Valore economico e
valore educativo dell’arte
Alle fiere di Bologna e
Milano quest’anno due opere di Alberto Burri d’occasione, un
Bianco e un Gobbo, aggiudicati per 1 milione e mezzo di
euro circa cada uno (1.400 mila il primo, 2 milioni il secondo).
Dieci di queste piccole e preziose opere valgono quanto tutti i
finanziamenti pubblici che lo Stato italiano stanzia alla cultura:
1.500 milioni circa per tutti i beni presenti, compresi di musei e
parchi dall’archeologico al contemporaneo, biblioteche, teatro e
cinema.
Sembrerebbe che l’arte viva sempre più di singoli estimatori
privati e sempre meno del vasto consenso delle istituzioni pubbliche.
In tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, la ridiscussione
del "valore" in arte diventa una nuova occasione di riflessione
sulle ricchezze, le oligarchie, le logiche capitalistiche,
globalizzanti e di profitto che ormai sempre meno tutelano la storia,
i beni, gli ideali identitari a cui la nostra arte e il nostro tempo
sono sottoposti. Lontani i tempi in cui, anche per rafforzare il loro
prestigio pubblico con atteggiamento disinteressato e lontano da
intenzioni speculative, pure in momenti bui come negli anni intorno
alla depressione economica americana del 1929, Andrew Mellon, i
Rockefeller, Gertrude Vanderbilt o Solomon Guggenheim, decidevano,
finanziando l’apertura di nuove cattedrali dell’arte e donando le
loro collezioni (spesso così riuscendo a lasciarle intatte,
tutelate, e facendole entrare nel mito del Nuovo Continente), di fare
grande il sistema culturale americano, contribuendo ad accrescere o
fondando musei come la National Gallery di Washington, il
Metropolitan, il Museum of Modern Art, il Whitney e il Guggenheim
Museum di New York. E, non ultimo, generando nella coscienza di molti
un alto e altro valore, quello educativo dell’arte, che ha reso
motori di armonia sociale e identità culturale molti musei americani
capaci di veicolare nel loro pubblico un forte senso di appartenenza
e riconoscimento culturale ad una storia di secoli e secoli più
giovane della nostra.
Nelle dichiarazioni alla
stampa, Christie’s Italia, a proposito del mercato delle opere
contemporanee per il 2011, parla di “un trend ancora più positivo
rispetto a quello registrato nel 2007” e anche Sotheby’s conferma
il ritorno delle aste da record. Positive anche le vendite di inizio
anno alle kermesse di Arte Fiera Bologna e, in questi giorni, di
MiArt Milano.
L’investimento di privati e pubblici verso i beni culturali
italiani è, invece, preoccupantemente in declino così come le
visite alle collezioni permanenti dei musei in favore delle mostre
che puntano al botteghino (attraverso operazioni mediatiche, con nomi
di artisti, movimenti o musei di richiamo, non sempre corrisposti poi
dalla selezione delle opere e con il prestito di pezzi a volte molto
delicati ma poco tutelati dagli spostamenti) più che alla qualità e
scientificità dell’esposizione. Esaltando, così, la funzione
dell’arte come bene simbolico di prestigio (status symbol) e di
bene fonte di utili, sovrautili, scambio. Il pericolo, già
sintetizzato da Germano Celant nel 2008, è che l’arte diventi
“un’entità metastorica, isolata, separata dal mondo, senza alcun
consenso o riconoscimento sociale, se non quello dei suoi adepti e
del mercato”, le cui conseguenze sono tanto “l’occultamento e
il dissolvimento della struttura rappresentativa e utopica dell’arte,
quanto l’entusiasmo e l’esaltarsi per una sua inefficacia e una
sua superficialità, causate dalla sua spettacolarizzazione che
comporta l’omogeneizzazione e la spersonalizzazione
dell’immaginario”.
Bisognerebbe riprendere
il dibattito, tra tradizione e innovazione, sul concetto di “valore”
nell’arte contemporanea, così bene analizzato da Angela Vettese
che, elencandoli, le riconosce i valori “emozionale”,
“decorativo”, “del bello”, “della tecnica”,
“dell’espressione individuale”, “come memoria collettiva”,
“dell’impegno etico”, “spirituale”, spiegando che “valore,
proprio come arte, è una parola alla quale non si può dare un
significato a priori”
se non contestualizzando, studiando, cercando risultati di
riferimento.
