Francesca Woodman nasce a Denver, negli Stati Uniti, nel 1958, da famiglia di artisti.
Ad Alkmaar, nei Paesi Bassi, nel 1972 nasce Hellen van Meene.
Più di una generazione separa le due fotografe, abbastanza da segnare un divario tra le loro esperienze e la loro produzione artistica.
Hellen ha solo nove anni quando Francesca, da poco ventitreenne, compie l'irrevocabile gesto suicida di gettarsi dalla finestra del suo appartamento nell'East Village di New York. Cinque anni prima, ancora diciannovenne, Francesca approdava a Roma con una borsa di studio della Rhode Island School of Design. La "città eterna" le rivelerà alcuni dei simboli del Rinascimento e del Barocco che appaiono essenziali nella sua produzione immediata e successiva e la stimolerà ad approfondire la conoscenza del Futurismo e del Surrealismo. Ancora nell'inverno 1978 - primavera 1979 in alcune lettere da New York all'amica Edith Schloss, la Woodman svela una indomabile nostalgia per il periodo romano («I was homesick for Italy this winter for months and spent all my time reading in Italian» and «It's funny how while I was living in Italy the culture there didn't effect me that much and now I have all this fascination with the architecture, etc.»).
Non so se Hellen van Meene ha mai conosciuto il lavoro di Francesca Woodman, o la storia della sua vita. Per quanto straordinariamente matura nella sua sperimentalità, la fotografia di Francesca Woodman ha fatto i conti, per essere ricordata, con la sensazionalità del gesto suicida e con l'aspetto "femminile" della sua produzione. Anche la retrospettiva presentata alla Photographer's Gallery di Londra nei mesi di Agosto e Settembre rischia costantemente di essere interpretata come una successione di gesti che inesorabilmente dovevano condurre al suicidio di una delle più giovani e più dotate fotografe degli anni '70: una sorta di genio la considera Abigail Solomon-Godeau, straordinario nella storia tutta al maschile della fotografia. ("prodigies in photography are singularly rare; women prodigies virtually unheard of"
1 ).
Il fatto che la Photographer's Gallery presenti accanto a queste le opere più recenti di una giovane, vivente e riconosciuta fotografa olandese, Hellen van Meene appunto, rappresenta un quasi necessario contrappunto, a bilanciare con crudo e stridente realismo, quale nella tecnica della van Meene, quel senso di decadente genialità che disturba sin dall'inizio la osservazione della produzione di Francesca Woodman. E in una sorta di impari duello la monografica della van Meene, che ha studiato alla Gerrit Rietveld Academie di Amsterdam e ha vinto quest'anno il prestigioso Charlotte Kohler Prize, tenta di fronteggiare, pur nei limiti del periodo di produzione che copre, la necessariamente più complessa retrospettiva della Woodman, con il suo "retrospettivo" dispiegamento di tematiche, forme e loro sviluppi nel tempo.
Quello che sembra soprattutto interessante in questo duello è la possibilità di un confronto del modo con cui le due artiste hanno utilizzato lo strumento fotografico per rappresentare ed esprimere l'identità al femminile in quella particolare età che è l'adolescenza: vissuta in prima persona nell'autobiografia di Francesca Woodman, raccontata attraverso le storie di altre adolescenti-bambine nei ritratti di Hellen van Meene.
L'opera di Francesca Woodman si sviluppa attorno allo studio del rapporto primario e "denudato" tra il proprio corpo femminile di adolescente e lo spazio, e al modo in cui questo rapporto viene scarnificato e sviscerato attraverso la fotografia. L'opera di Hellen van Meene presentata in questa occasione intende invece svelare l'aspetto "travestito" e carico di referenti del corpo femminile delle sue protagoniste, bambine-adolescenti, spietatamente messo in scena attraverso lo strumento fotografico.
Il soggetto femminile autobiografico di Francesca Woodman, nudo o vestito che si rappresenti, ma sempre in bianco e nero, rifugge la centralità e definizione dei suoi tratti nella composizione, e così qualunque stereotipa interpretazione della propria identità. Nel libro di racconti sull'adolescenza di Hellen van Meene, i personaggi dei ritratti, densi di colori e collocati al centro della composizione in piena luce, sono tratteggiati con una sorta di crudo realismo senza che tuttavia la loro identità riesca per questo a farsi definita e unica.
