Il cinema è sempre stato, con la
letteratura, la passione più grande di Vasco Pratolini. Tale interesse affonda le
sue radici nella stessa adolescenza del futuro scrittore, che per sbarcare il
lunario fu costretto a fare i mestieri più disparati, tra cui proprio quello di
venditore di bibite in alcune sale cinematografiche di Firenze. Egli stesso ce
ne parla in una breve ma interessante intervista rilasciata a Repubblica nel
1989, nella quale aggiunge molti altri dettagli:
Abitando prima in via de’
Magazzini, dopo in via del Corno seguivo da vicino gli avvenimenti di richiamo
che accadevano nella zona. Come l’inaugurazione del Supercinema, quando per la
prima nazionale della Bisbetica domata arrivarono Mary Pickford e
Douglas Fairbanks. Con gli altri ragazzi ci si arrampicava sulle cantonate per
vedere in persona quei divi importanti. […] Il Garibaldi era un cinema popolare
in via Pietrapiana. Quando da ragazzo vi andavo insieme ad altri amici, con
qualche marchingegno si cercava sempre di entrare di straforo, senza pagare. Ci
piaceva Tom Mix e lì vidi anche i film della serie Gennarello di cui non
s’è più parlato e che per il suo realismo varrebbe la pena ricercare.
Scorrendo le sue opere, la sua
passione emerge in molte forme. Innanzitutto sono molto frequenti i passi in
cui il cinema (come arte o come luogo) è direttamente menzionato, essi
attraversano l’intero corpus pratoliniano, dal Tappeto verde al Mannello
di Natascia, passando per la trilogia Una storia italiana. Lo
scrittore stesso ne ricorda alcuni nell’intervista menzionata.
Spesso troviamo citazioni molto
precise di film e attori, come in Cronache di poveri amanti (a nostro
avviso con Metello il grande capolavoro pratoliniano), in cui il
maniscalco Corrado, detto Maciste, “ha visto ieri sera la sua immagine nel
cinematografo dove si proiettava Maciste all’inferno”.
Nelle Ragazze di Sanfrediano ha un’origine cinematografica persino
il soprannome con cui è conosciuto Aldo, il protagonista: “come le nonne
avevano sospirato per Armando Duval in persona, e diventato mito, le madri lo
avevano successivamente identificato in Rodolfo Valentino chiamando Valentino i
loro belli, così le giovani di Sanfrediano […] scoprirono in Robert Taylor il
loro ideale di mascolinità. E Aldo Sernesi gli sembrò Bob. Fu Bob”.
Anche nello Scialo troviamo
numerose citazioni. Ad esempio quando incontriamo Bice, “sempre più ‘Mae
Murray in Circe la maga’, come da qualche tempo le si diceva: e non a
caso Bice si era tirata i capelli sulle tempie, spartendosi il suo oro
botticelliano a metà della testa”. Si
potrebbe andare avanti ancora a lungo.
La quasi totalità delle opere
pratoliniane è stata portata sullo schermo, il che ha notevolmente contribuito
alla sua diffusione presso il grande pubblico. Nel 1953 Carlo Lizzani diresse
la versione di Cronache di poveri amanti, prodotta da una cooperativa
che il regista costituì ad hoc e di cui lo scrittore stesso faceva
parte. Nel cast c’erano, tra gli altri, Marcello Mastroianni e Antonella Lualdi
(dato il pregevole carattere corale del romanzo, risulta un po’ difficile
parlare di ‘protagonisti’). Durante le
riprese, molti cittadini fiorentini assistettero con grande partecipazione
emotiva: non molti anni prima essi avevano vissuto nella realtà le scene di
squadrismo fascista che gli attori stavano interpretando. Anche Pratolini era
presente alle riprese e ci ha lasciato un’interessante testimonianza:
si avvicinarono alla macchina due
uomini sui cinquant’anni, chiesero di Lizzani e di me. Uno portava occhiali
neri […] “Mentre gli attori recitavano, mi venivano i bordoni” (i
brividi) disse uno dei due. L’altro, quello che portava gli occhiali, annuì.
Poi disse: “Sono cose di cui, senza odio, ma nessuno se le dovrebbe mai
dimenticare”. E aggiunse: “Io chissà se arriverò a vedere il film. Mi è cascata
anche quest’altra cataratta”. Così sapemmo perché portava gli occhiali neri.