Gli esperti di economia
da anni ripetono che temi fondamentali su cui investire dovrebbero
essere: formazione continua (basilare nella cultura del lavoro che,
per una Repubblica costituzionalmente fondata sul lavoro, diventano
di necessaria priorità), sostenibilità ambientale, approccio
sistemico per l’incremento dell’accesso culturale (come
evidenziato dalla Comunità Europea nello stanziamento dei fondi di
coesione 2014-2020). L’Italia, però, arranca. Sono considerati
Paesi emergenti quelli che dimostrano sviluppo culturale (ma il
Metropolitan di New York incassa il quintuplo di Pompei), capacità
di tutela (però il consumo di suolo ambientale è, secondo Italia
Nostra, solo nel 2010 al 7%), capacità d’impresa (secondo la
World Tourism Organisation sembra che l’Italia fosse la meta più
visitata dai turisti nel 1970 tracollando poi al 5° posto nel
quinquennio 2005-2010), trasparenza e basso tasso di corruzione
(l’Italia è tristissimamente al 67° posto dietro Arabia Saudita,
Kuwait, Turchia, Tunisia, Ghana, Ruanda e continua a precipitare
secondo i dati del Corruption Perceptions Index elaborato nel 2010,
con le opinioni di organismi come la Banca Mondiale e il World
Economic Forum).
Pier Luigi Sacco,
professore di Economia culturale presso la Facoltà di Arti, mercati
e patrimoni della cultura alla Iulm di Milano ha recentemente aperto
la sessione teorica della manifestazione Education Lab,
sottolineando come sia importante investire in “economia della
felicità” aumentando attraverso l’educazione l’accesso
culturale ai musei, teatri, cinema, biblioteche, investendo sulle
capacità personali di crescita e sul “sistema epidemico” per la
diffusione di tale benessere creativo e innovativo generato
dall’arte. Il problema però rimane il mancato riconoscimento e
investimento da parte delle istituzioni pubbliche su queste
impeccabili tesi che, fino a quando rimangano appannaggio di scuole o
università private, piuttosto che di élites culturali, inceppano il
sistema epidemico che difficilmente raggiungerà tutti. E peccato,
anche, che il personale non si riesca a rendere specializzato (come
tenta di fare Icom, International Council of Museums dal 2005,
attraverso l’approvazione di una Carta delle professione museali)
con dei requisiti precisi richiesti agli addetti ai lavori. E
peccato, poi, che al perseguimento di una formazione scientifica non
si riesca ad affiancare una preparazione di “bottega”
specializzante, basilare per il personale dei musei, senza dovere
pagare cifre da capogiro a costosissimi master. E, ultimo peccato,
che non si riconosca che le esternalizzazioni a servizi aggiuntivi,
che includono pure i Servizi Educativi, molto spesso non solo
abbassano il fatturato nazionale in favore di concessionari privati
ma, soprattutto, generano collaborazioni occasionali e non creano
capitale umano permanente all’interno dei musei.
Bisognerebbe quindi
ripensare il “valore economico” da investire nel “valore
educativo” dell’arte, perché l’arte diventi davvero foriera di
felicità epidemica, cultura, consapevolezza e generi un sitema
positivo, sano, fruttuoso nella sinergia tra pubblico e privato,
collezionisti, gallerie, fondazioni, musei e beni culturali tutti.
Buone pratiche di alto
valore
Cito tre esempi, a mio
parere virtuosi, pensati in Sicilia tra il 2010 e il 2011, di cui ho
seguito (o nella parte progettuale e attiva o come spettatrice) la
realizzazione, valutando gli elementi di efficacia e di criticità in
termini di: educazione al patrimonio, formazione individuale e
professionale, stretto legame con il territorio.
