« Pittore matto, pittore pazzo, pittore folle, pittore ingenuo, pittore contadino, pittore naif, pittore primitivo, lo strano pittore, il genio innocuo ... » ecco alcuni appellativi, tanto per citarne alcuni, dati da autorevoli persone come Bartolini, Azzali, Mazzacurati e da tanti altri; ma, fra tutti, preferisco quello di Saviane, che lo definisce il fratello delle volpi.
Ma non solo fratello, compagno, amico, conoscitore di tutti gli animali.
« Io gli animali li conosco dentro », ebbe a dire lui stesso in un'occasione.
È proprio questo che appare, che colpisce ed impressiona quando si gira per le sale di Palazzo Magnani, a Reggio Emilia: una moltitudine di animali ritratti in primo piano, soprattutto alcuni, i più feroci: tigre, iena, leopardo, gorilla, leone, dove le fauci sono in primo piano.
Una bocca aperta, spalancata, rosso vivo, come nella Testa di tigre del 1955-56, dove lingua, palato, artigli sono disegnati alla perfezione, ma è una bocca sanguinante di parole, grugniti ed urla, che fa paura ma che lascia all'osservatore un atroce dubbio; come se quel grido-urlo volesse dire altro, un grido di aiuto: sbrano per non essere sbranato; attacco per non essere attaccato; mi metto in questa posizione per non soccombere per primo.
Colori caldi, pieni di luce, che ti catturano, ti immobilizzano davanti al quadro; colori che hanno spessore nel duplice significato della parola: consistenti, brillanti, intensi, che vanno dal giallo al rosso,verde, viola, azzurro in tutte le loro tonalità e variazioni. Nei quadri raffiguranti la semina, i fiori, l'aratura, il pascolo, la fienagione, invece, l'uso del colore rimanda ad un'antica quiete, ad un'antica dolcezza, quasi un misto di nostalgia del passato: ne è un esempio Aratura con cavalli del 1944-45; mentre ridiventa carico, scuro, feroce dove la natura viene vista aggressiva e violenta, come nella Traversata della Siberia del 1955-56.
È la parte animale, istintuale di Ligabue che parla attraverso di loro, forse perché - in vita - si è detto che era un uomo di poche parole, e quelle che diceva erano bestemmie e parolacce (per questo fu espulso varie volte dalla scuola e mandato nelle classi per « ragazzi deficienti »); aveva anche un aspetto non gradevole, era affetto da una forma di rachitismo o da carenze vitaminiche: il suo volto era grande, aveva orecchie sproporzionate, un gozzo ipertrofico messo sempre in evidenza in tutti i suoi autoritratti (in mostra ce ne sono 11 su tela, 6 a matita e una incisione; ricordiamo Autoritratto con spaventapasseri del 1955-56), ma in contrasto ci sono due grandi occhi scuri che parlano da soli. Si interrogano, chiedono e pongono domande al fruitore dell'opera, è una richiesta, un modo di porsi verso l'altro: quello che in vita lo rifugge, lo scansa e che quando lo vedeva sopraggiungere da lontano diceva: « arriva il matto » e fuggiva; ma qui, nella tela, è lui che costringe a fermarci, a guardarlo e lui si pone per quello è, mostra tutto di sé: le sue rughe, la sua barba ispida, i segni rossi sul volto, pustole o graffi che altro non sono che atti di autolesionismo, tipici di alcuni autistici. È l'uomo senza affetti, solo nella campagna, o accanto alle sue amate motociclette rosse, o in un interno, quadro dentro quadro: le comunicazioni con l'esterno sono interrotte, non esistono.
Non conobbe, in tutta la sua vita, affetto ed amore neppure dalle sue due madri: una naturale e l'altra adottiva. La madre naturale, italiana, si trasferisce in Svizzera, o fugge o viene mandata via perché incinta (non si sa bene se Antonio sia stato frutto di un amore incestuoso, forse di uno zio); fatto sta che dopo due anni dalla sua nascita (Lugano, 18 dicembre 1899) la madre sposa un emigrante italiano, certo Bonfiglio Laccabue di Gualtieri (Reggio Emilia), che gli dà il nome ed anche tre fratellastri e una sorellastra, che morirono insieme alla madre per intossicazione alimentare. Lui fu risparmiato perché nel frattempo era stato affidato, all'età di nove anni, ad una coppia anziana svizzero-tedesca (famiglia Gobel), che non aveva figli ma neppure agiatezza economica e che non lo riconobbe mai; anzi, alla fine, dopo alcuni ricoveri in clinica psichiatrica, fu denunciato proprio da colei che avrebbe dovuto amarlo e fu espulso nel 1919 dalla Confederazione Elvetica.
