Joseph Cornell e la fotografia surrealista
Joseph
Cornell, il “cacciatore di immagini”, è
da sempre accostato ai Surrealisti. La vicinanza di idee e stile tra questi
artisti è evidente e ampiamente certificata da una serie di “incontri casuali”
in scena alla Galleria di Julien Levy: il centro espositivo newyorkese diventa
un vero e proprio tramite tra la cultura europea e americana negli anni Trenta.
In
un clima artistico di reciproca influenza non è difficile trovare curiose
corrispondenze tra le opere prodotte in quell’epoca. Il collage, protagonista di un dibattito estetico proprio in questi
anni, sembra essere la perfetta realizzazione del periodo storico-artistico: la
tecnica permette di raccogliere i ritagli trovati e di ricomporli parificando
gli elementi compositivi, facendo così, allo stesso tempo, la fortuna dei
singoli.
L’artista
diventa un cacciatore che si appropria di un prodotto altrui rivalutandolo
all’interno di una composizione nuova: è una pratica di riciclo che diventa
arte.
Proprio
grazie al concetto di un’arte che non si crea, ma si trova, le opere
rispecchiano, tanto a livello tecnico quanto contenutistico, il costante
rapporto tra gli artisti.
Cornell,
per di più, soffre di ammirazione per i grandi come Ernst o Duchamp, ma anche
per le dive, dalle attrici alle ballerine che incantano gli spettatori nei
teatri di tutto il mondo. Non è raro trovare omaggi e richiami ad altre opere o
agli artisti nei suoi collages e
nelle Shadow Boxes: nella sua arte
c’è il gusto per la citazione come se ogni capolavoro in miniatura fosse una
celebrazione del frammento da ricomporre in una piccola meraviglia da scoprire
attraverso uno schermo ingannevole.
Il
potere illusionistico di vetri e specchi è un amore storico tra i Surrealisti
che, affascinati dalle opere di Atget, fanno del fotografo francese un
predecessore ante litteram della loro
arte, modello da osservare e pubblicizzare sulle riviste del movimento.
Man
Ray è il più interessato alla promozione degli scatti di questo fotografo,
paradisi perduti di manichini in vetrina nella sordità di un vuoto metafisico
di dechirichiana memoria. L’artista presenta l’opera del foto-documentarista ad
una delle sue più valide allieve, Berenice Abbott, che si occupa
dell’acquisizione di gran parte del corpus
fotografico di Atget. Le istantanee, portate negli Usa, vengono esposte proprio
alla Galleria di Julien Levy contribuendo a formare il gusto di generazioni di
artisti.
Il
taglio e il tema banale sono capisaldi del Surrealismo insieme alle
sovrapposizioni create dal vetro: è il quotidiano in esposizione, un’esperienza
vissuta con un occhio nuovo che respira della poetica delle piccole cose.
Le
fotografie non sono altro che un prototipo per un’arte più elaborata: sono documents pour artistes, come le
definisce lo stesso Atget, che si è sempre ritenuto un semplice artigiano al
servizio, appunto, degli artisti.
La
fotografia alla corte dei Surrealisti è molto più che una tecnica di sperimentazione:
lo stesso Benjamin sottolinea come la predilezione del fotografo per il banale
realizzi un’equiparazione di fronte a qualsiasi oggetto catturato
dall’obiettivo riqualificando la discarica urbana in un’esposizione magica.
Il
fotografo è un poeta straccivendolo alla Baudelaire.
Il fascino del quotidiano si tinge di giallo:
l’oggetto diventa un gioco di significati nascosti, una slot machine dove le soluzioni dell’enigma si sovrappongono e
ingannano lo spettatore paralizzando qualsiasi possibile riscontro con la
realtà. È il potere dello shock
surrealista che, per rendere l’inganno ancora più vero, si avvale della
fotografia: lo scatto autentica il sogno e la visione trasformando il collage in un trabocchetto reale.
La
fotografia, quindi, riveste un ruolo notevole nella sperimentazione artistica
del movimento mentre i fotografi vivono a stretto contatto con artisti e
galleristi in un’intricata rete di corrispondenze tanto nelle opere quanto
nelle relazioni interpersonali.
La
quantità di immagini prodotte in questi anni accresce la fama della tecnica
artistica: la fotografia diventa protagonista delle riviste, oggetto
commerciale e illustrativo, immagine educativa e divertissement nonché ritaglio per il collage artistico.
