In una lettera a Teodoro Amayden Vincenzo Giustiniani, uno
dei committenti più prestigiosi di Caravaggio e seguaci,
segnalava l'affermarsi della moda dei quadri da cavalletto:
"Non solo in Roma, in Venezia ed in altre parti d'Italia, ma
anco in Fiandra ed in Francia modernamente si è messo in uso
di parare compitamente co' quadri, per il passato, massime
in Spagna, e nel tempo dell'estate, e questa nuova usanza
porge anco gran favore allo spaccio dell'opere dei pittori
..." (1).
Bartolomeo Manfredi si trovava a Roma in un momento di
grande fermento culturale. L'artista seppe sfruttare una
situazione a lui favorevole che lo condusse al successo nel
giro di pochi anni: nel 1606 infatti Cristoforo Roncalli
detto il Pomarancio, suo primo maestro, era dovuto partire
dalla città per recarsi a Loreto, e contemporaneamente
Caravaggio fu costretto a sfuggire alle persecuzioni del
Papa, in seguito all'omicidio di Ranuccio Tomassoni (2).
Il pittore ostianese dunque si sentì libero di fare la sua
scelta, e prendendo spunto dai personaggi riuniti attorno ad
un tavolo che comparivano nella "Vocazione di S. Matteo" del
Caravaggio, codificò un linguaggio semplice ed immediato in
cui prevaleva la scena di genere, resa secondo quella
tecnica del chiaro scuro, che tanto affascinava committenti
e artisti. Questi ultimi si porranno alla sua scuola e
verranno definiti dal Sandrart seguaci della "Manfrediana
Methodus", che dominerà quasi incontrastata per il primo
trentennio del secolo (3).
Roma pullulava in quegli anni di artisti venuti con il
miraggio di raggiungere la celebrità, attratti sia
dall'intramontabile mito dell'antichità classica, sia dal
rinnovato fervore del clero cattolico che, avendo trionfato
sulla riforma luterana, si adoperava a ricostruire una nuova
immagine di sè, attraverso decorazioni di chiese e palazzi.
Ma un altro fattore contribuiva a fare di Roma una meta
ambita. Infatti nonostante i pittori, soprattutto gli
stranieri, non potessero in ogni caso permettersi una vita
dignitosa, tanto che la maggior parte di essi decideva, dopo
un breve soggiorno, di rimpatriare, si poteva comunque
godere di un clima di grande libertà, malgrado il
verificarsi di tanto in tanto di risse spesso violente,
favorito da un'amministrazione che si limitava a tenere il
conteggio dei cittadini, attraverso gli stati delle anime
(4). Ma questo andirivieni di "franzesi e fiamminghi" cui
"non si può dar regola" come affermava il Mancini, favoriva
quel mercato d'arte di dipinti ad olio di piccole
dimensioni, che si avvaleva degli stessi artisti, i quali
fungevano da veri e propri intermediari tra l'Italia ed il
loro paese d'origine (5). Ma ciò che qui preme mettere in
rilievo è l'importanza assunta dal Manfredi come creatore di
un modo di concepire la pittura, non solo a livello di
tecnica, ma anche a livello di soggetti, che influì
notevolmente anche sugli artisti italiani per un lungo
periodo di tempo.
Alcuni errori attributivi compiuti in passato costituiscono
degli indizi per comprendere quanto sia stato vasto il
raggio di diffusione dell'arte dell'ostianese.
Ad esempio il "Caino e Abele" della Galleria Palatina di
Firenze era stato assegnato ad Orazio Riminaldi pisano,
giunto a Roma nella seconda decade del XVII secolo.
Ma le radiografie effettuate sul quadro in occasione della
mostra cremonese, hanno ribadito l'autografia manfrediana,
in relazione alla tecnica pittorica riscontrata anche in
altre opere del maestro lombardo (7), il quale del resto
aveva già utilizzato una simile composizione nel "Castigo di
Cupido" a Chicago"". Il Manfredi aveva eseguito anche
un'altra versione del "Caino e Abele" conservata al
Kunsthistorische Museum di Vienna, ed il Riminaldi sembra
"saccheggiare" da entrambe le tele dell'ostianese per
dipingere il fratricidio biblico. Nel quadro conservato al
Museo Nazionale di Malta a La Valletta l'artista ripete la
posizione di Caino dell'opera fiorentina del Manfredi,
mentre Abele è esemplato su quello della versione viennese,
con la bocca dischiusa e con il volto incorniciato da una
folta capigliatura. Va tuttavia notato che la maniera con
cui Caino afferra il braccio di Abele rimanda piuttosto al
gesto di Marte del "Castigo di Cupido" a Chicago. Nel dipinto
del Riminaldi allo Schloss Weissenstein di Pommersfelden,
Abele è invece visto di spalle, e punta la mano contro il
terreno, come l'Abele manfrediano della Galleria Palatina.