Si ritrovò catapultato a Gualtieri, dove né la lingua, né il luogo, con i suoi usi e costumi, gli erano famigliari. Qui visse vagabondando lungo il Po, provò a tornare in Svizzera, e non ci riuscì mai perché fu sempre ricondotto indietro. Un esempio della sua nostalgia, della non dimenticata terra di origine sono i quadri: Paesaggio con animali del 1955-56, Ritorno dal lavoro del 1955-56, Caseificio del 1960-61, con le tipiche case e i tetti a punta.
Alcuni dicono che sapere della vita di un artista, dei suoi trascorsi, non sia molto importante e fondamentale, che bisogna prendere le distanze da essa, guardare la sua produzione senza lasciarsi minimamente influenzare. Personalmente, non sono molto d'accordo perché sei quello che sei anche grazie soprattutto alla « tua storia », agli incontri, all'ambiente, al momento storico; non si può mai prescindere da tutto ciò.
Quindi, continuando con la storia di Ligabue, arriva in questo piccolissimo paese, dove ora, nel bel Palazzo Bentivoglio, sono esposte quelle che, secondo me, sono le opere meno conosciute ma forse le più belle, perché ci fanno scoprire un Ligabue scultore davvero esemplare. Terrecotte raffiguranti teste di animali, di madonne, una testa di bambina, unica nel suo genere: perché, se non in un quadro dove compare una donna nuda e in un altro (Gorilla con donna del 1956-57), Ligabue non ritrae quasi mai figure di donne o bambini. Forse per una sua mancata familiarità con essi e perché i levrieri, i caproni, i gorilla, i cavalli, i leoni, i cani, le mucche, gli sono più congeniali, più vicini, li conosce meglio, li incontra nel suo vagabondare per gli argini, o perché gli sono rimasti impressi nella fantasia visitando i musei di storia naturale.
Sono esposti, sempre al Palazzo Bentivoglio di Gualtieri, anche molti disegni su carta ed incisioni: da segnalare la rassomiglianza degli occhi dei cervi e dei cerbiatti (matita su carta) con i suoi, il colore della terracotta della Pantera del 1956 di un colore e di una lucentezza quasi da sembrare cera o marmo lucido: leggenda vuole che la creta, raccolta lungo gli argini del Po, venisse da Ligabue mescolata alla propria saliva.
Viene internato nel '37 per il suo carattere iroso e violento e lo sarà di nuovo nel '40 e nel '45, per aver rotto in testa ad un soldato tedesco una bottiglia, dopo un'accesa discussione.
Certo non era un uomo facile, sempre indigente e povero fin quasi alla fine della sua vita, avvenuta il 27 maggio del 1965, nonostante una produzione abbondantissima, specie negli ultimi tempi; si stimano dalle 900 alle 1000 opere, che lui faceva, e poi donava, magari all'inizio solo in cambio di un bicchiere di vino o di un piatto di minestra.
L'unico volto di Ligabue disteso, e con un accenno di sorriso, lo troviamo nella sua maschera funebre, realizzata da Andrea Mozzali: forse è il testamento che ci ha voluto lasciare, come a voler dire che stava andando incontro ad una nuova dimensione che finalmente poneva fine ai patimenti del suo animo, alla sua solitudine e al suo isolamento.
LA MOSTRA
Curatori della mostra: Sergio Negri e Sandro Parmiggiani.
Cura del catalogo Skira: Sandro Parmiggiani
Euro 30 in mostra; Euro 60 in libreria.
Palazzo Magnani dal 28 maggio al 18 settembre 2005.
Orario 10.00-13.00/15.00-19.00; chiuso il lunedì.
Dal 16 giugno al 18 settembre.
Giovedì - venerdì - sabato - domenica anche dalle 21,00 alle 23,00.
Aperta il 15 agosto.
Info: 0522.454437 - fax 0522.444436.
info@palazzomagnani.it
web: http://www.palazzomagnani.it
Reggio Emilia, Palazzo Bentivoglio-Gualtieri
Lunedì - venerdì solo su prenotazione
Sabato-domenica 10.00-13.00 / 15.00-19.00.
Info: 0522.221869 - 0522.221829.
Biglietti: Euro 7 intero; Euro 5 ridotto; Euro 2 studenti.
|