Il
“cacciatore di immagini” raccoglie i frammenti visivi della Manhattan dei
rigattieri creando opere che assemblano oggetti e significati secondo un unico
imperativo: le consonanze interiori dell’artista.
Proprio
in questi anni Cornell sperimenta diverse tecniche alla ricerca di un metodo
che gli permetta di raggiungere quella spazialità reale tanto cercata nel
tentativo di accostarsi alla vita stessa. L’artista passa dal collage, al cinema, agli oggetti
tridimensionali guidato dalla sua personalissima necessità poetica: l’immagine
diventa il denominatore comune della caccia che mitiga il culto dell’antico e
del vittoriano volgendosi all’attualità. Se le cartes de visite vittoriane
riempiono le sue prime collezioni, negli anni Trenta i suoi collages sono teorie dell’accumulo di fotografie
attinte alle riviste come gli scatti di “George
Holyniegen-Heaune, Lee Miller, and Cecile Beaton”.
Questo
passaggio non sembra essere di poco rilievo: dimostra come Cornell inizi a
confrontarsi con gli artisti del momento creando un’apertura tra il suo mondo
collezionistico, “alla ricerca del perduto e del bello”, e la realtà, partendo
dai suoi incontri.
Ogni
artista ha un suo modo di rapportarsi con Cornell e una sua influenza: dalla
rabbia di Dalì alla delicatezza di Duchamp resta comunque un’impronta sulla
creatività di Cornell, traccia indelebile dell’effetto prodotto sulla
sensibilità dell’artista.
Le
personalità alla galleria di Levy sono varie e molteplici, ma c’è un incontro
casuale che, credo, sia degno di nota: Joseph Cornell trova sulla sua strada
Lee Miller.
La Musa dei Surrealisti
È
il 1932 quando i due artisti si incontrano: si tratta della prima personale
della fotografa negli Usa, promossa da Julien Levy.
Elizabeth
(Lee) Miller è già molto conosciuta all’epoca dell’incontro: è appena arrivata
da Parigi dove ha trascorso tre anni a contatto con Man Ray di cui è stata
allieva, modella e amante.
Lee
Miller è nota al pubblico come la “Musa dei Surrealisti”: i suoi incantevoli
occhi blu, i capelli corti sbarazzini e il suo corpo diafano hanno stregato gli
artisti dell’epoca che gareggiano per contendersela come modella e compagna. I
suoi scatti impazzano sulle riviste di mezzo mondo: è lei la musa che ispira,
il modello della donna prediletta dai Surrealisti, la diva che diventa protagonista
e ritrattista dell’arte.
Tutta
la sua vita, come la sua arte, è una rete di rimandi: le immagini e i
personaggi si specchiano nel suo obiettivo per gioco diventando, in realtà,
pedine di una scacchiera costruita con le istantanee, passi di un sentiero
dalle innumerevoli biforcazioni che sono le vite di Lee Miller.
Cornell non può certo restare
indifferente a quella che, all’epoca, è la diva per eccellenza: “She was unlike anyone he had ever known,
her blue eyes sparkling as she related stories about the Surrealists” [5] . Sembra
che i due artisti si incontrino spesso nello studio della fotografa in Madison Avenue and Forty-eight Street: “Miller’s unceasing patience for Cornell
confounded at least one person” [6] .
Il
loro è un rapporto speciale che va dall’amicizia, alla stima reciproca, alla
collaborazione, nonostante si tratti di due personalità opposte: Cornell è
l’eterno insicuro, timidissimo e riservato, instancabile sognatore mentre Lee
Miller realizza qualsiasi capriccio viaggiando per il mondo, ottenendo successo
in ogni campo e in ogni angolo del globo e intrecciando la sua vita con i
grandi protagonisti dell’arte. Sembra che Lee Miller non manchi mai gli
appuntamenti con la Storia: è modella negli anni del boom delle fotografie sulle riviste; è fotografa quando la
fotografia è il trucco che autentica la magia surrealista; è attrice e
ballerina per Cocteau proprio mentre si sviluppa il dibattito con Breton sulla
paternità del movimento; è documentarista in un’epoca in cui la guerra è di
attualità mondiale.
Lee
Miller è un angelo da palcoscenico, statua per copione ne Le sang d’un poète di Cocteau nel 1930: nessun personaggio può
essere più adatto a lei, la rivisitazione di un oracolo in toga classica che
serve le carte al giocatore che le sta di fronte ricordandogli che “se non ha
l’asso di cuori è un uomo perduto”.
