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Incontri fuori dal Tempo. "Encounters. New Art from Old" National Gallery,
Trafalgar Square, London
14 Giu. - 17 Set. 2000
Irene Amore
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 14 novembre 2000, n. 229
http://www.bta.it/txt/a0/02/bta00229.html
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Una delle prime scommesse dell'arte è quella di fare i conti con le barriere del tempo e scegliere se sfuggirle oppure affrontarle. Questa preoccupazione, che inserisce l'arte nella storia e ne fa anche un "atto politico", sembra sospendersi in una difficile impasse in epoche e luoghi geografici in cui il tempo stesso diventa un'ossessione culturale ed il futuro, dopo essere stato a lungo sognato, profetizzato, discusso, costruito, plagiato, viene infine schiacciato ed assorbito nel presente o rispedito indietro nel passato con un misto di disinteresse e timore. La mostra Enconters. New art from old si apre così con una sintomatica ambiguità di fondo che la proietta simultaneamente in due direzioni opposte.

Da un lato i 24 artisti contemporanei (da Balthus a Clemente, con una forte maggioranza proveniente dalle generazioni 1920-1930), invitati (o più precisamente commissionati) a produrre opere in risposta alla collezione della National Gallery, hanno dimostrato una straordinaria varietà di approccio nelle interpretazioni dei grandi maestri (da Duccio da Buoninsegna a Van Gogh, attraverso Bosch, Raffaello, Vermeer, Turner, Monet, tanto per citarne alcuni), rivelando non solo la capacità individuale di ripercorrere il passato in funzione di nuove prospettive ma anche il potente eclettismo che contraddistingue l'arte contemporanea.
In questa direzione la National Gallery si pone, nelle scelte curatoriali, in prima linea accanto alla più radicale Tate, nel tentativo tutto moderno di spezzare la catena del metodo storico-cronologico e proporre nuove letture dell'arte del passato segnate proprio dalla dissoluzione del tempo lineare, dall'attenzione alla stratificazione ed intersezione di tematiche e forme e dalla discussione divaricata tra arte come "simulacro" da un lato ed "esperienza" artistica dall'altro. 1

Così con "Encounters" ci addentriamo in un apparentemente semplice ma poi sottilmente intricato percorso fatto di continui richiami, corrispondenze, affinità elettive tra il passato ed il presente. Mentre le opere realizzate da Freud, Hodgkin, Kossoff e Oldenburg/Van Bruggen sono quelle che più direttamente e letteralmente si avvicinano agli originali, nella maggior parte dei casi il rapporto tra maestro antico e maestro contemporaneo è denso di motivazioni personali intrecciate ad un interesse di ricerca su specifici temi e codici di rappresentazione. L'esercizio virtuosistico di Freud nel copiare il dipinto The Young Schoolmistress di Chardin (1735), realizzandosi in 2 versioni a olio ed una incisione, pone a confronto il realismo classico dell'ultimo con quello moderno di Freud ed impone una riflessione sul motivo stesso della "rappresentazione di una rappresentazione". Lo studio analitico della composizione e dei suoi contenuti slitta lentamente dall'originale nelle copie, conducendo all'eliminazione del particolare del mobile e della penna, con uno sfumarsi e deformarsi delle espressioni dei personaggi e la perdita inesorabile dell'equilibrio stilistico dell'originale.

L'installazione di Oldenburg/Van Bruggen interpreta allegoricamente due dipinti di Vermeer, A Young Woman Standing at a Virginal e A Young Woman Seated at a Virginal (1670) e ne mette in scena una versione carica di sottile ironia in cui la figura umana scompare per lasciare il posto al linguaggio degli oggetti. Il trittico di Paula Rego è una versione moderna del Marriage A-la-Mode: Scene 1, The Marriage Settlement di Hogart (1743 circa): basato sulla storia di un matrimonio combinato in Portogallo, si conclude in una sarcastica pietà in cui il marito fallito viene tenuto in braccio da una moglie dal piglio ancora deciso e dallo sguardo fermo. David Hockney, che ha frequentato e rifrequentato la collezione da quando era studente del Royal College, recupera il genere del ritratto, esemplificato in Ingres e nel Jacques Marquet, baron de Montbreton de Norvins (1811-1814), e realizza attraverso il metodo della camera lucida (che Hockney crede essere stato adottato dallo stesso Ingres) 12 attualissimi ritratti di guardiani della National Gallery, disposti in modo tale da dare l'impressione di vigilare attenti sul visitatore; in una seconda versione post-cubista il particolare del volto, ingrandito, viene giustapposto a quello delle mani.

Il dipinto di Kitaj è un lucido commento sull'arrogante potere del denaro e sui suoi effetti stridenti e drammatici sul nostro patrimonio artistico, in particolare su La sedia (1888) di Van Gogh. Il light-box di Jeff Wall studia, infine, con succinta ironia la posa regale del cavallo Whistlejacket di Stubbs (1627-30), ed il modulo classico della rappresentazione originale viene ricondotto nel modesto recinto di una stalla, e nel modesto modello dell' Asinello di Blackpool. Questo tanto per citarne alcuni.

