A
Rossella
«Le
cose hanno vita propria -
proclamava lo zingaro con aspro accento-
si tratta soltanto di risvegliargli
l'anima" [3]
Cien
años de soledad: il teatro della magia
Gabriel
García Márquez ha regalato agli instancabili sognatori un paradiso perduto, un
posto in cui tutto è al di fuori del tempo e dello spazio, con regole proprie e
tanta fantasia, Macondo. Il villaggio in cui è ambientato il romanzo Cent'anni
di solitudine rappresenta il mondo ideale per gli amanti del realismo
magico, degli incantesimi e delle saghe con accesa vena surrealista.
La
trama si sviluppa intorno alla famiglia Buendía in una circolarità congelata di
eventi che mischia tradizione e allucinazione. Il microcosmo arcano della storia
si tinge di ombre e chiaroveggenza, vera traduttrice tra vivi e morti, un ponte
tra la realtà e il sogno. L'atmosfera volutamente cupa e solitaria rappresenta
la drammaticità del messaggio di fondo che emerge senza sminuire il fascino
della fantasia dell'autore.
Lo
stile, apparentemente semplice, si scontra con la complessità della mole di
personaggi che appaiono e scompaiono, ritornano confondendosi tra la vita e la
morte. L'avventura procede per generazioni, un misto tra albero genealogico e
girone infernale, pioggia pungente di nomi in paratassi che si accumulano e si
annodano in un groviglio di relazioni che costituisce la matassa della famiglia
Buendía.
L'ingresso
degli zingari a Macondo è l'esotico che raggiunge l'assurdo in una terra
d'altri tempi: i prestigiatori dell'illusione e gli alchimisti delle pozioni
sono le pedine che scandiscono i cambiamenti, portano nuove invenzioni,
conoscono i segreti degli eventi e mobilitano la realtà magica della città. I
gitani, arrivati per vendere palle di vetro per il mal di testa, vengono
guidati dal «canto degli uccelli» [4] fino alle sperdute paludi di Macondo
portando la propria cultura e tradizione, ma soprattutto le proprie
superstizioni. Con il loro arrivo la città si riempie di chincaglierie, sfere
magiche, oggetti da sciamani, musica e colori che riportano alla mente immagini
limpide che richiamano vene artistiche novecentesche.
L'arte
e la letteratura del secolo scorso si sono mischiate, scambiate mezzi e
registri tanto da confondersi l'una con l'altra alla ricerca di una via
espressiva che rispecchiasse la percezione degli artisti tra condizione del
presente e infinite possibilità del pensiero nella nuova consapevolezza del
potere della mente.
García
Márquez crea un mondo fantastico in cui ricuce la tradizione delle favole
narrate dalla nonna allo spiccato gusto per le cose, per l'osservazione,
rievocando ritagli del sogno e della vita in un mosaico da Nobel.
Il
suo realismo magico si differenzia da quello di Bontempelli: «Bontempelli era
teso da una straordinaria intelligenza pura, altrettanto lo scrittore
colombiano è affascinato dai colori della realtà, dal suono di voci antiche che
non hanno mai smesso di inseguirlo».
Quel mondo esotico si avvicina incredibilmente ad una lezione di vita.
La
malattia dell'insonnia
Uno
dei pezzi più affascinanti del romanzo riguarda Rebeca, una bambina indigena
undicenne arrivata «da Manaure con dei commercianti di pellame che avevano
avuto l'incarico di consegnarla insieme a una lettera nella casa di José
Arcadio Buendìa, ma che non poterono spiegare con precisione chi era la persona
che aveva chiesto loro il favore. Tutto il suo bagaglio era composto dal
bauletto della roba, da una poltroncina a dondolo di legno con fiorellini
colorati dipinti a mano e da un sacco di tela che faceva un continuo rumore di
cloc cloc cloc, dove portava le ossa dei suoi genitori».
La bambina, affidata alle cure
dei Buendìa, si presenta con un kit da viaggio a dir poco inquietante. Una
notte viene sorpresa con gli occhi aperti e luminosi, come quelli di un gatto:
«Visitación riconobbe in quegli occhi i sintomi della
malattia la cui minaccia li aveva costretti, lei e suo fratello, esuli per
sempre da un regno millenario del quale essi erano i principi. Era la peste
dell'insonnia».
