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Pittura Rupestre a Castel Sant'Elia nell'Eremo di San Leonardo nei Secoli VI - VII  
Cecilia Maria Paolucci
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 19 Aprile 2003, n. 319
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Area Didattica

MONACHESIMO PREBENEDETTINO

Dal III secolo d.c. si manifestano in Italia le prime forme di organizzazione monastica. Le prime comunità si formano a Roma e vengono favorite dalla chiesa mentre scarsa approvazione è data dal popolo.

Nei secoli successivi, a partire dal VI, la cultura cristiana occidentale si arricchisce di nuovi testi che giovano alla diffusione del monachesimo. Tra questi lo scritto che maggiormente si diffonde è la versione latina dei Precetti di Pacomio, tradotta da Girolamo, in cui si concentrano le istituzioni della vita cenobitica del deserto egiziano.
Negli stessi anni Rufino traduce la Legislazione di Basilea mentre Agostino compone il Praeceptum  e si diffonde l'Ordo Monasterii, istoriato da Agostino stesso. Ancora negli anni 420 - 430 Giovanni Da Cassiano scrive il De Institutis Coenobiorum e le Consolationes, dedicati alla vita degli anacoreti palestinesi ed egiziani.

Negli stessi anni intanto vengono fondati i primi Monasteri: il primo in assoluto è edificato da Papa Sisto III (432 . 440), presso la Basilica di S. Sebastiano sull'Appia. Nel V secolo, accanto alle basiliche, avviene la fondazione di altri monasteri dove i monaci assicurano il servizio liturgico.
Nel Concilio di Calcedonia (451) si stabilisce che tutti i monaci e i monasteri dipendano da un vescovo senza distinzione tra città e campagna.
In alcuni casi è il vescovo stesso che propone ai chierici il monachesimo, come avviene con S. Eusebio, vescovo di Vercelli.
Anche S. Ambrogio a Milano istituisce un centro di vita cenobitica. Paolino di Nola, imiterà il vescovo milanese nella città campana.
È questo dunque un tipo di monachesimo "cittadino", posto sotto l'influenza diretta dell'azione dei vescovi.

Si crea quindi, in Italia, un forte vincolo tra Episcopato e Istituzione Monastica che tiene lontane le forme canonizzate del monachesimo da quelle esperienze più eterodosse dei monaci di altre regioni e favorisce lo sviluppo dei centri almeno fino al VI secolo, anni in cui inizia l'invasione Longobarda. Fuori Roma e nelle altre parti della penisola invece si diffonde una forma di monachesimo con tendenze eremitiche detta anche insulare, in quanto risente dell'influenza dell'isola di Lerino, nella Gallia meridionale, dove S. Onorato aveva istituito alla fine del IV secolo un centro di vita anacoretica modellata sugli esempi egiziani e caratterizzata da una forte austerità.

Le caratteristiche preminenti di queste prime comunità eremitiche sono la tendenza all'isolamento, la separazione dalla società e la vita appunto eremitica.
Esse si ritrovano precisamente negli Eremi di Spoleto fondati da monaci provenienti dalla Siria; negli eremi di Eutizio situati nella Val Castorina presso Norcia e nelle fondazioni che facevano capo ad Equizio, con centro Amiterno presso L'Aquila, sparse per tutte le montagne abbruzzesi.
Questo tipo di comunità monastica era legato alle tradizioni locali e sostenuto dai modelli e dai testi già ricordati.



MONACHESIMO BENEDETTINO

Nella prima metà del VI secolo (480 - 547) si erge la figura di San Benedetto. Dopo tre anni di vita eremitica, presso il monastero di Vicovaro, viene invitato dai monaci a riformare la vita della loro comunità. Il tentativo fallisce e inizia l'organizzazione delle prime comunità nella solitudine sublacense. Lascia in seguito Subiaco e si reca presso Cassino nel 529. Qui, sull'acropoli che sovrastava la colonia romana di Casinum, costruisce una cappella dedicata a S. Giovanni Battista dove sorgeva l'Ara di Apollo mentre trasforma il tempio di Giove in Oratorio per i monaci, dedicandolo a S. Martino di Tours. Nel 546, il re dei Goti Totila visita il monastero.