Era stato bastonato a sangue e ferito, più volte, “a’ tempi de’ tempi”, come
disse, “a questi tempi qui”, e accennò attorno alla scena, si portò la mano
agli occhiali: “e queste sono le conseguenze”, concluse.
L’anno successivo la pellicola
partecipò con successo alla settima edizione del Festival di Cannes, dove fu
premiata dalla giuria con il Prix international. Negli anni precedenti
anche Luchino Visconti aveva lungamente lavorato al progetto di portare sul
grande schermo le Cronache, avvalendosi anche della collaborazione del
giovane Zeffirelli per la sceneggiatura. Il lavoro, supervisionato dallo stesso
Pratolini, non era però andato a buon fine a causa di difficoltà con i
finanziamenti.
Il 1954 fu un anno importante nel rapporto tra Pratolini e il cinema. Nel
giro di pochi mesi uscirono infatti varie pellicole ispirate a suoi testi, a
partire da Le ragazze di Sanfrediano, prodotto dalla Lux e diretto da
Valerio Zurlini, che era al suo primo lungometraggio. Il ruolo di Bob fu
interpretato da Antonio Cifariello, tra le interpreti femminili Giovanna Ralli
e Rossana Podestà. Il film ricevette una buona accoglienza sia da parte della
critica sia del pubblico, ma non soddisfò pienamente lo scrittore, che ne
spiegò i motivi in un colloquio del 1988 con Luciano Luisi: Zurlini a suo
avviso trasgredì “tutto quello che io penso – e che lui stesso pensava – e cioè
l’idea che un regista deve essere fedelissimo al testo, al significato del
testo, ma non ai suoi contenuti, ovvio. E quando io vidi il film mi arrabbiai
terribilmente perché aveva fatto il film cercando di dimostrare il contrario di
quello che io volevo dimostrare con il mio romanzo”. In
realtà in un primo momento lo stesso Pratolini aveva collaborato alla
sceneggiatura, ma i risultati non avevano pienamente soddisfatto la casa
produttrice che aveva preferito affidarsi a Leonardo Benvenuti e Piero De
Bernardi.
Nello stesso anno Anton Giulio Majano portò sul grande schermo La
domenica della buona gente, radiodramma di successo scritto da Pratolini
due anni prima in collaborazione con Gian Domenico Giagni. Tre storie private
si sviluppano in un pomeriggio domenicale, con lo sfondo di una partita del
campionato di calcio. Al film parteciparono anche Sophia Loren e Nino Manfredi,
rispettivamente nei ruoli di Ines e Lello.
Il 1954 è anche l’anno in cui Alessandro
Blasetti diresse il film a episodi Tempi nostri, un capitolo del quale è
ispirato a Mara, uno dei racconti che costituivano la raccolta Le
amiche del 1943. Blasetti affidò a Yves Montand il ruolo dell’alter ego dell’autore.
E’ interessante notare che Pratolini collaborò come sceneggiatore alla
realizzazione degli ultimi due film, cosa che molto raramente accadrà negli
anni successivi.
Nel 1959 Sergio Capogna, anche lui
al suo primo lungometraggio, lavorò alla versione cinematografica di Un eroe
del nostro tempo, con Marina Berti e Massimo Tonna. Il film, presentato in
quello stesso anno al Festival di Venezia, fu subito giudicato abbastanza
scadente dalla critica e fu distribuito nelle sale, con scarso successo, solo
due anni dopo. E’ da menzionare anche una riduzione televisiva del romanzo,
diretta nel 1982 da Piero Schivazappa, con Scilla Gabel e Gianni Garko.
Il 1962 è l’anno in cui finalmente,
dopo lunga gestazione, uscì con grande successo Cronaca familiare, ancora
con la direzione di Valerio Zurlini. Da almeno una decina di anni il regista
stava cercando invano di ottenere dall’autore i diritti del testo. Nei primi
anni i motivi della ritrosia di Pratolini erano molto intimi e sono spiegati
dallo scrittore stesso nella già citata conversazione con Luisi: “per quanto
fossero passati un paio d’anni sentivo ancora cocente il dolore per la
scomparsa di mio fratello, e pensare di fare un film dove io sarei stato il
coprotagonista, proprio non me la sentivo”.