La
malattia di Rebeca è un potere mistico che ben presto contagia l'intera Macondo
donando a tutti gli abitanti doti magiche: «In quello stato di allucinata
lucidità non soltanto vedevano le immagini dei loro stessi sogni, ma vedevano
perfino gli uni le immagini sognate dagli altri. Era come se la casa si fosse
riempita di visitatori».
Gli abitanti vivono in eterno sogno, il proprio e quello degli altri, tra
immagini oniriche che si toccano, si incontrano, come tante anime in un girone
infernale. Il sogno collettivo è un incubo di ologrammi che sembrano reali, il
«sonno della ragione genera i mostri».
Le
stanze di Macondo, come i cassetti e gli scomparti della mente, si popolano di
ritornanti dechirichiani, un'immagine che ricorda le sovrapposizioni fotografiche
di Duane Michals in House I once called Home.
Il
potere della malattia è un prodigio che richiama il misticismo di Magrelli:
«Cercavo, cioè un'interpretazione capace di collocare un difetto fisico, una
patologia, all'interno di un quadro più ampio: la commistione di malattia e
visione, la ricchezza percettiva prodotta da una mancanza».
I
contagiati sembrano sonnambuli dell'arte, flâneurs che camminano tra gli
strati onirici, confondendo realtà e fantasia. Sono gli «uomini della folla»
alla Poe, i Dalì che scavalcano gli orologi deformati abbandonati nelle terre
desolate, i Nerval a spasso con un'aragosta al guinzaglio, i De Chirico
solitari in città vuote, i Cornell che dimorano in hotel immaginari,
i Baruch che
sognano sempre anche quando non sono in requiem.
Questo
stato di totale allucinazione, nel romanzo, ha le sue controindicazioni: «La
cosa più temibile della malattia dell'insonnia non era l'impossibilità di
dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile
evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria.
Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia,
cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell'infanzia, poi il
nome e la nozione delle cose, e infine l'identità delle persone e perfino la
coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza
passato».
Mnemotecniche
didascaliche
Macondo
si abitua ben presto a questo stato di allucinazione dichiarando lo stato di
emergenza e dotando i visitatori di una campanella che avvisi i malati della
presenza di persone sane. La perdita della memoria causa non pochi problemi
alla vita degli abitanti spiazzati nelle loro abitudini e nei rapporti
personali.
«Fu
Aureliano che concepì la formula che li avrebbe difesi per parecchi mesi dalle
evasioni della memoria. La scoprì per caso. Insonne esperto, per esserlo stato
tra i primi, aveva imparato a perfezionare l'arte dell'oreficeria. Un giorno
stava cercando la piccola incudine di cui si serviva per laminare i metalli, e
non si ricordò del suo nome. Suo padre gliela disse: 'tasso'. Aureliano scrisse
il nome su un pezzo di carta che appiccicò con la colla sul piede
dell'incudine: tasso. Così fu sicuro di non dimenticarlo in futuro. Non
gli venne in mente che quella poteva essere la prima manifestazione della
perdita della memoria, perché l'oggetto aveva un nome difficile da ricordare.
Ma pochi giorni dopo scoprì che faceva fatica a ricordarsi di quasi tutte le
cose del laboratorio. Allora le segnò col nome rispettivo, di modo che gli
bastava leggere l'iscrizione per riconoscerle. Quando suo padre gli rivelò la
sua preoccupazione per essersi dimenticato perfino dei fatti più impressionanti
della sua infanzia, Aureliano gli spiegò il suo metodo, e José Arcadio Buendìa
lo mise in pratica in tutta la casa e tardi lo impose a tutto il paese. Con uno
stecco inchiostrato segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio,
porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le
piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca, malanga, banano».
Il
rimedio non è altro che la trascrizione del nome, l'identificazione tra parole
ed oggetto, una specie di didascalia che il contemporaneo ha stravolto e
trasformato in forma d'arte: si pensi a Michals, Magritte, a Jonathan in Ogni
cosa è illuminata.
«A
poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che
poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro
iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l'utilità. Allora fu più esplicito.
Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo
in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della
memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che
produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare
il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa,
momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio
quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte?.
La
pratica richiede grande attenzione e molti degli abitanti di Macondo
preferiscono vivere nella realtà sognante inventata da loro stessi.