Ed
ecco l’artista tipicamente anni Trenta che mischia i ritagli per i suoi collages, come un mazzo di carte:
l’ironia del gioco surrealista confonde lo spettatore che, ignaro, si trova in
mezzo allo shock in cui una statua
classica non è per niente tradizionale. Quella statua è l’arte stessa, azzardo
e creazione, travestita di purezza androgina che nasconde l’inganno di un baro: “gli specchi farebbero bene a riflettere prima
di rimandarci la nostra immagine”.
Lee Miller regala a Cornell
una foto della sua performance
surrealista, probabilmente conscia di quel grande amore dell’artista per il
mago dei giochi tra classico ed enigma, De Chirico: “One day she gave him a photograph of herself in Jean Coucteau’s movie
Blood of a Poet, in which she had starring role as a Greek statue, and Cornell
squirrelled it away with his numberless glossies of singers and Hollywood
starlets” [8] .
Si
svela da subito uno dei tratti fondamentali di Lee Miller: la teatralità
dell’attrice-ballerina che farà da sfondo ad ogni scatto. Le prime teste
fluttuanti che popolano le istantanee surreali di questi anni sono animate da
uno spirito più profondo di quella tecnica appresa da Man Ray a Parigi.
La cura per l’aspetto intimistico - emotivo del personaggio diventa
tratto distintivo della sua attività di ritrattista che rende lo scatto
un’opera scenica. Il modo di costruire il soggetto con la luce è più teatrale
di quello di Man Ray e si avvicina allo stile sofisticato del fotografo Horst.
P. Horst, lo “scultore di immagini”.
Il
sentimento è reso ancora più evidente dall’introduzione del colore blu,
sinonimo di triste, forse eco di quel duchampiano “tr”, c’est très important.
L’affinità
contenutistica sembra entrare, proprio in questi anni, nell’arte di Cornell: “Cornell also developed more varied
expressions of collage between 1932 and 1940 than previously understood. Based on the retroactively assigned to Untitled (Mary
Taylor By Lee Miller), he introduces the use of color and incorporated excerpts
from photographs around 1932”. La
tonalità blu applicata a questo ritratto realizzato da Lee Miller rispecchia
l’atmosfera notturna e proviene da un libro di astronomia: “a color plate from an astronomy book provides the nocturnal blue
background”. Tra teste fluttuanti, staccate dal corpo, e pagine
astronomiche non si può non pensare al Soap
Bubble Set di Cornell nel 1936.
Con
strana casualità il blu compare nel primo film realizzato dall’artista proprio
nello stesso anno: Rose Hobart,
infatti, viene proiettato con un filtro di vetro blu. La coincidenza tra il
sentimento e l’elemento linguistico si ritrova alla metà degli anni Cinquanta
quando Cornell aggiunge una specie di sottotitolo o secondo titolo al film
chiamandolo tristes tropiques
generando una forte allitterazione della “t”.
Il
film è un taglia e cuci di scene tratte da East
of Borneo, jungle drama del 1931,
nelle quali compare l’attrice Rose Hobart: è la celebrazione dell’incanto della
diva, reso solenne dalle scene volutamente rallentate in fase di proiezione che
si alternano a fotogrammi di un documentario scientifico sulle fasi di
un’eclissi. Sarà un caso, ma la protagonista del film ha una somiglianza
impressionante con Lee Miller.
Il tema della bellezza rispecchia
una strana coincidenza visto che negli scatti “using simple techniques of ‘straight’ photography (photographic
unaltered negatives and prints that are not subjected to double exposure or
montage), such as camera angle and lens framing capacity, Miller’s achieved the
Surrealist idea of ‘convulsive beauty’ (André Breton’s notion that a shocking
sense of beauty is inherent in the accidental or decontextualised)” [11] .
Le
teste fluttuanti echeggiano di oggetti trovati: i francobolli nel mondo
anglosassone sono chiamati heads proprio
per la testa della regina che si vede sullo stamp.
E pensare
che i collezionisti di francobolli vengono elevati alla stregua degli artisti
proprio nell’età contemporanea: “Nous
sommes à une époque de curiosité esasperée qui fouille tout, hommes et choses;
à default de la grande histoire que nous ne savons plus faire, nous ramassons
les miettes de la petite avec un tel zèle que notre considération en est venue
à ouvrir ses grands yeux devant un collectionneur de timbres-poste” [12] .