Negli anni successivi i periodici
tentativi del regista diventarono ancora più complicati, a causa dello scarso
gradimento che, per i motivi già visti, Le ragazze di Sanfrediano aveva
avuto da parte dello scrittore:
E ogni volta che doveva fare un
film tornava da me a chiedermi se era arrivata l’ora… E io sempre no, finchè
venne il giorno che dissi sì: “sì, a un patto, e il patto è questo: mettiamoci
tu ed io nelle vesti immodestamente di Bresson e di Bernanos. Se tu fai una
riduzione di Cronaca familiare come Bresson ha fatto la riduzione del Diario
di un parroco di campagna di Bernanos, e cioè restando fedelissimo al
testo, ma dandogli la tua versione cinematografica, voglio dire fedeltà al
testo ma con una lettura personale del testo, allora io sono d’accordo. Perché
nel testo non puoi inventare né aggiungere qualcosa”. Zurlini accettò questa
condizione e con Missiroli fece a Firenze la sceneggiatura.
Anche Pratolini diede un piccolo
contributo alla sceneggiatura del lavoro, scrivendo una scena che non era stata
inserita nel romanzo e che risulta oggi tra le più felici della pellicola. Il
film di Zurlini, in cui Marcello Mastroianni e
Jacques Perrin ricoprivano i due ruoli principali, ebbe un enorme
successo, ottenendo il Leone d’oro a Venezia.
Tre anni dopo Pasquale Festa
Campanile portò sullo schermo La costanza della ragione, che Pratolini
aveva dato alle stampe due anni prima. Come protagonisti furono scelti
Catherine Deneuve e Sami Frey. Nel cast anche Enrico Maria Salerno nel ruolo di
Millo, il ‘secondo padre’ di Bruno.
Il 1970 fu l’anno della versione
cinematografica di Metello, l’altro grande capolavoro della narrativa
pratoliniana insieme alle Cronache. Il film fu realizzato dopo una lunga
gestazione, resa ancora più complicata da incomprensioni di natura politica che
erano sorte tra Pratolini e Pietro Germi, che in un primo momento avrebbe
dovuto dirigere il film. Il regista desiderava ‘ammorbidire’
il taglio politico molto radicale del romanzo, come Pratolini stesso rievoca:
“[Germi] Scosse la testa, stette a riflettere ‘Ah, no, se ti aspetti questo, io
questo servizio al partito comunista non lo faccio!’. ‘Fare il servizio al
partito comunista’ era quello che i nemici dicevano di Metello e anche i
comunisti lo stroncavano per conto loro. Allora puoi capire cosa ci si disse,
ci si disse cose feroci, crudeli”.
Alla fine il produttore Gianni Hecht Lucari
scelse come regista Mauro Bolognini, che fu artefice di uno dei più grandi
successi cinematografici di quegli anni. I due ruoli principali furono affidati
a Massimo Ranieri e a Ottavia Piccolo, la colonna sonora fu firmata da Ennio
Morricone. Il film ottenne il David di Donatello e la Piccolo fu premiata a
Cannes come migliore attrice protagonista.
Particolarmente lunga e complessa
fu anche la vicenda relativa allo Scialo. Già negli anni successivi
all’uscita del romanzo Zurlini iniziò a lavorare a un ambizioso progetto
che avrebbe dovuto portare sia a un ampio sceneggiato televisivo sia a una
riduzione cinematografica. Il lavoro si protrasse però per molti anni a causa
di molteplici difficoltà presentatesi, dall’abnorme vastità del romanzo di
riferimento alla centralità in esso di scene sessuali piuttosto morbose, dalla
precaria salute di Zurlini a problemi con i produttori. Pratolini collaborò a
una delle sceneggiature che negli anni si succedettero. Dopo la morte di
Zurlini si optò per la sola versione televisiva e il lavoro fu portato a
termine da Franco Rossi. Come protagonisti furono scelti Massimo Ranieri ed
Eleonora Giorgi nella parte dei coniugi Corsini e Marisa Barenson nel non
semplice ruolo di Ninì. Pratolini apprezzò profondamente il risultato, in
particolar modo la performance delle due protagoniste femminili. La RAI ha
mandato in onda il lavoro nel 1986, in quattro puntate da novanta minuti l’una.