La formazione della
comunità locale promossa dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina
(Trapani)
Ai giovani laureandi o
laureati in discipline storico artistiche, abitanti nella Valle del
Belìce, sono state offerte dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina
tre cicli da tre giorni ciascuno di studio, teorico e pratico, di
educazione e comunicazione del patrimonio, presso: gli spazi del
Baglio di Stefano (sede della Fondazione che ospita la più
importante e storica collezione d’arte contemporanea dell’isola e
il Museo delle Trame Mediterranee); le strade e le piazze dove sono
collocate le opere en plein air della città; alcuni siti rilevanti
delle città limitrofe, in sinergia con Legambiente e la neonata rete
dei musei belicini; l’Istituto Comprensivo Papa
Giovanni XXIII, unica scuola presente nel territorio di Gibellina.
L'intento del workshop è stato quello di continuare a formare
all'arte quei giovani che sono cresciuti ispirati proprio dall'arte
di questi luoghi, nel tentativo di superare il trauma del terremoto e
gli anni difficili della ricostruzione che avevano sconvolto la
precedente generazione, promuovendo la conoscenza e la promozione del
posto, cercando sempre nuove possibilità di ristabilire un legame
con la comunità locale come risorsa indispensabile per un museo
presidio attivo sul territorio a cui appartiene. Si è cercato, così,
di rinnovare il progetto ideale e utopico con cui Gibellina, grazie
alla guida di Ludovico Corrao, era stata pensata dai più importanti
artisti del panorama internazionale della seconda metà del Novecento
(Consagra, Schifano, Burri, Melotti, Beyus per dirne cinque) in
collaborazione con gli abitanti della città che, per le occasioni
delle Orestiadi teatro e della costruzione delle opere, diventavano
attori, comparse, artigiani.
Il risultato delle tre
edizioni del workshop è stata la selezione di tre giovani (di
Gibellina, Santa Ninfa e Alcamo), oggi coinvolti e remunerati, che
collaborano assiduamente con la Fondazione Orestiadi nella
realizzazione di visite guidate e laboratori per le scuole, seguono
le attività di segreteria organizzativa e promozione dell’attività
educativa e della rete dei musei belicini, hanno istaurato proficui
rapporti con l’Istituto Comprensivo che ha aderito, interamente,
dalla prima elementare alla terza media, all’offerta proposta dalla
Fondazione permettendo a tutti i bambini di Gibellina di visitare
consapevolmente e con un adeguato accompagnamento, almeno una volta,
il patrimonio pubblico di questa città di cui per tanti anni erano
stati eredi spesso inconsapevoli.
L’educazione
all’arte per tutti alla Fondazione Puglisi Cosentino di Catania
In occasione della mostra
Accardi. Segno e trasparenza e Licini, Melotti, Novelli.
Segni come sogni, la Sezione didattica della Fondazione Puglisi
Cosentino, raccogliendo le numerose sollecitazioni offerte dalle
mostre: sul sovvertimento delle categorie tradizionali, sulla libertà
d’espressione raggiunta dall’arte contemporanea, sulle
caratteristiche della tecnica, sulle fonti d’ispirazione, per
avvicinare i diversi pubblici, di differente età e provenienza,
oltre alla tradizionale offerta per gruppi scuola e università ha
strutturato per il pubblico generico un appuntamento fisso, i Venerdì
da artista, ogni venerdì e sabato, con un programma articolato e
con la partecipazione di selezionati operatori esterni affermati nel
mondo dell’illustrazione, del teatro, del libro d’artista, della
scrittura, della musica. Per coinvolgere tutti, da 1 a 99 anni, nella
sperimentazione dell’arte: bambini, adulti, bambini e adulti
insieme. Definitivamente abbandonato lo stereotipo che relegava i
musei a luoghi per élites di ricchi studiosi o di cose antiche e
morte, gli spazi in cui sono conservate ed esposte le opere d’arte
diventano vivi e accessibili a tutti, secondo un progetto di
museoterapia (intesa non solo per pubblici speciali, affetti da
particolari malattie, aiutati da cure complementari rispetto a quelle
tradizionali, ma per l'intera società che, anche secondo gli ultimi
studi delle neuroscienze, attraverso la pratica del museo e
dell’arte, diventerebbe più serena, coperativa, responsabile,
intelligente). Vincendo, tra le altre, la scommessa di portare al
museo, ed iniziare all’arte, i bambini di un anno, grazie ai
laboratori di musicoterapia (profittando della scultura sonora di
Carla Accardi e Gianna Nannini, per continuare la relazione tra
musica e arte astratta attraverso laboraroti pratici, di suono e
colore, sostenendo quegli studi che provano che ascoltare musica,
imparare a suonare uno strumento o a cantare una canzone, abbia
un’influenza importante sullo sviluppo sensitivo e cognitivo dei
bambini e dei ragazzi e potrebbe anche costituire un buon sistema per
curare persone con disturbi del linguaggio come i dislessici o
addirittura gli autistici che hanno a che fare sia con il con il
sistema nervoso sensitivo che con i più alti centri cognitivi del
cervello).