Allo stesso tempo, però, e riprendendo quanto accennavo prima, questo esperimento, che sembrerebbe ripercorrere il passato in funzione di nuove prospettive, si ferma al presente. Nel corso dell'incontro con i grandi del passato si consuma silenziosamente l'opportunità di riaprire il dialogo oggi scomodo sul tempo e sulla storia, pietrificato ancora una volta e museificato nel formato stesso della mostra e concentrato nelle singole opere sull'attenzione alle forme come simulacro piuttosto che come esperienza. A poco valgono le voci degli artisti inserite nelle pur ottime audioguide distribuite gratuitamente ai visitatori all'inizio del percorso: la funzione didascalica predomina, conducendo il visitatore in un labirinto perfettamente predisposto e "spiegato". Nell'articolo prodotto per il catalogo della mostra, il curatore Richard Morphet insiste assai sottilmente ma anche assai astrattamente sul carattere incompiuto ed "in progress" delle opere realizzate, le quali comunicherebbero a suo avviso il senso del tempo trascorso nella loro concezione e realizzazione:

    « Intentionally or not, the works also communicate a sense of the time taken in their conception and realisation. The latter is part of the very subject of several. The majority of the works not only direct attention to their own physicality but use their materials in an actively sensuous way. All these features, which imply a savouring of continuity and of making, are to some extent under threat today in a culture that lays emphasis on speed and simplicity in the consumption of information, and limits the opportunity to concentrate, or to explore anything in depth. These developments are combined with an information overload compounded by the speed and technological sophistication of its transmission. The pressure on artists to produce is a related problem. Not surprisingly, therefore (as Robert Rosenblum's essay shows), much new art quotes and combines available images from both the recent and the farther past with promiscuous abandon, in the process creating effective markers of contemporary existence. The works in this exhibition connect with their heritage in a slower way … A large number of the works in Encounters suggest an analogy with the stage, and in making them several of the artists worked like directors, manipulating cast, lighting or performance. The final form of many works either resempbles a stage or is a box-like interior in which something is either happening or latent. » 2

Tuttavia, il carattere aperto e "tutto moderno" di molte opere (le riproduzioni all'infinito di Kossoff, l'estenuante video-loop di Bill Viola, le prospettive enigmatiche della Saenredan Wing rivisitata da Hamilton) ha poi un'impronta ed un valore implosivi che riducono il senso di esperienza dell'opera al puro gioco di forme fuori dal tempo. L'obiettivo finale della mostra rimane quello di ribadire la tradizionale funzione della galleria nazionale d'arte come potente garante di modelli, canoni e valori che, per quanto socialmente ambigui ed ormai inattendibili, gli artisti, preclusi nella loro casta, sarebbero poi chiamati a tramandare 3. Così anche le opere più problematiche, come il dramma di Kitaj, la satira di Paula Rego e l'ironia di Jeff Wall, laddove tentano di porre una critica e capovolgere quel sistema di valori e canoni, vengono riafferrate dalla stessa potente inerzia delle mura bianche della Sainsbury Wing, e reintegrate nel sistema ancora chiuso della "galleria", che mentre vorrebbe avere un più ampio significato sociale, sfugge poi al "problema storico" e vizia i suoi artisti prediletti, facendone appunto una comunità separata.

Così, l'assenza preoccupante di un futuro e con essa la cancellazione del senso storico del tempo viene infine trionfalmente dichiarata da un altro dei commentatori della mostra, Robert Rosenblum:

    « As the twentieth century becomes the past, not the present, and as museums and historical exhibitions proliferate with seemingly endless vitality, our own angle of vision has become more retrospective, making it apparent that all the revolutions of modern art faced backwards as well as forwards ... It now seems predictable that, as the twentieth century drew to a close and its inherited myths of progress turned into naïve anachronisms, artists became, like everyone else, more retrospective, contemplating the known and more comforting terrain of history rather than the scarier prospects of the future. » 4

Dunque un'ambiguità di fondo: da un lato l'ambizione di realizzare un'idea nuova ed originale che ponga la National Gallery in primo piano nel panorama artistico nazionale ed internazionale (stupisce che un'idea così semplice da sembrare banale non sia mai stata tentata prima), dall'altro il timore di rompere radicalmente e costruttivamente con la tradizione che la galleria come istituzione rappresenta, e tracciare nuove politiche curatoriali e nuove direzioni attive per l'arte. Un'ambiguità che, senza disturbare l'interesse del pubblico, piuttosto stuzzicandolo con la vertigine della "novità", serpeggia tra le sale della National Gallery ed appaga di irrisolto stupore il visitatore curioso.
Purchè lo stupore non ci inghiotta, trasformandosi in torpore.



NOTE

1 A questo proposito spiegava bene Nicolas Serota, direttore della Tate, in Experience or Interpretation: The Dilemma of Museums of Modern Art, Thames & Hudson, 1996: « ... experience can become a formula. The best museum of the future will … seek to promote different modes and levels of "interpretation" by subtle juxtapositions of "experience". Some rooms and works will be fixed, the pole start around which others will turn. In this way we can expect to create a matrix of changing relationships to be explored by visitors according to their particular interests and sensibilities ... We have come a long way from Eastlake's (ndr: primo direttore della National Gallery nel 1855, introdusse il metodo di ordine cronologico di scuole e movimenti all'interno dei musei) chronological hang by school, but the educational and aesthetic purpose is no less significant ... Our aim must be to generate a condition in which visitors can experience a senso of discovery in looking at particular paintings, sculptures or installations in a particular room at a particular moment, rather than find themselves standing on the conveyor belt of history. »

2 Catalogo della mostra, pp. 25-26.

3 Nail MacGregor, catalogo della mostra: « When the National Gallery opened its doors in 1824, it aimed to offer the pleasure of pictures to the public at large, rich and poor, believing that this shared delight would inevitably foster social harmony. But the founder had from the beginning one particular public in mind: artists. »

4 Catalogo della mostra, p. 16.




 
 

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