Un altro importante aspetto del
rapporto tra Pratolini e il cinema è la collaborazione, in qualità di
soggettista e di sceneggiatore, con alcuni tra i più importanti registi
italiani del dopoguerra, a partire dai padri del neorealismo. La prima delle
collaborazioni è anche forse la più importante in assoluto: egli fu uno degli
autori (tra di essi anche un giovane Fellini) che nel 1946 contribuirono alla
sceneggiatura di Paisà di Roberto Rossellini:
Ero a
Napoli – mi ricordo come fosse ora – e stavo lavorando alle Cronache di
poveri amanti e una mattina, condotto da Massimo Mida Puccini, venne a
trovarmi Roberto Rossellini per chiedermi di collaborare alla sceneggiatura di Paisà,
cominciando con l’episodio napoletano che poi ebbe come teatro Minori. Dopo
quello io avrei continuato, ma ero tutto dentro le Cronache, e mi scusai
e li abbandonai. Però avevo nel frattempo scritto il soggetto per l’episodio di
Firenze.
Alcuni anni dopo, ripensando all’opera,
si esprimerà in termini entusiastici sul neorealismo rosselliniano: “La sua
cronaca, da nient’altro levitata che dal suo occhio fotografico, travalicava il
documento per diventare immediatamente poesia, tanto rivoluzionario eppure
tanto semplice e fedele alla natura delle cose era stato il suo intervento”.
I primi anni Sessanta fecero
registrare molte altre collaborazioni di grande prestigio. Nel 1960, prendendo
ispirazione dal Ponte della Ghisolfa di Testori, scrisse con Suso Cecchi
d’Amico il soggetto che Luchino Visconti svilupperà nel suo Rocco e i suoi
fratelli, drammatica storia di una famiglia meridionale emigrata a Milano.
Il film, con Alain Delon, Renato Salvatori e Annie Girardot nei ruoli
principali, ottenne uno straordinario successo di pubblico e di critica, ma
ebbe come noto gravi problemi con la censura che lo vietò ai minori.
L’anno successivo firmò con Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa la
sceneggiatura della Viaccia di Mauro Bolognini, tratto dal romanzo L’eredità
che Mario Pratesi aveva pubblicato nel 1889. Proprio su sua
iniziativa la vicenda fu ambientata nella Firenze di fine secolo e non nella
Siena di cinquant’anni prima come Pratesi aveva fatto. Lo stesso titolo fu
proposto da Pratolini, che si rifece al nome di una fattoria dove era stato
ospite da ragazzo. Il film ebbe un’accoglienza molto positiva, anche grazie
alle valide interpretazioni di Jean Paul Belmondo e Claudia Cardinale. Si
tratta dell’unica pellicola sceneggiata da Pratolini ad avere un’ambientazione
ottocentesca.
Al 1962 risale la collaborazione con Nanni Loy.
Pratolini, ancora con Festa Campanile e Franciosa, curò l’ampio soggetto
originale delle Quattro giornate di Napoli, sul celebre episodio di
resistenza popolare antinazista. Dopo aver sposato una ragazza napoletana, egli
aveva vissuto a lungo nella città campana e aveva ascoltato molti racconti
diretti su quei giorni. Il soggetto presentava quel carattere corale che è
tipico della migliore narrativa pratoliniana. Il film fu accolto con grande
favore e candidato all’Oscar come migliore opera straniera.
Gli anni della seconda guerra mondiale
erano una cornice a lui molto cara. Nel 1955 aveva anche collaborato con Citto
Maselli alla realizzazione della sua opera prima Gli sbandati, una
drammatica storia di amore e guerra ambientata nella Lombardia dei giorni
successivi all’8 settembre 1943. Pregevole l’interpretazione di Lucia Bosè. I
nomi di Pratolini e di Suso Cecchi D’Amico non compaiono tra gli sceneggiatori
avendo essi ritirato la firma a causa di dissapori con il regista.