Gli
sfondi blu, invece, sembrano rispondere al bisogno d’inganno tipicamente
surrealista: è un’allusione alle immagini liquide, deformate dal potere del
vetro e dello specchio. Lee Miller dimostra una passione, proprio in questi
anni, per i giochi visivi: da Exploding
Hand dove “(She) uses these tecniques
to create an image that looks like a woman’s hand smashing through a glass
door” [13] ) a Scent Bottles “which shows a row of perfume
bottles perfectly doubled by their mirrored reflection, exemplifies Miller’s ability
to enhance ordinary subject matter with her unique vision” [14] .
L’interesse
della Miller per boccette di profumo e cosmetici in accumulo crea opere che
enfatizzano l’amore per l’oggetto in esposizione proprio quando Cornell
comincia a sperimentare i primi assemblages.
Basti vedere Mary Chess del 1933. L’idea
di una sperimentazione comune tra i due artisti si svela in uno scatto di Lee
Miller, Untitled (Joseph Cornell Object):
si tratta di un contenitore in vetro a forma di proiettile che racchiude un
bicchiere con la finta testa di un bambino. Sul recto ci sono le firme dei due artisti insieme ad una dedica che
recita "For Julien, In deepest
appreciation, Joseph Cornell, Nov. 1933”.
Il
costante rapporto tra il gallerista, la fotografa e il “cacciatore di immagini”
sembra molto intenso in questi anni.
Ritratto di un argonauta
Nello
stesso anno Lee Miller realizza un omaggio fotografico a Cornell, una serie di
scatti che immortalano non solo l’artista, ma anche il suo sconfinato amore per
l’oggetto.
Cornell
si presenta in un inganno visivo sapientemente orchestrato dall’abilità
teatrale di Lee Miller: la testa apparentemente fluttuante dell’artista sembra
incastonata in un veliero.
Ė
la lettura più magica della personalità dell’artista, la mente di un argonauta
solitario che impreziosisce il suo vascello- giocattolo di significati
enigmatici.
La
fotografa probabilmente vuole sottolineare come l’artista discenda da una
famiglia di navigatori olandesi: anche nelle opere di Cornell compaiono spesso
vascelli, rose dei venti e metafore legate al mare.
L’omaggio
si compone anche di sei parti di un tipewritten
essay scritto da Julien Levy, Art and
Artillery, che evidenzia ulteriormente il costante rapporto tra i tre: “Each of the six prints is captioned by Levy
with excerpts drawn from his essay. The
portrait of Cornell, ...spun the wind
like hair for the sails of his boat, followed by images of Cornell's
work and another portrait, ...continents
preserved in jars and phials; ...fragments of stuff into glass balls, ...for
the recreation of Life, ....a book was really full of a number of things,
...magic dust...” [16] .
L’opera
ha un titolo straniante che echeggia di significati enigmatici: twelve needles indica le lancette
dell’orologio, ma anche gli aghi. Il numero dodici potrebbe essere la somma
degli scatti e delle parti dell’estratto. To
needle significa cucire: sembra proprio che in quest’opera le parole siano
cucite alle immagini, come nella più perfetta tradizione surrealista.
Il
termine ricorda anche i collages di
Cornell dove strane silhouettes
passano attraverso macchine da cucire.
Il
collage, in fondo, è un taglia e cuci
di frammenti visivi tanto quanto il Found
Footage, di cui Cornell è l’inventore.
L’idea
degli oggetti danzanti (dancing)
risponde all’atmosfera delle opere di Cornell, magici palcoscenici dove si
incontrano per incanto gli oggetti più disparati. Non si dimentichi, inoltre,
che Lee Miller è una ballerina: è lei l’angelo dell’opera.
L’interpretazione di una
combinazione tra immagini e parole trova conferma nel testo dell’estratto: “Were not only letters are combined into words, but words
into objects, and objects sometimes into minute continents which could be
preserved in jars and phials and arrayed upon shelves like pharmacopoeia”.
Credo
che nelle parole di Levy si possano trovare alcuni elementi per capire quale
sia la chiave di lettura delle opere di Cornell. Quando Levy scrive “Verdâtre, rougeâtre, noirâtre, Cléopâtre: -
there is just one more syllable needed in this alchemy of words for the
recreation of Life” sembra voler suggerire che l’artista ama gli
accostamenti tra le parole che, grazie alla magia del suono, creano
un’alchimia.
Forse
l’arte di Cornell è soprattutto questo: un enigmatico gioco di parole.
In
inglese spell indica tanto il modo di
scrivere una parola (compitare) quanto “l’incantesimo”.