CONQUISTA LONGOBARDA

Nel 568 si abbatte anche sul monachesimo italico, fiorente in varie regioni, la violenza longobarda. I monasteri non ampi e non ben difesi vengono facilmente travolti. In tutto il periodo del loro insediamento i conquistatori mantengono un atteggiamento ostile verso il monachesimo. Nel 577  il Duca di Benevento, Zotone, conduce i suoi soldati alla distruzione del monastero di Montecassino.
Questo sconvolgimento porta ad un immediato influsso extra italico dell'elemento monastico che, nel secolo VIII, coadiuvato anche da una traditio regionale scampata alla violenza longobarda, ricrea una grande ripresa del monastica.
Forte fu l'esodo dei monaci verso i territori rimasti sotto il dominio bizantino, tanto che elementi della precedente Traditio vengono salvati come avviene anche per il monastero di Montecassino. I monaci si rifugiano a Roma e portano con loro il Testo della Regola che verrà interpretata da Gregorio Magno.

Nel periodo della conquista Longobarda quindi, le sorti del monachesimo italico sono legate alla conversione dei conquistatori e al loro atteggiamento verso le istituzioni ecclesiastiche; e se da un lato vengono cancellate le precedenti Traditiones monastiche prebenedettine si creano le premesse per un'agevole diffusione della Regola di san Benedetto.



GREGORIO MAGNO

Il primo anello di congiunzione tra la distruzione dei monasteri femminili e maschili nel VI secolo e la fioritura dei cenobi nel secolo VIII è indiscutibilmente l'opera di papa Gregorio Magno. Egli ha contatti con il mondo monastico orientale dal 579 al 586, quando è Legato pontificio a Costantinopoli.
Tornato a Roma nel 588 si ritira nel monastero fatto edificare da lui stesso, dedicato a S. Andrea. Nel 590 deve accettare l'elezione a Papa. Si circonda di monaci e si dedica con vigore al mondo monastico. Scrive i quattro Libri dei Dialoghi con la Vita di San Benedetto e di altri Santi. Invia una copia di questo testo a Teodolinda, regina dei Longobardi. Con l'aiuto dei monaci, si auspica, senza forzarla, la conversione totale al cattolicesimo dei conquistatori che già avevano aderito all'arianesimo. Affida ai monaci missioni delicate presso la corte longobarda di Pavia e tramite l'invio di Agostino ottiene la conversione degli Angli. Propaga la vita monastica in Corsica e si occupa della riforma dei monasteri.

Inoltre sotto il governo dei Longobardi in Italia avviene un'ultima migrazione monastica, condotta da San Colombano che dalla nativa Irlanda dopo aver peregrinato in Gallia (Luxeuil), si stabilisce in una zona boscosa dell'Appennino, lungo la valle del Trebbia, dove nel 612 fonda il Monastero di Bobbio con il consenso del re Agilulfo. Questo monastero diverrà importantissimo nel VII secolo per la fiorente attività economica favorita, fin dalla fondazione del cenobio, dalla protezione regia. Alla fine del VII secolo i Longobardi aderiscono pienamente alla fede cattolica.



SVILUPPO DEL MONACHESIMO SOTTO IL REGNO LONGOBARDO

La data della riconciliazione tra il re Cunimberto e la Chiesa di Roma è il 698, anno della convocazione del Sinodo Pavese. Da questi anni in poi avviene la fondazione di numerosi monasteri femminili e maschili promossa dai Longobardi stessi.
Al loro sorgere i cenobi sono abitati da pochi monaci che adottano la Regola di San Benedetto e ridimensionano la tendenza eremitica del monachesimo anteriore. I fondatori longobardi si riservano inoltre la protezione sui beni assegnati al nuovo monastero che come organizzazione ecclesiastica viene invece sottoposta all'autorità del vescovo.
Nella seconda età longobarda, dal VII secolo, le fondazioni coprono tutta l'Italia: Friuli, ducati di Spoleto e Benevento, Italia padana e Tuscia. Tra questi però non si indentifica un centro propulsore e unificatore, ma nella dinastia longobarda e nei signori del regno si coglie un programma unitario che consente ai monasteri di mantenere tra loro un'autonomia che non esclude rapporti tra i vari cenobi.