Nella sua carriera di soggettista e sceneggiatore sono da menzionare anche
altri lavori che riscossero minore successo. Nel 1952 collaborò con Mario Sequi
alla realizzazione di Cronaca di un delitto, drammatica storia di un
ingegnere accusato su base indiziaria dell’omicidio del direttore dell’azienda
in cui lavora. Agli anni Cinquanta risale anche la collaborazione con Luciano
Emmer. Innanzitutto nel 1953, per il film Terza liceo, sulla vita di un
gruppo di adolescenti nell’anno della maturità. In un primo momento pensarono
di inserire nella storia anche il tema dell’aborto, all’epoca non facile, ma
poi ritennero più prudente soprassedere. La collaborazione si rinnovò nel 1957
con Il momento più bello, in cui era trattato il tema del parto
indolore, anch’esso piuttosto audace in quegli anni. Il film non ebbe grande
fortuna, nonostante nel cast figurassero nomi che avrebbero poi assunto un
certo peso nel cinema italiano, da Marcello Mastroianni a Giovanna Ralli ed
Ernesto Calindri.
Più recente è la collaborazione con Nelo Risi,
per il quale nel 1966 firmò il soggetto di Andremo in città, tratto dall’omonimo
romanzo di Edith Bruck, moglie del regista. Nell’opera è trattato il tema della
Shoah attraverso la descrizione del viaggio verso la morte compiuto da
una ragazza ebrea jugoslava (Geraldine Chaplin) e dal suo fratellino cieco a
cui lei cerca, con grande amore, di nascondere la verità. Alla pellicola fu
rimproverato quell’eccesso di lirismo da cui non è esente ampia parte della
narrativa pratoliniana. Lo stesso Risi diresse nel 1972 La colonna infame, ispirato
al testo manzoniano. La mano del Pratolini sceneggiatore è evidente soprattutto
nella seconda parte del film, caratterizzata da un intenso sentimento di pietà
verso quegli umili che erano vittime spesso incolpevoli della ‘giustizia’
seicentesca.
Nel 1948 Bianco e nero, rivista
del Centro sperimentale di cinematografia, pubblicò un articolo nel quale
Pratolini faceva alcune interessanti riflessioni sul rapporto tra letteratura e
cinema, tema che negli anni del neorealismo era dibattuto con grande interesse.
Egli rimase sempre molto affezionato al testo, che dava in lettura a tutti i
registi che si apprestavano a portare sullo schermo le sue opere.
Il cinema, esordisce lo scrittore,
è l’unica arte a possedere un grande dono, la “possibilità non più (o non
soltanto) di trasfigurare o simboleggiare o imitare la natura, ma di
rappresentarla fisicamente. La cinematografia è dunque la sola arte in grado di
possedere totalmente la vita dell’uomo nella sua dimensione di spazio, di tempo
e di luogo e nella sua immediatezza di gesto, di sguardo, di emozione”.
Prima che il cinema nascesse, la
letteratura era la sola arte in grado di rappresentare la realtà nel suo
dinamismo. La pittura e la scultura, per quanto sublimi, inquadrano un
frammento di realtà, lo rappresentano e lo immortalano. La letteratura invece è
sempre riuscita ad andare oltre:
i poemi cavallereschi, le
novelle, i romanzi hanno via via rappresentato lo specchio più accessibile che
l’uomo – la infinita maggioranza dell’umanità – si è dato per accompagnare la
propria immagine nello spazio e nel tempo dai quali si sente assediato e ai
quali sa di essere fatalmente condizionato. Il cinema gli ha completato la
nozione della propria figura umana e insieme gli ha permesso di acquisire il
senso tangibile (visivo) del suo lungo viaggio.
La letteratura ha sempre stimolato
nel lettore un lavoro di elaborazione mentale delle immagini descritte:
Acquisita che abbiamo la ragione,
accompagnare i personaggi nel corso delle loro vicende romanzesche significa
riscattare con le loro gesta la nostra inerzia di lettori. Prima ancora di
accettare o di respingere il giudizio che lo scrittore ci suggerisce, è alla
successione dei loro atti, alla loro cronaca che noi badiamo, nostro malgrado
perfino. Diamo a quei personaggi una faccia, costruiamo di volta in volta gli
ambienti che li circondano, gli oggetti ch’essi toccano; ci ripetiamo
mentalmente le loro parole. Li identifichiamo comunque in una realtà in
movimento, desumendola da quella che è la nostra personale realtà […] Il
racconto, orale o scritto che sia stato, è sempre pervenuto alla conoscenza
dell’uomo attraverso un’operazione dell’intelletto che è ormai proprio definire
cinematografica.