Vista
la passione dell’artista per Houdini e le caratteristiche stesse delle sue
opere non è strano pensare che Cornell cerchi di creare piccoli capolavori
illusionistici in miniatura. Nell’estratto Levy lo chiama magician, proprio come la
giornalista Nancy Willard, in un’intervista all’assistente di Cornell (Harry
Roseman), lo definirà sorcerer.
Il
fascino dei suoi accostamenti, filtrati dal sentimento nostalgico della memoria,
apre il sipario di un mondo fantastico: i ritagli e gli oggetti sono più che
frammenti, vista la componente personale che li assembla.
Il
singolo viene rivalutato magicamente: non è solo un pezzo del puzzle, è una vera e propria fonte
mnemonica. In francese la fonte è “source”:
più che sorcerer, forse Cornell è un sourcier proprio come veniva definito il
poeta surrealista Paul Eluard. Il mondo è il serbatoio di quelle fonti trovate.
Ė
curioso che Lee Miller stessa si sia definita come un “puzzle imbevuto d’acqua, tanti pezzi sparsi che non si accordano né
per forma né per motivi”. E così sono le opere surrealiste: capolavori di
accumulo, dove i pezzi, che si assemblano danzando, sono guidati dalla magia:
l’opera finale parifica tutti gli elementi, inizialmente sparsi, ibridi e
caotici. Ma forse la soluzione all’enigma era già nell’anima di Nietzsche:
“bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi”.
Stranamente
la stella/star indica anche “la
diva”.
La memoria di Elizabeth Negli
anni Quaranta Cornell assembla un collage-omaggio
per Lee Miller: “later on, he would
incorporate her photograph into a collage, Portrait of Lee Miller (1948-49)” [20] .
L’opera
è composta da un ritratto fotografico della Miller sdoppiata in due figure
disposte di profilo: una in abiti femminili e l’altra in abiti maschili. Le due
sagome sono abbigliate in stile vittoriano, secondo il noto gusto di Cornell, e
riassemblate in un tondo che ricorda la ritrattistica dell’epoca ottocentesca.
L’immagine
sdoppiata potrebbe essere legata alla macchina di Lee Miller: la fotografa
utilizza una Rolleiflex a dodici pose
(Twelve) munita di due lenti
accostate. L’idea del doppio, naturalmente, si ricollega al potere del vetro e
degli specchi tanto amati dai due artisti. La forma della Rolleiflex, inoltre, è molto curiosa: sembra realmente una scatola
magica.
Il
collage composto da Cornell risponde
a quel gusto della citazione e dell’immagine trovata, mentre l’impostazione
delle figure, il tondo e la disposizione della composizione sembrano richiamare
un ritratto scattato dalla fotografa a Man Ray e Roland Penrose del 1946.
Lo
sfondo giallo è un’anomalia: in genere gli omaggi alle dive erano tinti di blu.
Il giallo, invece, adorna i Solar Sets,
le aviarie, Medici Boy e L’Egypte de Mlle Cléo de Mérode.
Sono
tutte scatole degli anni Quaranta (sempre che le datazioni di Cornell siano
reali), epoca in cui i due artisti hanno intrapreso strade diverse: Cornell
resta a New York per tutta la sua vita, mentre Lee Miller si trasferisce prima
in Egitto (1934) e poi a Londra (1940).
Credo
che il legame instaurato tra i due non sia svanito per la lontananza: la
collaborazione fittissima negli anni newyorkesi non può sparire nel nulla. Lo
dimostra il ritratto della fotografa realizzato da Cornell a più di dieci anni
dalla partenza dell’amica.
Gli
scatti di Lee Miller sono pubblicizzati sulle riviste di tutto il mondo: la
fotografa raggiunge l’apice della notorietà negli anni Quaranta. Cornell,
grande sourcier, avrà sicuramente
seguito le avventure dell’amica: forse è la vita che avrebbe voluto vivere se
non fosse stato così riservato.
Lee
Miller è sempre alla ricerca di nuovi stimoli: cambiare compagno e città è
diventata un’abitudine frequente in questi anni. Il soggiorno egiziano, però,
non si è rivelato un’esperienza gratificante: gli amici raccontano la tristezza
della fotografa nel deserto. Può avere tutto visto che è sposata con Aziz Eloui
Bey, ma gli scatti di quelle meraviglie africane sono attraversati da una
grande nostalgia per la New York dell’arte.
Basta
guardare il suo più noto capolavoro del 1937 Portrait of Space, Near Siwa che
“shows a very deep dimensional view of the desert plains through a ripped
screen. This photograph of the open
desert paradoxically creates a sense of claustrophobia, perhaps Miller’s own
feelings about Egypt” [21] .