Negli anni 712 - 744 ad opera del re Liutprando si promuovono altre nuove fondazioni e il ripristino dei vecchi centri monastici quali Montecassino, Farfa e San Vincenzo al Volturno, tutti posti tra la Sabina, la Campania e il Ducato di Benevento. Nel X secolo le città sono arricchite di cenobi e nel secolo XI nasce il fenomeno dell'eremitismo.



L'ITALIA ARTISTICA TRA BIZANTINI E LONGOBARDI

Nei secoli VI - VII durante le lotte tra Goti e Bizantini avviene la conquista Longobarda. Negli anni 540 - 560 Ravenna, capitale dell'Esarcato bizantino, è il centro culturalmente più avanzato della penisola e riflesso della capitale orientale nel suo massimo splendore. Anche dopo la conquista Longobarda, Ravenna rimase per oltre due secoli lo specchio della civiltà di Bisanzio e influssi bizantini si riscontrano nella pittura e nell'architettura di Roma e della Lombardia.

Il critico Von Schlosser  formula una suddivisione tra Nord - barbarico celtico - germanico e slavo attraversato da un'asse che lo separava dal sud classico.
Inoltre identifica un'asse nord - sud che separa, nella zona classica, l'occidente latino dall'oriente greco.
L'Italia in questa suddivisione occupa la sezione sud - ovest e ha come ruolo originale la cultura LATINA e ROMANA.
I conquistatori, Goti e Longobardi trovano quindi sul suolo italico una Traditio culturale dalla quale non seppero e non vollero prescindere. La loro cultura quindi si amalgama spesso alle culture locali precedenti o a quelle di derivazione orientale e dà luogo alla creazione di nuovi linguaggi e a nuove tecniche decorative. La maestria barbarica si riscontra, in modo evidente, nella lavorazione del legno e dei metalli rinvigorita dalla facilità di assimilazione delle tecniche in gran parte comuni all'oriente antico e alla civiltà tardo romana. La tendenza, ad esempio, agli intrecci zoomorfi senza il naturalismo dei prodotti romano - provinciali poteva essere un punto in comune di partenza per la realizzazione di opere grandiose ( il futuro stile Romanico).

Anche nel campo architettonico, i conquistatori operano un'azione di spoglio di monumenti romani e un conseguente reimpiego dei materiali. Così avviene anche per le gemme e per il riadattamento all'uso ecclesiastico dei Dittici Consolari con l'aggiunta di miniature. Non è quindi storicamente corretto distinguere produzioni, tecniche e stili, repertori ornamentali barbarici da quelli della traditio locale in cui si innestano. In questo contesto è importante considerare infatti il caso dei Goti, popolazione che giunge in Italia già ellenizzata e che ha indubbi legami con le tradizioni orientali che ripropongono in Italia forme latine. Nel Vangelo in latino del Codex Brixianus e nel Codex Argenteus di Upssala, si riconosce ad esempio una tipologia comune, che risale a una produzione ravennate del periodo del dominio goto:  il fondo color porpora delle pagine rimanda ad un'influenza siro - palestinese.  



L'ITALIA LONGOBARDA

In questo periodo quindi avviene la fusione di culture diverse e la conseguente formazione di nuovi stili.
Il bagaglio ornamentale viene portato dal nord Europa dove si era già combinato con la cultura scandinava: il primo stile viene denominato zoomorfo, per la giustapposizione di elementi che richiamano figure animali; nell'epoca longobarda segue un secondo stile, dove il dettaglio animalistico è assorbito dall'intreccio vegetale, con lo sviluppo a nastro.
La produzione di lastre scolpite e decorate con elementi zoomorfi vegetali e geometrici del periodo longobardo ha riscontri con i temi del mediterraneo e dell'oriente ma non con elementi barbarici.



TRADIZIONE PITTORICA DEL PERIODO LONGOBARDO

Alla  pittura viene riconosciuto un ruolo chiave nella diffusione della cultura cristiana in un periodo caratterizzato ancora dall'evangelizzazione. Alla fine del VI secolo, Gregorio magno ricorda in una lettera al vescovo Sereno di Marsiglia che la pittura sostituisce efficacemente la lettura dei testi sacri per coloro che non conoscono le lettere, la futura Biblia Pauperum.