Anche Niccolò Tornioli dimostra di conoscere i quadri del
Manfredi. Giunto da Siena intorno al 1637, quando il maestro
ostianese era già morto da tempo (8), nelle sue quattro
versioni del "Caino e Abele", di cui una nella Galleria Spada
di Roma, ripete gli stessi volti dai lineamenti marcati e
dalle folte capigliature, e le medesime pose delle opere
manfrediane. In rapporti diretti con il maestro ostianese fu
sicuramente ""Francesco Furini, il quale infatti nella sua
autobiografia, dettata all'allievo Domenico Peruzzi,
dichiara di essersi recato a Roma all'età di diciannove
anni, ponendosi al seguito di Bartolomeo Manfredi (9). E
nonostante l'artista fiorentino evolga il suo stile in modo
del tutto indipendente dall'ostianese, tuttavia a tratti ne
ricorda gli insegnamenti. E' il caso del dipinto "Cefalo
Aurora" nel Museo de Arte Fundacion Luis A. Ferrè a Ponce
(Portorico), dove il volto del satiro sulla sinistra, è un
palese richiamo di quello del Bacco del "Bacco e il bevitore"
della Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini,
cui si riferisce anche un anonimo del XVII secolo nella
"Testa di giovane" nel Museo Puskin di Mosca.
Forse in gioventù anche Giovanni Antonio Galli detto lo
Spadarino fu alla scuola del Manfredi. Lo dimostra il
"Brindisi in Olimpo" conservato in Palazzo Pitti a Firenze
(10), dove la fisionomia di Giove rimanda alla tipologia di
vecchio codificata dal Manfredi nella "Negazione di San
Pietro" all'Herzog Anton Ulrich Museum di Brauschweig, nella
"Disputa tra i dottori" agli Uffizi e nella "Carità
Romana", in
collezione privata a Milano. Ma ancor più convicente è la
ripresa, da parte dello Spadarino, di quel personaggio che,
in secondo piano, si disseta attaccandosi direttamente al
fiasco di vino, personaggio che il pittore ostianese aveva
ideato come mezzo per movimentare lo sfondo dei suoi quadri,
utilizzandolo per la prima volta nella "Riunione di bevitori"
al County Museum di New York. Tale espediente ottenne un
successo inaspettato presso i seguaci della Manfrediana, si
vedano la "Riunione di bevitori" del Tournier al Musée de
Tessé di Le Mans, o il "Concerto con bassorilievo antico" del
Valentin al Louvre o ancora l'"Estate" del Regnier in
collezione privata a Roma.
Per concludere vorrei sottolineare come anche un artista del
calibro di Guercino possa essersi riferito al Manfredi per
la trattazione di un soggetto alquanto insolito: "Cristo che
appare alla madre dopo la Ressurrezione" nella Pinacoteca
Comunale di Cento (11).
Bartolomeo Manfredi aveva dipinto una pala d'altare oggi
nella collezione di Mina Gregori a Firenze, ma eseguita per
Vincenzo Giustiniani, in cui era rappresentato questo
silenzioso incontro tra la Vergine e Cristo risorto, mai
raccontato nei Vangeli (12).
Il Manfredi in realtà dovette rammentarsi di un dipinto
della scuola di Tiziano che doveva aver visto in gioventù
nella parrocchiale di Medole, paesino a pochi chilometri da
Ostiano (13). Il Vangelo apocrifo di Nicodemo narrava della
discesa al limbo della Vergine che, per indurre il figlio a
manifestarsi anche in quel luogo angusto, mostrava tutti i
suoi tormenti (13). Si verificò con il tempo una fusione
dei due soggetti iconografici: l'apparizione di Cristo alla
madre e alle anime del limbo (14). Tale associazione è
visibile nella tela tizianesca, ma scompare in Manfredi, che
tuttavia riprende, reinterpretandoli, alcuni elementi.
Cristo avanza da sinistra, ma in Manfredi è visto di
profilo, in Tiziano frontalmente, la Madonna compie in
ambedue i quadri lo stesso gesto di sorpresa misto a dolore,
con le braccia spalancate, le labbra dischiuse, lo sguardo
rivolto al figlio. Nel quadro dell'ostianese si respira
un'atmosfera più intima e più drammatica: Cristo mostra nel
volto e sul corpo i segni del martirio, e sembra barcollare,
quasi cercasse con la mano il sostegno di qualcosa. Il suo
gesto rammenta quello compiuto da uno dei due discepoli
nella" Cena in Emmaus" del Caravaggio alla National Gallery di
Londra, mentre il fascio di luce che entra con lui è
nuovamente una citazione dalla "Vocazione di S. Matteo".