Quello
strappo ha la stessa forma del veliero nel ritratto di Cornell: è una finestra
sulla distesa del deserto. Lee Miller porta lo spettatore in una situazione
claustrofobica: oltre quello strappo c’è un deserto vuoto e l’artista si chiude
nell’equivalente di una scatola. Il deserto è immortalato come una distesa
infinita: un mondo in cui si ha paura di andare, proprio come Cornell.
Sempre
nel 1937 Lee Miller realizza una serie di istantanee, vere indagini
sull’atmosfera metafisica delle architetture egiziane segnate dal tempo: le
strutture creano linee d’ombra immobili che disegnano forme geometriche
perfette sulla sabbia del deserto. I soggetti più frequenti sono i monasteri e
le piramidi, imponenti dimore di vuoto e silenzio. From
the Top of the Great Pyramid resta uno degli scatti più suggestivi dell’epoca.
Stranamente tre anni dopo Cornell compone Bel
Echo Gruyère, “box construction with inoperative toy bellows. The bellows is the sort of mooing contraption that
makes a cow noise when it’s turned upside down. This one is wrapped in foil and
placed inside a circular box” [23] . La scatola contiene un finto pezzo di formaggio a
forma di piramide: forse è un rimando alla foto di Lee Miller.
Resta
l’enigma del formaggio: c’est un hommage
au fromage. Nel 1932 Lee Miller, proprio per la sua passione per il
dettaglio, realizza uno dei suoi scatti più divertenti Rats Tails.
Il
topo, o meglio “ratto”, è legato ad un episodio curioso degli anni parigini:
sembra che la fotografa, chiusa nella camera oscura con Man Ray per lo sviluppo
dei negativi, avesse acceso improvvisamente la luce sentendo un ratto che le
camminava sui piedi. Ė l’evento casuale con cui Man Ray e Lee (ri) scoprono la
solarizzazione.
Tra
il 1936 e il 1940 Lee Miller torna spesso in Europa mitigando, con i soggiorni
parigini e londinesi, la depressione sofferta nel deserto egiziano. Nel 1940 si
trasferisce a Londra dove intraprende la carriera di fotogiornalista e comincia
a documentare al fronte gli orrori della Seconda Guerra Mondiale che vengono
raccolti in Grim Glory: Pictures of
Britain under Fire. Uno degli scatti più
affascinanti è Revenge on culture, realizzato
durante il blitz di Londra: “Miller photographed the image of a fallen,
Venus-like statue whose broken, upper torso is obscured by debris and seemingly
dismembered by a fallen power line that brutally marks the statue’s marble
skin”.
Lee
Miller aveva regalato a Cornell proprio una sua foto mentre interpretava una
statua greca ne Le sang d’un poète. Le
corrispondenze si infittiscono quando si nota che Cornell ha una passione
enorme per il balletto: l’artista dedica una serie di scatole alle principali
rappresentanti di questa forma artistica. Gli omaggi potrebbero essere anche un
ricordo dell’amica.
Lo scambio di “sguardi”, idee e visioni tra Lee Miller
e Cornell è più di un’amicizia newyorkese. Il rapporto tra i due artisti,
documentato nella biografia di Lee Miller, è rintracciabile nelle opere della
fotografa e del “cacciatore di immagini”.
Penso che il ruolo di Lee Miller nell’arte di Cornell
sia da approfondire sulla scia dell’idea che ha dato origine alla recente
mostra Angeli dell'Anarchia: l’esposizione, allestita alla Manchester
Art Gallery, mira a rivalutare l’influenza delle artiste donne sul Surrealismo.
Tra le protagoniste c’è anche Lee Miller.
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Lamberti e M.G. Messina, (Torino 2007-2008), Milano, 2007, pp.
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catalogo della mostra a cura di L. Roscoe Hartigan, (Salem, Washington 2006 –
2007), Salem, Washington, London 2006.
F. NADAR, Quand j’étais photographe, Manchester,
Ayer Publishing 1979².
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1985.
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London 2006.
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Boston 2004
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assistant to Joseph Cornell, “Michigan Quarterly Review”, Volume XXXVIII,
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K. WARE, Dreaming in black and white: photography at the Julien Levy Gallery,
Yale 2006.
NOTE
[2] C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph
Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005².
[5]
D. SOLOMON, Utopia Parkway: the life and work of Joseph Cornell,
Boston 2004, p. 71.
[8] D. SOLOMON 2004, p. 71-72.
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