Negli stessi anni Isidoro di Siviglia riconosce alle immagini dipinte, anche se nella loro finzione, il merito di stimolare la memoria dell'immagine reale.
In Italia le manifestazioni pittoriche non sono certamente unitarie: la frantumazione dell'organizzazione politica e religiosa determina, in alcuni casi, corrispondenze stilistiche o tipologiche fra zone geograficamente lontane, come fenomeni isolati inspiegabili all'apparenza.



LA CULTURA GRECO - BIZANTINA

Talvolta si interrompono i rapporti con la continuità delle traditiones locali, per assimilare dei modi di importazione che comunque mutano modi e significati. Preminente in queste circostanze il caso di Roma; tra il 606 e il 752 si succedono 10 papi di origine greca e siriaca.

Importante il quartiere greco tra Trastevere e l'Aventino (denominato nel secolo VIII Ripa Greca). Ancora presso la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, si trovava la Schola Graeca. Sempre a Roma sorsero monasteri, Saba e S. Maria in Campo Marzio, per permettere alle colonie orientali sfuggite all'iconoclastia combattuta dai pontefici romani, di seguire il rito in lingua greca. All'interno di questi monasteri bizantini si creano biblioteche e centri scrittori che influenzano profondamente l'entità pittorica.
Accanto a queste manifestazioni colte, influenzate da Costantinopoli, emerge a Roma anche una tendenza popolare legata in parte allo stile delle provincie orientali che trova adesione negli strati meno intellettuali della popolazione per il suo carattere fortemente espressivo. I secoli VII e VIII sono identificati con il periodo greco della cultura romana. Ma già in epoca precedente abbiamo esempi di cultura orientalizzante in affreschi romani e precisamente in quelli di Santa Maria Antiqua (V - VI sec.): - V e VI secolo: modello orientalizzante direttamente derivato dall'esperienza ellenistica (610 - 641) aulico. - IIº fase : stile più aspro, traduzione provinciale dei modi bizantini.




LA PITTURA PARIETALE NEGLI ANTICHI EREMI E CENOBI

Gli antichi cenobi erano pieni di immagini dipinti sulle pareti o sul legno. Nella Casa di Gregorio Magno, convertita dal papa stesso in monastero, vi era dipinta la ROTA GYPSEA, con il ritratto del fondatore e dei suoi genitori. Nel monastero siriaco di San Saba, a Roma, vi era la rappresentazione di monaci nell'edificio monastico più che nella chiesa.

Le comunità monastiche quindi traducono in pittura la loro volontà di raffigurare la loro comunità, il loro lavoro e la loro storia. Si tratta di raffigurazioni generiche o specifiche della comunità in questione.
È evidente l'importanza nel monastero di cultura orientale delle raffigurazioni nel periodo della lotta all'iconoclastia,  iniziata da Leone l' Isaurico nei territori orientali, che costringe molte comunità a trasferirsi verso Roma e nelle terre longobarde.




I MONASTERI E I CENOBI

Nei monasteri e nei cenobi si nota una grande mobilità di artisti, soprattutto nei monasteri del nord, che si spostano dalle Alpi nella dorsale appenninica e che influenzano perfino i monasteri campani - affreschi dei monasteri del nord sono rapportati a quelli di S. Sofia a Benevento, fondazione regia del dominio longobardo - .
La circolazione degli artisti dunque diviene e resta una caratteristica preminente della pittura monastica italiana fino al X secolo e che pone il problema delle origini culturali dei frescanti. I problemi per l'identificazione dei pictores monastici è vivo anche dato il fatto che le sottoscrizioni sono rare. Più rara ancora la dicitura MONACHI PICTORES.
Nel secolo XI avremo a Roma pittori che si dichiarano PRESBITERY. La cultura pittorica di questi artisti è comunque molto antica.