La figura femminile della Woodman svapora e si smaterializza attraverso il movimento rapido del corpo [come nella serie "House" (1975/76) in cui Francesca gioca a nascondino con il riverbero di luce di una finestra o dietro la pericolante cornice di un camino] e si identificherà volentieri in quella transitoria presenza-assenza che sono gli angeli [un'intera serie del periodo romano è dedicata appunto agli "Angels"]. Ancora la tridimensionalità del proprio corpo nudo si maschera con abiti e polveri nella bidimensionalità corrugata delle mura invecchiate, della carta da parati, dei tessuti. La ricerca di un rapporto e della conoscenza immediata, non traslata e primaria con le cose, di cui lo strumento fotografico è necessario conduttore [già presente nell'emblematico Then at one point I did not need to translate the notes; they went directly to my hands (1976), fino ai più tardi esperimenti con i tessuti preziosi dell'ultimo periodo a New York] sarà motivo dominante del residency alla MacDowell Colony nel New Hampshire nell'estate del 1980: qui le forme naturali e quelle umane si compenetrano le une nelle altre, le braccia si identificano con i tronchi degli alberi, il motivo dell'abito si mimetizza nello scenario naturale.
Nei ritratti della van Meene, invece, si impongono gli abusi stereotipi della ritrattistica adolescenziale al femminile, montati in una sorta di sensuale e goffa mascherata a verificare lo stridore e le contraddizioni della presunta naturalità che dovrebbero rappresentare. Addirittura ci sembrano recuperate alcune delle iconografie romantiche, della pittura neo-raffaellita, di Vermeer e Brueghel ma totalmente estraniate dalla fonte per mostrarne la fatiscente e patetica autorità. La figura femminile qui, anzichè svaporare e mimetizzarsi, stride e si scolla: la sensualità dei seni semiscoperti si scontra con la mascolinità del volto, la durezza impietrita del volto con l'abito delicato a fiorellini, il corpo bambino con la posa adulta da femme fatale. In un emblematico ritratto, la disposizione dei lunghi capelli neri sui seni della bambina, le braccia sollevate, ricordano la posa delle Odalische di Ingres, se non fosse per il nitore della fotografia che ne descrive poi con diretta referenzialità la goffezza del corpo, l'asessualità del volto e la massa informe dei capelli. Allo stesso modo spesso le forme del corpo appaiono inadeguate agli abiti e gli abiti malamente contengono le forme.
Lo spazio nel quale il personaggio autobiografico di Francesca Woodman si muove, ripetuto per variazioni infinite, è ridotto nel suo aspetto consunto e cadente ad una sorta di essenzialità ancestrale. In questo spazio il corpo del soggetto si dimena indistinto a tentarne la misurazione, come nella serie Space2 (1975/78). Oppure, come nella serie From Space 2 (1975/76), ingabbiato e scomodo in una precaria bacheca parzialmente aperta, esperimenta tattilmente il gioco complesso tra la propria fisicità e quella del vetro che la serra e la mostra.
Nelle fotografie di Hellen van Meene lo sfondo è per lo più neutrale, a concentrare l'attenzione sul personaggio; altrimenti diventa un paesaggio naturale, un giardino, il greto di un fiume, e il contrasto con il personaggio viene elevato allora alla ennesima potenza cosicchè la messa in scena diventa una caricatura: chiassosa negli abiti colorati dei personaggi, nel calcato make-up, nella forzata posa.
La presenza del vetro nelle fotografie della Woodman si può accostare a quella dello specchio, simbolo per eccellenza dell'identità complessa, in cui il volto si riproduce solo come riflesso di un corpo che procede a carponi [in Self-Deceit, auto-inganno appunto (1978)] oppure è il corpo stesso ad essere contemporaneamente incastrato, nascosto e protetto tra uno specchio ed una lastra di vetro. Il titolo di questa ultima serie di foto A Woman A Mirror A Woman is a Mirror for a Man (1975/78) è emblematico così come lo scavo condotto dalla Woodman nelle simbologie che accerchiano, serrano e traducono l'essere donna.