L'ambientazione è ridotta all'essenziale: una sedia, un
tavolo, una tenda, e la gamma di colori tende quasi al
monocromo.
Il Guercino prese a modello il quadro dell'ostianese,
spogliandolo però della sua drammaticità. Cristo infatti
è
l'eroe con un fisico da atleta greco, che brandisce
vittorioso il vessillo della Resurrezione, la madre è una
giovane donna, vestita con abiti dai colori squillanti.
Torna un'interno di stanza ammobialto con poche cose.
Concludendo si può dunque affermare che l'influsso della
Manfrediana Methodus coinvolse anche artisti italiani,
nonostante la morte del suo fondatore, è il caso del
Tornioli e del Guercino. Si può anche dire che in un certo
senso il Manfredi contribuì al diffondersi della fortuna del
Caravaggio, specie per quanto riguarda quelle scene di
genere, così vicine alla realtà quotidiana dell'epoca, da
fornirci uno spaccato della vita comune almeno per i primi
trent'anni del Seicento.
Note.
-
1) V. GIUSTINIANI, "Lettera sulla pittura al signor Teodoro
Amodeni", in "Lettere Memorabili dell'Abate Vincenzo
Giustiniani", Roma 1675, p. III, n. LXXV; G. BOTTARI - S.
TICOZZI, in "Raccolta di lettere sulla pittura", Milano 1822,
VI, pp. 121-129.
-
2) R. RANDOLFI, "La vita di Bartolomeo Manfredi nei documenti
romani e un'ipotesi sulla sua formazione artistica", in
"Storia dell'Arte", 74, 1992, p. 88.
-
3) J. VON SANDRART, "Teutsche Academie der Elden Bau- Bild-,
und Malerei-Kunste", Norimberga 1675, II ediz 1683, p. 170.
-
4) J. THUILLIER, ""in " I Caravaggeschi Francesi",
catalogo della mostra, Roma 1974, pp. XIIi-XXVII (introduzione).
-
5) G. MANCINI, "Considerazioni sulla pittura", 1620ca, ed. a
cura di A. MARUCCHI e L. SALERNO, Roma 1956, I, p. 251.
-
6) E. BOREA, ("Caravaggio e caravaggeschi nelle Gallerie di
Firenze", catalogo della mostra, Firenze 1970, pp. 23-24),
attribuiva il dipinto al Riminaldi, mentre il NICOLSON,
""("Caravaggesques in Florence", in "The Burlington
Magazine", 1970, pp. 636-641), assegnava il quadro al Gentileschi e
all'Elsheimer. La Gregori ("Note su Orazio Riminaldi e i suoi
rapporti con l'ambiente romano", in "Paragone", 269, 1972,
pp. 35-36), riprendendo un'opinione del Longhi ("Ultimi studi
sul Caravaggio e la sua cerchia" in "Proporzioni", I, p. 49)
restituiva l'opera al Manfredi, seguita da Nicolson, "The
International Caravvaggesque Movement". "Lists of Pictures by
Caravaggio and his Followers trought Europe from 1590 to
1650", p. 72). Riepiloga la storia del quadro G. MERLO, in
"Dopo Caravaggio. Bartolomeo Manfredi e la Manfrediana
Methodus", catalogo della mostra, (Cremona) Milano 1987, pp.
82-83.
-
8) L'atto di morte del pittore, datato 12 dicembre 1622 è
stato reso noto da E. PARLATO, "Manfredi's last year in Rome",
in "The Burlington Magazine", 134, 1992, p. 442. Per quanto
concerne l'arrivo del Tornioli a Roma si veda: R. RANDOLFI,
"Alcune precisazioni sull'attività romana di
Niccolò
Tornioli", in corso di stampa.
-
9) A. BARSANTI, "Una vita inedita del Furini", in "Paragone",
289, 1974, pp. 67-86; 291, pp. 79-99.
-
10)
-
11) L'ipotesi era già stata avanzata dalla scrivente in: "La
vita di Bartolomeo Manfredi ... cit.," p. 90, nota 33.
-
12) L. SALERNO, "The Picture Gallery of Vincenzo Giustiniani",
in "The Burlington Magazine", 684, p. 101; IDEM, "A Painting
by Manfredi from the Giustiniani Collection", in "The
Burlington Magazine", 859, p. 616.
-
13) G. MERLO, in "Dopo Caravaggio ... cit.," p. 84.
-
14) Idem.
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