Alcuni si dedicano persino alla chiromanzia onirica «ideando l'artificio di
leggere il passato nelle carte come prima aveva letto il futuro. Mediante
questo trucco, gli insonni cominciarono a vivere in un mondo costruito dalle
alternative incerte delle carte, dove il padre non era ricordato che come
l'uomo bruno arrivato verso i primi di aprile e la madre era ricordata soltanto
come la donna abbronzata che aveva un anello d'oro sulla mano sinistra, e dove
una data di nascita veniva ridotta all'ultimo martedì in cui aveva cantato
l'allodola sul lauro».
Il
sogno ha contagiato gli strati profondi della mente immobilizzando ogni cosa in
una ragnatela di immagini (quasi si trattasse di una Shadow Box
cornelliana) o in un'opera surrealista allestita come un teatro dechirichiano.
La riflessione dell'autore sull'importanza della memoria è profonda: tutta la sua scrittura parte dal ricordo di favole d'infanzia, ma si arricchisce
dell'osservazione della realtà generando strappi di eternità come succede nelle
scatole cornelliane. «A differenza di quelli che noi chiamiamo, con
formula di comodo, scrittori della memoria, García Márquez non si rinchiude nel
passato, non fa soltanto un ritorno alle origini come per esempio fece, in un
libro memorabile, Alain-Fournier, ma conforta il patrimonio nuovo, ciò che ha
accumulato e poi ricomposto, con quanto aveva sentito in quel tempo perduto. È
allora che fissa dei caratteri eterni, rivede il meccanismo delle passioni,
mette a nudo le colpe e le virtù degli uomini ma senza barriere moralistiche:
lo fa liberamente mentre per conto suo aggiunge quella grazia poetica che
consente l'ultima trasformazione all'insegna del magico».
L'unica
soluzione per risolvere il problema mnemonico di Macondo sembra quella di
realizzare un marchingegno che permetta di avere a disposizione la vita stessa,
raccolta e trascritta, come una macchina della conoscenza, una Chimera,
un set o un kit, un Cours élémentaire d'Histoire Naturelle.
«Sconfitto
da quelle pratiche consolatorie, José Arcadia Buendìa decise allora di
costruire la macchina della memoria che una volta aveva desiderato per
ricordarsi delle meravigliose invenzioni degli zingari. Il marchingegno si
basava sulla possibilità di ripassare tutte le mattine, e dal principio alla
fine, la totalità delle nozioni acquisite nel corso della vita. La immaginava
come un dizionario girevole che un individuo situato al centro potesse
manovrare mediante una manovella, in modo che in poche ore passassero davanti
ai suoi occhi le nozioni più necessarie per vivere. Era riuscito a scrivere
circa quattordicimila schede».
La
macchina delle meraviglie è un gioco a metà tra i visori ottocenteschi
dell'epoca vittoriana che simulano il movimento cinematografico e lo
schedario-archivio cornelliano. L'artista newyorkese Joseph Cornell
sarebbe affascinato da questo mondo di chincaglierie. Basti pensare alla sua
passione per la cultura gitana in Fortune Telling Parrot (Parrot Music Box)
del 1937-1938: «Fortune Telling Parrot offers many associations
with exotic travels. First, the box construction itself resembles the apparatus of a hurdy-gurdy,
invoking the bohemian world of the traveling gypsy musician. The crank on the
right exterior of the construction turns a broken music box, hidden in the
lower-right corner of the sculpture. The music box in turn is attached by a
thin rod to the cylinder above it, which is intended to revolve while music
plays».
The Shadowboxer
I rimedi umani sono
poca cosa di fronte ad una malattia del sogno che distrugge la memoria. La luce
della speranza è portata da uno straniero, un «commesso viaggiatore» di stampo
cornelliano armato di boîte-en-valise:
«Aprì la valigia zeppa di oggetti indecifrabili, e tra quelli prese una
valigetta con parecchi flaconi. Diede da bere a José Arcadio Buendìa una
sostanza di colore gradevole, e la luce si fece nella sua memoria. Gli occhi
gli si inumidirono di pianto, prima di vedere se stesso in un salotto assurdo
dove gli oggetti erano etichettati, e prima di vergognarsi delle solenni
baggianate scritte sulle pareti, e prima di riconoscere il nuovo venuto in un
abbagliante fulgore di gioia. Era Melquíades».