Ecco perché, in seguito alla
nascita dell’arte cinematografica, è naturale che tra essa e la letteratura si
crei un’importante relazione, perché è “incontestabile che tra film e romanzo
esista un rapporto di solidarietà, o per meglio dire, un’affinità elettiva”.
Ferma restando la netta distinzione tra le due sfere artistiche, perché “è
utile tanto per l’una quanto per l’altra che giungano a capirsi e a
parteciparsi i loro pensieri, ma la loro intimità sarebbe innaturale, un atto
peccaminoso da cui uscirebbero entrambe diminuite. Una raffinatezza, nel
migliore dei casi; sterile, comunque”.
Quasi tutti i commentatori della
narrativa pratoliniana hanno appunto riconosciuto allo scrittore una non comune
capacità di descrivere scene che vanno a stimolare efficacemente
l’immaginazione visiva dei lettori. Già a partire dal Quartiere egli
inizia a regalarci alcune pagine in cui dipinge dei suggestivi quadri di vita
quotidiana nei quartieri popolari di Firenze. Come in alcuni momenti di cinema
neorealista, egli in quelle pagine non racconta nessun evento particolare, si
limita ad ‘accendere la sua cinepresa’ e lascia che sia il quartiere stesso a
parlare, con le sue immagini, i suoi rumori, quasi persino con i suoi odori.
Nelle Cronache troviamo
molti passi in cui questa tecnica è adoperata con risultati estremamente
pregevoli. Una domenica mattina in via del Corno:
Ma la domenica le sveglie si
riposano, e i cornacchiai le mettono apposta sul ferme nel coricarsi per
poter dormire un po’ più del consueto. La strada è a lungo deserta, e il sole
vi si è già accomodato quando le donne appaiono sulle soglie e alle finestre. Escono
per prime Clorinda e Armanda che si recano alla messa delle sette. Questa
domenica Luisa non sarà con loro: è trattenuta in casa dovendo accudire al
nipotino. Provvisoriamente, al posto suo, ci va Fidalma a fare le pulizie in
casa della Signora. Poi c’è Maria Carresi che spazza le scale, ed idem Clara,
ma un poco più in ritardo. Quindi le altre che si recano per la spesa. Ma già
lo Staderini mette il naso al suo belvedere, scambia con Nanni due parole.
Maciste si affaccia a torso nudo come per dare una voce al suo cavallo e
dirgli: “Fra qualche minuto scendo”. Nemmeno Gemma è andata in chiesa
stamattina: ha promesso al genero un dolce di sua specialità. Vi è attorno
indaffarata perché Milena la sollecita.
Sono le nove quando Maciste striglia il suo cavallo, Giordano e Gigi
saltano gli scalini e Semira pettina al davanzale la piccola Piccarda alla
quale ha lavato i capelli. Musetta e Adele si incontrano dal carbonaio di via
Mosca, ed al ritorno fanno la strada insieme.
Talvolta ad essere presentate con
‘taglio cinematografico’ sono scene ben più movimentate, come l’arresto del
Nesi, reso ancora più drammatico da un grave malore che lo colpisce mentre gli
agenti lo portano via:
Gigi Lucatelli, che insieme agli altri curiosi aveva seguito la triste
processione, riappare come un razzo in via del Corno, grida: “Gli è preso un
accidente! Stanno chiamando la Croce d’Oro!” E riparte correndo.
Ora in
via del Corno ci rimane chi non si fida sulle gambe.
Anche la Croce d’Oro è appiedata e alla buona. Arriva la lettiga sulle
ruote, spinta dai militi in uniforme azzurra. Il caporale fa pè-pè con la
tromba a mano. Fendendo la calca, caricano il Nesi ch’è irrigidito come una
statua, con un occhio aperto e uno chiuso. E il respiro fitto dell’agonia. I militi
riabbassano la cappotta della lettiga, lasciando sollevato un lembo dalle due
parti perché circoli l’aria; e impugnati i manubri laterali, partono alla
bersagliera. Il caposquadra è in testa con la tromba, chiude la marcia il più
giovane dei due agenti che può permettersi la strapazzata. Li seguono i più
prestanti e i più curiosi fra gli spettatori; ed i ragazzi, per i quali è una
festa non compresa nel programma della giornata.
