Premessa
Il
presente contributo vuole essere uno strumento introduttivo per accostare all’Archeologia
antica un frammento di storia locale inciso su pietra. Gli avvicendamenti riguardanti
l’antica città campana di Eboli (Salerno), nella quale è protagonista il tema
di questo scritto, possono essere facilmente ripercorribili attraverso
innumerevoli materiali documentari, manoscritti, e uomini illustri che nel
corso dei secoli hanno gettato fiumi di inchiostro per non tralasciare
nell’oblio la storia di questo luogo. Da Roberto il Guiscardo agli Aragonesi,
da Pietro da Eboli a Matteo Ripa, per poi conquistare anche Carlo Levi, Eboli si
è collocata sempre al centro della Storia, in quanto partecipe e protagonista
di essa. Particolarmente caratterizzanti risultano, inoltre, i cospicui
materiali archeologici che fanno capo alla documentazione storica della Eboli
più remota: oggetti fittili, suppellettili preziosi, gioielli e frammenti di
vite quotidiane, rinvenuti nei più disparati contesti tombali del territorio,
si accostano l’uno all’altro nei supporti espositivi al neon del Museo Archeologico
cittadino per descrivere all’occhio attento dello studioso, ma anche all’ultimo ebolitano, figlio di
questa terra onorata, un “punto di partenza”, una lucida crono-storia dalle
epoche più antiche sino alla tarda romanità, attraverso un repertorio di
oggetti che racchiudono un resoconto antichissimo, ma pur sempre tangibile,
fatto di secoli, grandi uomini e culture che la memoria scritta non ha mai
dimenticati. Lungi dall’esporre al lettore risultati particolarmente dettagliati
a riguardo, lo scopo di chi scrive in questo ambito non sarà quello di presentare
il completo status quaestionis della
civiltà nell’antica Eburum/Eboli. Sarebbe
come fare un pretenzioso torto alla storiografia che in passato ha già dato
alle stampe esaustivi contributi in merito. L’attenzione di questo saggio si
rivolgerà invece, nello specifico, ad una fondamentale testimonianza su pietra
concernente la parentesi dell’antico potere politico ebolitano che, tutt’oggi come
allora, rappresenta il simbolo solenne della Eburum di età romana all’ombra della municipalità, nonché un
attuale vessillo di orgoglio e identità storica per la moderna popolazione
ebolitana. L’oggetto archeologico in questione rappresenta, ad litteram, una pietra ‘parlante’; un
valido lasciapassare per introdurre lo studioso nella Eburum di secondo secolo in rapporto con la capitale dell’Impero.
Trattasi di un antico cippo onorario, e testualmente commemorativo, meglio
conosciuto dagli storici nel salernitano come “Stele Eburina”. Tale documento
lapideo rappresenta il sottile filo rosso che lega alla Storia di Roma l’antico
e scarsamente noto Municipium Eburinorum.
Sarà attenzione di chi scrive rivendicare a tale reperto, seppur nella
limitazione di un contributo riduttivo, una sommaria ricerca scientifica in cui
esporre il tracciato conoscitivo circa i contesti storici in cui inquadrare la
Stele e i suoi relativi contenuti, ma soprattutto promuovere per tale memoria
lapidea un appropriato valore capace di coinvolgere, nella direzione dello
studio archeologico e più propriamente epigrafico, le generazioni future e
quanti, come il sottoscritto, hanno il compito morale di diffondere e
trasmettere alla posterità frammenti della propria storia antica.
Eburum: sulla
scia dei ‘municipia’ romani.