L'uomo è la
personalità di spicco della comunità zingara, un viaggiatore che ha l'aria di
uno spettro: «Lo zingaro sembrava corrotto da una malattia tenace. Era, in
effetti, il risultato di molteplici e rare malattie contratte nei suoi
innumerevoli viaggi intorno al mondo. Secondo quanto lui stesso raccontò a José
Arcadio Buendìa mentre lo aiutava a montare il laboratorio, la morte lo seguiva
dovunque, annusandogli i pantaloni, ma senza decidersi a dargli l'unghiata finale.
Era uno scampato da quante piaghe e catastrofi avevano flagellato il genere
umano. Era sopravvissuto alla pellagra in Persia, allo scorbuto nell'arcipelago
della Malesia, alla lebbra ad Alessandria, al beriberi in Giappone, alla peste
bubbonica nel Madagascar, al terremoto di Sicilia e a un naufragio di massa
nello stretto di Magellano» [29] .
Il gitano è una
figura centrale nel romanzo, un deus ex machina che porta a Macondo
invenzioni, scoperte, magia, la profezia
sul villaggio e tante chincaglierie da prestigiatori. «Quell'essere prodigioso
che diceva di possedere le chiavi di Nostradamus, era un uomo lugubre, permeato
di un'aura triste, con uno sguardo asiatico che sembrava conoscere l'altro lato
delle cose. Portava un cappello grande e nero, come le ali spiegate di un
corvo, e un panciotto di velluto patinato dalla borraccina dei secoli. Ma
nonostante la sua immensa sapienza e il suo ambito misterioso, aveva un peso
umano, una condizione terrestre che lo manteneva imbrigliato ai minuscoli
problemi della vita quotidiana. Si lamentava di malanni senili, soffriva per i
più insignificanti contrattempi economici e aveva smesso di ridere da parecchio
tempo, perché lo scorbuto gli aveva strappato i denti» [31] .
Il suo «peso umano»
lo avvicina alla realtà delle cose: «Le cose hanno vita propria -proclamava lo
zingaro con aspro accento- si tratta soltanto di risvegliargli l'anima» [32] .
Il profeta del
romanzo è uno spettro così attaccato alla vita da vincere la solitudine della
morte per tornare a Macondo: «Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio.
Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto
sopportare la solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà
soprannaturale come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi
in quell'angolo del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla
gestione di un laboratorio di dagherrotipia».
Melquíades è uno Shadowboxer [34] , un uomo delle ombre, tra la
vita e la morte, la realtà e il sogno, depositario di una scienza occulta che
fonde l'onirico e il desiderio in una pozione unica. La scelta della
dagherrotipia si sposa perfettamente con le caratteristiche del personaggio: la
fotografia è il regno dello spettro della luce che sottrae i soggetti al tempo immortalandoli
su lastra. «Secondo Barthes [35] , la fotografia, in quanto
immagine fissata dalla luce, corrisponde a uno spectrum, rivelandosi cioè capace di coniugare lo spettacolo
(spectrum da spectaculum) allo spettro come ritorno del morto, e bloccando
così l'oggetto in una condizione di catastrofe» [36] .
Il gitano dedicherà molto tempo a fotografare Macondo fino
alla pazzia di José Arcadio «che aveva deciso di utilizzarlo per
ottenere la prova scientifica dell'esistenza di Dio. Mediante un complicato
processo di esposizioni sovra-esposte prese in diversi luoghi della casa, era
sicuro di fare prima o poi il dagherrotipo di Dio, se esisteva, o di porre fine
una volta per sempre all'ipotesi della sua esistenza».
Melquíades
è il mago di Cent'anni di solitudine che dedica le sue giornate ad
approfondire le interpretazioni di Nostradamus fino a predire il futuro di
Macondo: «Rimaneva fino a molto tardi, asfissiando nel suo scolorito panciotto
di velluto, a scarabocchiare carte con le sue minuscole mani di passero, su cui
gli anelli avevano perduto il luccichio di un tempo. Una notte credette di aver
trovato una predizione sul futuro di Macondo. Sarebbe diventata una città
luminosa, con grandi case di vetro, dove non restava traccia alcuna della
stirpe dei Buendìa. 'È uno sbaglio', tuonò José Arcadio Buendìa. 'Non saranno
case di vetro ma di ghiaccio, come ho sognato io, e ci sarà sempre un Buendìa,
per i secoli dei secoli' ». La profezia del gitano
riguarda una città di luce, una visione scritta con la luce, letteralmente foto-grafata e priva di Buendìa, immortalata e sottratta tanto
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