Il valore etico e
civile della bellezza promosso dalla Fondazione Fiumara d’Arte con
sede a Castel di Tusa (Messina) e progetti nel quartiere Oreto
(Palermo) e Librino (Catania)
La Fondazione Antonio
Presti – Fiumara d’Arte, dopo lunghi anni di collaborazione con
le scuole di Librino e il progetto dello scorso anno di costituzione
della Porta della Bellezza (ceramiche e poesie sul cemento di
un lungo ponte che attraversa il quartiere), ha in corso di
realizzazione un museo a cielo aperto nel quartiere, tra i più
periferici e disagiati di Catania. Installazioni fotografiche e
proiezioni video saranno la nuova immagine di almeno cento facciate
di numerosi palazzi. La Fondazione, ricevuta autorizzazione dai vari
condomini per potere installare le strutture metalliche pertinenti
per poter accogliere il lavoro artistico, ha contattato per il
progetto Terzocchio-Meridiani di Luce il fotografo e reporter
iraniano Reza che sta offrendo, proprio in questi mesi, la sua
esperienza ai cittadini di Librino e di Catania, lavorando fianco a
fianco con grandi e bambini, cercando di cogliere l’anima dei
cittadini, la loro identità, la loro unicità.
Noto per avere
fotografato i luoghi più esotici del pianeta, Reza Deghati (che da
sempre si firma solo Reza) ha realizzato reportage in ogni parte del
mondo per National Geographic, per l'agenzia France Press,
Newsweek e Time. Consulente nel programma per
l'Afghanistan delle Nazioni Unite, nel 1996 vince il premio Hope per
il suo impegno a favore dei rifugiati ruandesi avviando, con UNICEF,
Lost Children Portrait (foto realizzate in Ruanda di 12000
bambini dispersi, affisse in 5 campi per rifugiati, che hanno
permesso a 3500 di loro di ritrovare i genitori).
A Librino per ritrovare
altri bambini, da coinvolgere all’arte della fotografia, sono stati
chiamati diversi artisti visuali siciliani che hanno partecipato ai
laboratori sperimentali di Reza. Una settimana di workshop per i
fotografi e, a seguire, per i 100 ragazzi selezionati dalla
Fondazione, di età compresa tra i 13 e i 17 anni (70 di Librino, 30
dal resto della città). Ognuno di loro ha fornito un elenco di
persone, “La mia terra, la mia famiglia”, tra amici, parenti,
conoscenti, innescando un portentoso circolo virtuoso di
partecipazione condivisa: Reza ha lavorato fianco a fianco con i
fotografi siciliani che, a loro volta, hanno insegnato ai bambini
nozioni e tecniche grazie alle quali ognuno di loro racconterà
fotograficamente le persone scelte. L’opera fotografica mira a
diventare il mezzo per poter costruire insieme un percorso di ricerca
artistica e, al tempo stesso, una rete sociale e civile. Ogni
fotografo collabora con 4/5 bambini che lo accompagnano nei luoghi in
cui fotografare le persone scelte (circa 300) e 20 tutor vigilano il
percorso didattico e artistico, mediando soprattutto il rapporto
fiduciario con le famiglie. I 100 ragazzi creano così una rete di
persone a cui comunicare il valore etico e civile della bellezza di
ciascuno dei fotograti. La stessa bellezza che verrà restituita alla
città l’anno prossimo attraverso le installazioni multimediali
all’aperto e la costituzione del primo museo a cielo aperto di
fotografia che, in questo modo, non vuole manifestarsi solo per un
valore estetico, né tanto meno per un valore strettamente economico
(di cui certamente si spera possa beneficiare il quartiere in termini
di ricaduta sulle attività e impatto ambientale), ma trova nella
ideale condivisione dell’arte il suo primo e grande valore.
NOTE
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