Nelle Grotte pugliesi, Gargano, si ritrovano affreschi parietali: queste pitture però non sono legate necessariamente alla vita eremitica o cenobitica né sono per forza opera di pittori monaci. Alcune di queste grotte sono identificate con le Lavre basileiane ovvero organizzazioni monastiche  del Primo Medioevo. Esse consistevano in un gruppo di celle scavate nella roccia che avevano spesso le pareti decorate da pregevoli affreschi, ognuna separata dalle altre ma con una chiesa e un sacerdote in comune.

Con il tempo queste organizzazioni si trasformano in cenobi. La parola diviene poi sinonimo di Monastero e si restringe fino ad indicare i monasteri più famosi: Lavra del Sinai in Palestina e la lavra sul monte Athos.
Un eminente storico dell'arte, Emile Bertaux, identificherà con la formula " arte benedettina" quel tipo di cultura artistica che si sviluppa intorno al monastero di Montecassino sotto la supervisone dell'Abate Desiderio che unifica la pittura Italiana e la rapporta al movimento cluniacense. Studi successivi hanno poi individuato in questa cultura artistica il forte peso delle realtà regionali e delle diverse Traditiones locali che forgiano diversamente le varie realtà italiche.




GLI AFFRESCHI PARIETALI NELLA GROTTA DI SAN LEONARDO A CASTEL SANT'ELIA

Nell'ambito della cultura monastica, o meglio eremitica alto medievale, si pone la GROTTA DI SAN LEONARDO, scavata nella rupe tufacea che delimita la cosiddetta Valle Suppentonia, attualmente nel territorio di Castel Sant'Elia.
Questa grotta non è composta da un unico ambiente ma consta di più ambienti intercomunicanti.
Probabilmente, la sua origine è funeraria. Deriva da una serie di tombe falische riutilizzate all'uopo dagli monaci - eremiti.

Attraverso un'ampia apertura si entra in  un vano rettangolare, l'ambiente principale in ci venivano svolte le celebrazioni ecclesiastiche. A destra dell'apertura, nella parete Nord, è presente un catino absidale che risulta essere di fattura postuma; un arcosolio è scavato nel lato sinistro del catino absidale e presenta un piccolo altare collegato alle reliquie sottostanti da un foro. Questo altare fu descritto dal Grisar nel 1892 che lo confrontò con quello della Chiesa dei SS. Apostoli di Roma datato VI secolo.

Di fronte al catino absidale, nel lato sud della stanza,  un'apertura immette tramite un gradino in una seconda camera semicircolare. Nell'ambiente principale sono presenti gli affreschi che, ad un'ultima analisi, risultano essere gravemente deteriorati.
Padre Roberto Serra nel 1889 aveva descritto questi affreschi che già all'epoca risultavano molto deteriorati. Egli identificava cinque figure di apostoli o profeti, una figura della Madonna e la rappresentazione di Gesù nell'atto di benedire. Nel frontale destro della tribuna identificava Giovanni Evangelista che tiene in mano un rotolo spiegato in cui si leggeva : «In principio erat Verbum, et verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum». Nel frontale di sinistra, la pittura svanita quasi del tutto tranne un brano del rotolo con la lettera E, forse «Ecce Agnus Dei» caratteristica del Battista e quindi forse la raffigurazione del Battista. Al centro l'Agnello con l'aureola a due raggi.

Nel piccolo catino absidale erano allineate orizzontalmente tre figure: il salvatore in mezzo, a sinistra una figura irriconoscibile, forse S. Pietro, e a destra una figura di Maria. Altre pitture appena avvertibili nella parete destra dell'entrata del vano. Tra queste una figura di monaco che ha «nella mano destra una spada e nella sinistra un libro», forse identificabile con S. Leonardo di Nobiliacum, come sosteneva il Lezzani nel 1902.

Dalla ricognizione da me effettuata attraverso un sentiero, ormai inesistente, che dalla Piazza del Comune porta alla Grotta costeggiando la rupe, gli elementi architettonici evidenziati poco sopra risultano immutati.
Nel vano principale, quello in cui sono presenti le pitture, esattamente al centro della stanza la parete rupestre identificata con il tetto, presenta una grande crepa circolare che rende più bassa la stanza.
Inoltre, l'incuria e gli agenti atmosferici e naturali, hanno disastrato ulteriormente le pitture per cui ancor più sommaria è la loro descrizione.