Fa notare Mirko Bevilacqua:
Pratolini scopre che l’unico modo
valido di registrare i movimenti popolari di una strada - la dialettica che esprime nel via vai delle
azioni e degli affetti – è quello di mettersi lì pronti per una lunga ripresa
fissa: inventa, letterariamente, il piano-sequenza. La via del Corno
delle Cronache cos’è se non il montaggio di alcune lunghe e bellissime
sequenze dove la dialettica del movimento è soltanto ciò che la registrazione
del campo permette: un continuo e nevrotico succedere delle cose in una
semplice strada-laboratorio?
Anche Metello ci offre un
buon numero di passi altrettanto godibili. Il capitolo XXII si apre con la
descrizione di un lunedì mattina qualunque, in cui come sempre centinaia di
lavoratori arrivano in città dal contado, per iniziare una nuova settimana di
lavoro. Il passo è molto lungo, ne estraiamo un brano di grande intensità su un
piano visivo, acustico e persino ‘olfattivo’:
La città gli viene incontro con
le botteghe odorose di vino, di polenta fritta, di trippa scodellata, di
schiacciata all’olio, di pandiramerino. Escono di casa le beghine, è
un’effluvio d’incenso. E’ buono anche l’odore degli stallaggi, e di tutti quei
fiori sotto le Logge. Essi scoprono sempre qualcosa di nuovo, entrando in
città, all’inizio della settimana, con la ruota del pane nel fazzoletto colorato,
e indosso la biancheria pulita. Cosa? Non lo saprebbero dire, è una speranza,
l’aria sembra far loro delle promesse. Gli piace la ragazza che scuote i
lenzuoli al davanzale, il cane randagio che per un po’ gli si mette dietro.
Vicino ai cantieri si incontrano coi compagni di lavoro che abitano in città e
più spesso leggono il giornale.
Ovviamente non possiamo non citare quella che
probabilmente è la scena più nota del romanzo (e naturalmente, non a caso,
della sua trasposizione cinematografica). La rievochiamo con le parole di
Emilio Cecchi, secondo il quale
nessuno avrà dimenticato la
scena, così robusta e quasi direi elettrizzante, delle popolane che, dal
cortile della prigione, ad una ad una chiamano a nome e dicono addio ai mariti,
ai fidanzati e ai figliuoli che si preparano a partire per il domicilio coatto.
Una scena, che nella mente del lettore s’imprime indelebilmente con una
straziante esattezza fonica, come se egli stesso avesse sentito echeggiare
quelle voci su nel camerone dei carcerati.
Concludiamo con Lo scialo, che
attesta una profonda evoluzione della narrativa pratoliniana: con le sue
smisurate dimensioni, i tortuosi percorsi nella psiche malata di Ninì e i suoi
interminabili monologhi sul “licitte” di Giovanni, il romanzo fa registrare una
notevole flessione qualitativa rispetto alle prove precedenti. In alcune pagine
però l’autore riesce ancora a collocare la sua ‘cinepresa’ di fronte ad alcune
immagini molto suggestive della vecchia Firenze, come la mescita del Chiti:
Era un’apertura nel muro, tra un
incisore, un fabbricante di timbri e un riparatore di ombrelli, sistemati in
terranei ugualmente minuscoli, a capo di via de’ Cimatori. Al di sopra della
soglia, un’insegna a cassettone, in lettere rosse ma eleganti, diciamo
bodoniane, su un fondo verde prato:
MESCITA DI VINI
prop. L. Chiti
1875
Nell’interno, la parete centrale
era ricoperta da uno specchio spartito in tre mensole su cui poggiavano,
riflettendovisi più volte, le bottiglie dei vini originali, e i vermouth, i
rosoli. La loro disposizione e com’erano alternate secondo la foggia del vetro,
il colore del contenuto, l’arabesco e la tonalità delle etichette, testimoniava
di per sé della fantasia del loro ordinatore e del suo senso delle proporzioni.
Il banco, col suo piano di marmo nella lunghezza della parete, quasi si
affacciava sulla strada: restava quel mezzo metro e nemmeno, dal banco alla
soglia, sufficiente per poter accedere nell’interno e per consentire al Chiti
di chiamare il suo stambugio, un locale.
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