di Bartolomeo Manfredi nei documenti romani e un'ipotesi sulla sua formazione artistica", in "Storia dell'Arte", 74, 1992, p. 88.

  • 3) J. VON SANDRART, "Teutsche Academie der Elden Bau- Bild-, und Malerei-Kunste", Norimberga 1675, II ediz 1683, p. 170.

  • 4) J. THUILLIER, ""in " I Caravaggeschi Francesi", catalogo della mostra, Roma 1974, pp. XIIi-XXVII (introduzione).

  • 5) G. MANCINI, "Considerazioni sulla pittura", 1620ca, ed. a cura di A. MARUCCHI e L. SALERNO, Roma 1956, I, p. 251.

  • 6) E. BOREA, ("Caravaggio e caravaggeschi nelle Gallerie di Firenze", catalogo della mostra, Firenze 1970, pp. 23-24), attribuiva il dipinto al Riminaldi, mentre il NICOLSON, ""("Caravaggesques in Florence", in "The Burlington Magazine", 1970, pp. 636-641), assegnava il quadro al Gentileschi e all'Elsheimer. La Gregori ("Note su Orazio Riminaldi e i suoi rapporti con l'ambiente romano", in "Paragone", 269, 1972, pp. 35-36), riprendendo un'opinione del Longhi ("Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia" in "Proporzioni", I, p. 49) restituiva l'opera al Manfredi, seguita da Nicolson, "The International Caravvaggesque Movement". "Lists of Pictures by Caravaggio and his Followers trought Europe from 1590 to 1650", p. 72). Riepiloga la storia del quadro G. MERLO, in "Dopo Caravaggio. Bartolomeo Manfredi e la Manfrediana Methodus", catalogo della mostra, (Cremona) Milano 1987, pp. 82-83.

  • 8) L'atto di morte del pittore, datato 12 dicembre 1622 è stato reso noto da E. PARLATO, "Manfredi's last year in Rome", in "The Burlington Magazine", 134, 1992, p. 442. Per quanto concerne l'arrivo del Tornioli a Roma si veda: R. RANDOLFI, "Alcune precisazioni sull'attività romana di Niccolò Tornioli", in corso di stampa.

  • 9) A. BARSANTI, "Una vita inedita del Furini", in "Paragone", 289, 1974, pp. 67-86; 291, pp. 79-99.

  • 10)

  • 11) L'ipotesi era già stata avanzata dalla scrivente in: "La vita di Bartolomeo Manfredi ... cit.," p. 90, nota 33.

  • 12) L. SALERNO, "The Picture Gallery of Vincenzo Giustiniani", in "The Burlington Magazine", 684, p. 101; IDEM, "A Painting by Manfredi from the Giustiniani Collection", in "The Burlington Magazine", 859, p. 616.

  • 13) G. MERLO, in "Dopo Caravaggio ... cit.," p. 84.

  • 14) Idem.



	
 

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