Il catino absidale, doveva essere tutto decorato e dai frammenti di affresco che si possono oggi scorgere, risulta una pittura viva per i colori e per il movimento. Le figure probabilmente erano state dipinte con una forgia quasi scultorea, come si evince dal frammento di un'ala dell'angelo posto a sinistra del catino absidale. Il movimento e la precisione con cui è dipinta quest'ala mi porta alla mente le grandi sculture romane e ancor di più greche e d'altro canto, il colore vivace ricorda le forti tonalità dei mosaici che decorano le varie basiliche romane e bizantine di questo periodo. Il colore e la fermezza del tratto volevano certamente dare profondità e movimento a queste pitture.

La mano che ha concepito, almeno di fatto, questa pittura mostra una conoscenza decisa e attenta delle correnti artistiche del periodo e non immune dalle derivazioni della pittura antica classica. Probabilmente  è la mano di un Pictor importante o di un Monaco Pictor, proveniente dal fervente ambiente romano.
Il cartiglio, descritto in precedenza, è ormai quasi illeggibile e in questo contesto si sono rilevati molti strappi nella pittura, dovuti sicuramente a mano non esperta. Le pitture che si rilevano nello stipite e nei pilastri dell'apertura che immette nel secondo vano mostrano invece un altro tipo di fattura e di cultura.

A mio giudizio, infatti le figure qui rappresentate mostrano una fattura  che riporta ai mosaici bizantini e alla ieraticità statica di quel tipo di cultura. Le figure non hanno la stessa morbidezza che si riscontra nell'ala dell'angelo absidale, ma si avvicina molto alla fattura delle figure bizantine che si riscontrano nei mosaici di Ravenna e di Roma. Inoltre queste pitture sono incorniciate dal motivo della greca, elemento decorativo proprio dei mosaici parietali e pavimentali bizantini nonché della cultura greca antica (ceramiche geometriche del VI sec. A.C.) e di una cultura decorativa ancora più lontana, quella dell'ambiente siriano. Ricordiamo a questo proposito  che  la cultura bizantina e comunque orientale rimane viva in Italia per oltre due secoli anche dopo l'invasione longobarda ed inoltre che in questi secoli numerose comunità monastiche orientali si trasferiscono in Italia e nei territori longobardi per sfuggire alle lotte iconoclastiche.

Presumibilmente è un'altra la mano che dipinge questo lato del vano centrale e forse o certamente, una mano più antica o di poco anteriore a quella che dipinge nell'abside, che d'altronde come ricordato, risulta essere una costruzione postuma rispetto alla grotta preesistente. Diversa rispetto alle due precedenti è la mano che dipinge il monaco nella parete destra dell'entrata principale, che è in questo caso molto approssimativa.
In questa pittura, che oggi risulta essere lievissima anche nel colore, i tratti sono meno sicuri e più approssimativi delle precedenti.

Dovrebbero convergere in questi pochi e ormai malridotti affreschi varie culture artistiche: sicuramente quella di matrice orientale greca  antica e bizantina e la seguente tradizione romana che in questo caso si annuncia attraverso la mano di pittori certamente locali e di scarsa fattura tranne quello che dipinge nel catino absidale che deve avere sicuramente una parte non minore nella storia della pittura di Roma e dintorni.

Sappiamo che questa Grotta fu probabilmente il primo insediamento monastico della Valle Suppentonia, di cui dà notizia lo stesso Gregorio Magno nei Dialogi. Secondo la leggenda, che non ha ancora oggi un riscontro storico, nell'ambiente principale, quello destinato alle celebrazioni liturgiche, papa Gregorio Magno incontrò la regina Teodolinda nell'intento di scongiurare la invasione di Roma da parte dei Longobardi, invasione che in effetti non avvenne.

Quindi già nel VI secolo, basandoci sulla datazione dell'altare, la grotta serviva per celebrazioni liturgiche. Negli ambienti contigui i monaci erano probabilmente soliti ripararsi. Non è quindi inopportuno, a mio giudizio, ritenere che le pitture di stile orientalizzante descritti sopra precedano di qualche anno quelle sicuramente databili nel VI secolo del catino absidale.






 
 

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