Aveva sempre desiderato viaggiare. Esplorare nuovi mondi, confrontare le diverse realtà con i luoghi conosciuti nei libri e sognati fin da quando, ancora bambino, cavalcava la fantasia e viveva esperienze fantastiche piegato su chissà quali fiabe. Gozzano prima della poesia ha avuto il sogno, come tutti i fanciulli. Ha avuto però la sfortuna di ammalarsi presto di tisi, e di fare del sogno la sua realtà felice. Magari però trovare un posto dove poter alleviare quel male, magari guarire o almeno fermare la tosse. Il tempo passava, chiudeva i versi in poesie, il tempo passava e la malattia peggiorava: non si guariva dalla tisi agli inizi del Novecento. Neppure le cure strane della medicina del tempo, le escursioni ad alta quota che gli venivano ordinate, niente riusciva a farlo star meglio. Il mondo nel quale era costretto era la poesia, a fargli da ombra era il malinconico presagio di un destino crudele così prossimo perché potesse vivere spensierato la sua vita.
Guido Gustavo Gozzano nasceva nella Torino del 1883. La famiglia d'origine, borghese ma non ricchissima, gli garantì una buona istruzione e discrete possibilità economiche. Alla morte del padre le finanze familiari non furono gestite nel migliore dei modi, costringendo il poeta a una vita modesta e priva di lussi. Intorno al 1908 - la malattia era già viva nel suo corpo - prese a meditare un lungo viaggio per mare: le Americhe, forse il Brasile, luoghi dove non v'era l'antico, il classico così tanto studiato sui testi. Fu solo nel 1912, quando riusciva a trovare i fondi e la giusta occasione, che poté imbarcarsi: la meta era l'India. Avrebbe preferito l'ignoto, lì dove la letteratura non si era pronunciata, perché era convinto che quel viaggio non potesse riservargli una buona dose di meraviglia, tanto era vicino l'Oriente alla terra che era abituato a conoscere. Eppure, una volta in viaggio, scriverà: «A Roma, in Egitto, in Grecia, in tutti i luoghi sacri al passato, risorge il fantasma di una civiltà sola che le esumazioni, i restauri, gli studi ci fanno vicina, certa, come una cosa presente. Qui è il caos dell'abbandono e dell'oblio ...».
Partiva dunque da Genova a bordo del piroscafo Raffaele Rubattino il 12 febbraio del 1912, con lui viaggiava l'amico Giacomo Garrone, anch'egli minato dalla tisi. Il viaggio aveva lo scopo di arginare la malattia e di creare un'unica occasione umana di conoscenza; avrebbe portato pure beneficio economico una volta che il quotidiano "la Stampa" avesse raccolto la corrispondenza in un diario di viaggio da pubblicare. Fu solo nel 1914, due anni dopo il suo ritorno, che alcuni articoli comparvero su alcune testate.
Verso la cuna del mondo, Lettere dall'India fu scelto come titolo dell'opera dall'editore Treves, nel 1917. Raccolte in volume erano quindi le poche missive spedite al quotidiano e gli appunti dell'autore. È certo però che il viaggio qui narrato non sia stato interamente affrontato da Gozzano: il poeta scelse di raccontare la sua esperienza diretta di viaggiatore, inserendo però anche descrizioni di luoghi da lui mai conosciuti se non attraverso testimonianze raccolte e letture. Una decisione singolare, che ha lasciato sorgere molti dubbi sull'autenticità del viaggio. Da qui poi la problematicità circa il vero percorso tenuto in India. In realtà Gozzano sperava di poter fermarsi più a lungo, di avere maggiore tempo a disposizione per visitare i molti luoghi di interesse. Restò soli tre mesi per via della tisi e del clima, difficilmente sopportabile per colui che non vi era abituato, e per le ristrettezze economiche. Resta comunque di grande interesse la lettura di questo diario, unico per lo stile della narrazione e per la sensibilità poetica di chi lo ha firmato. Lo sguardo curioso e affascinato di un poeta italiano che si posa sulle infinite diversità di una cultura tanto lontana e nobile, bizzarra e raccapricciante come si leggerà. E in questo singolare incontro tra civiltà risulterà ancora una volta che sono i sentimenti dell'uomo a fare una l'umanità, che insomma pur avendo tradizioni, storie e costumi diversi, a edificare il mondo sono gli uomini, tutti diversamente uguali tra loro.
Racconta, ad esempio, del Taj Mahal, reggia dei morti, più meravigliosa della reggia dei vivi. Descrive liricamente il mausoleo, meraviglioso luogo di eterno riposo voluto dall'imperatore Shah-Zehan per la bella e giovane sposa Mahal, scomparsa nel dare alla luce il suo settimo figlio. Lo sguardo di Gozzano, perso nello splendore dell'immensa opera, si posa su un particolare: incastonate nel luminosissimo marmo ecco apparire le porte d'argento. Ed è l'assurdo cromatico dell'argento sul candore del marmo a rappresentare l'ideale che tiene in piedi nei secoli una costruzione immensa. Così scrive: «L'amore ha vinto la morte. Il mausoleo tre volte secolare è intatto come se costrutto da ieri. I coniugi amanti dormono vicini, in eterno. Sotto la cupola eccelsa più di qualunque nostra cattedrale, luminosa, nell'ombra senza finestre, d'una luce propria, s'intrecciano con delicati motivi floreali le sentenze del Corano. Sentenze indecifrabili per me, ma che certo devono ripetere ai due amanti le parole che le religioni di tutta la terra dissero in ogni tempo all'amore e alla morte».
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