L'artista-donna Francesca Woodman sembra aver percepito, nonostante la giovane età in cui produce, quella generazionale urgenza per le donne negli anni '70 di riscoprire la propria identità al di là della ideologia patriarcale e delle sue onnivore rappresentazioni e simbologie. Come altre artiste, più o meno assimilate al movimento femminista (Ana Mendieta, Monica Sjoo, Judy Chicago, Nancy Spero), Francesca Woodman annulla le immagini della storia sociale nel momento in cui le sue messe in scena si riducono ad uno spoglio palcoscenico, gli oggetti sono ricondotti al loro grado zero ed i rapporti verificati nella loro originale ancestralità. I simboli, scardinati dalla realtà storica che dovrebbero rappresentare, sono condotti in primo piano a sperimentare un rapporto "altro" col soggetto femminile. In una fotografia particolarmente significativa del periodo romano, Francesca si raffigura nuda e inginocchiata appena intraviste le gambe fino al busto dietro un muro; in primo piano un lilium, denso simbolo dell'amore puro virginale, ambiguamente somiglia ad un pitone col capo sollevato pronto al morso, ed il pube dell'artista scompare protetto dal movimento rapido della mano. Addirittura in questo caso i contenuti meccanici della simbologia tradizionale vengono rovesciati.
Laddove la Woodman segue un processo di denudamento e scarnificazione, la van Meene invece procede attraverso il travestimento e la contraddittoria chiassosità dell'iconologia dell' adolescenza al femminile. Se nella società postmoderna dominata dai media è ormai inconcepibile il recupero di una qualunque espressione pura e originale, il realismo al femminile di Hellen van Meene non nutre nessuna illusione: l'immagine delle adolescenti ne esce allora disangelicata e abbrutita, e perciò in grado di mostrare le contraddizioni della loro condizione e la loro difficile risoluzione.
La frequenza di tracce, di segnali, di frammenti nella fotografia di Francesca Woodman non sono altro che il farsi di un linguaggio femminile dal nulla, un linguaggio che non necessariamente comunica ma che paradossalmente intende esprimere una condizione esistenziale e raffigurarla. In Self portrait talking to vince (1975-78) una sorta di trasparente fumetto esce dalla bocca di Francesca Woodman bloccata in una posa surreale. Nell'ambiguità delle adolescenti-bambine di Hellen van Meene l'artista-donna adotta il linguaggio uso ed abuso della ritrattistica tradizionale per separare le forme dai contenuti di pura bellezza femminile, rovesciandone la classica referenzialità e mostrandoli nella loro glaciale e brutale insensatezza.
In entrambi i casi, nessuna parola che si legga, perchè la comunicazione viene visionariamente estraniata e spostata dal livello verbale ad un livello "altro", quello della fotografia appunto.
Ed è appunto qui che il ruolo della fotografia appare così necessario. Lo strumento fotografico è quello che consente alle due fotografe di esplorare al di là di qualunque falso naturalismo gli interstizi oltre la realtà precostituita e oltre le rappresentazioni tradizionali, sperimentando l'incerto ed ambiguo muoversi delle adolescenti alla ricerca del proprio spazio di donne: con sguardo spietato come dalla maniera fiamminga nella van Meene, con visionaria aspettativa come dalla tecnica surrealista nella Woodman.
Un precoce autoritratto di Francesca Woodman tredicenne la raffigura estraniata da qualunque realistico contesto, in uno spazio indecifrabile, seduta all'estremità di un lungo banco, il corpo infagottato in un pesante maglione stile norvegese e un paio di jeans; mentre il volto è distolto dalla macchina fotografica, per cui appaiono solo i capelli, la mano sinistra è intenta a tendere una corda all'apparecchio fotografico. Un anticipato commento sulla sua troppo presto interrotta produzione autobiografica: che non è un ritratto realistico del volto di un adolescente e del suo corpo in crescita, ma è piuttosto lo svelamento di una identità sfuggente e dell'artificio fotografico che ne rende possibile la complessa rappresentazione.
NOTE
1
Abigail Solomon-Godeau, Just like a woman, in Francesca Woodman: Photographic Work, catalogo per la prima mostra delle opere di Francesca di Francesca Woodman al Wellesley College Museum e Hunter College Art Gallery nel 1986, p. 14.
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