La
tematica archeologica qui affrontata, rimanda il lettore nella politica romana
sul tramonto del potere di Commodo. Proprio con questo imperatore che il Senato
romano, considerando troppo labile e gravosa una diarchia politica tra sé e
l’imperatore, adottò nuove disposizioni sul decentramento del potere in modo da
garantire una maggiore autonomia alle classi emergenti nella questione del
comando locale. Tra i principali cambiamenti che riguardano il periodo in
questo ambito, vi è il Principato
adottivo (96-193 d.C.), mediante il quale l’elezione al potere non veniva
garantita per discendenza, bensì tramite un’equa meritocrazia, e quindi spettante
all’uomo degno di tale onore ( Il primo ad inaugurare la prassi fu l’imperatore
Nerva). Successivamente, fu con la morte di Marco Aurelio (161-180 d.C.) che il
principio dell’adozione del migliore non venne più accettata. Difatti al “Re
filosofo” successe, nuovamente per discendenza, il figlio Commodo (180-182
d.C.) all’età di diciannove anni. Sostenendosi alle corti pretorie, e al loro
prefetto, il promettente imperatore introdusse varie riforme innovative come ad
esempio conferire i comandi degli eserciti ad equites nominati col titolo di praefecti,
progettando di lì a poco un vasto “Impero militare” contro la borghesia e le
classi aristocratiche emergenti. Fu poi da una congiura scoperta e repressa in
data 182 d.C., guidata da alcuni uomini della nobilitas tra cui primeggiava Ummidio Quadrato, che tale monarchia
si preannunciò sempre più severa e rigidamente teocratica, tanto da imporre
all’imperatore il titolo di “Hercules
Romanus”. Di Commodo basterà qui evidenziare, al di là dei vari e più
complessi avvicendamenti, una grande
inclinazione verso la difesa delle frontiere e una particolare determinatezza
sul funzionamento amministrativo nelle colonie.
In età repubblicana, poi, con l’abolizione del consolato e della politica
classistica, predominerà l’adozione del
potere nelle mani del ceto senatorio, dove l’imperatore è configurato in veste
di princeps. È qui che esso rappresenta
il primus inter pares, venendogli affidata una sorta di carica
presidenziale, rimase comunque il depositario dell’auctoritas. Esso è l’augur,
o meglio l’”Augusto” che gode a vita della tribunicia
potestas (rappresentanza di tutto il corpo della cittadinanza romana). Ma il
governo effettivo, fu comunque amministrato prettamente dalla cerchia senatoria.
Per quanto concerne, invece, l’amministrazione di Eburum
in età imperiale, si cercherà, nelle prossime righe, di delineare le maggiori
figure che fanno capo al potere di tale colonia latina: comparivano nell’organigramma
politico eburino non più i consoli,
ma solo i pretori, oltre ai
magistrati che dirigevano le colonie. Il “municipio” circoscriveva sia il
centro urbano che i quartieri periferici e quindi anche i villaggi limitrofi dipendenti.
In questo vasto contesto territoriale, all’ombra dell’Urbe romana, figuravano ben
tre tipologie di classi sociali: i decurioni,
quasi ascrivibili ad un ordine senatorio e costituito dalla più fiorente
nobiltà, formata da ricchi capitalisti ed aristocratici inseritisi nella sfera
politica; quella degli augustali, era
la classe intermedia costituita dai cavalieri che, per ragioni varie e quasi
sempre collegabili alla carriera militare, si posizionavano in una classe
privilegiata aspirante alla c.d. “scalata sociale”; infine vi era la plebe, ossia la parte residua, che costituiva
l’ampia mole della popolazione. Nei municipi romani l’elezione dei magistrati,
anche se di carattere ‘liberale’, spettante quindi all’assemblea dei cittadini,
era saldamente ancorata al comando supremo, quindi tra le mani del senato
locale, in genere costituito da un centinaio di membri del potere giunti al venticinquesimo
anno d’età. Vi è da evidenziare, inoltre, che dal II sec. d.C. in poi
l’autonomia municipale si rafforza proprio a scapito della popolazione: la
figura del decurione venne imposta
nelle colonie, ed essa comportava degli
obblighi gravosi, come ad esempio versare grossi contributi in denaro per la
realizzazione di feste e/o opere pubbliche. Lo Stato, in seguito, intervenne
nelle colonie latine con l’inserimento di appositi curatores,
ossia ispettori dei conti, con lo scopo di tamponare le lacune e i numerosi
dissesti finanziari presenti nelle città e che facevano capo alle popolazioni
più povere. In tale contesto l’amministrazione delle civitates fu ben presto solo prerogativa dei ricchi, escludendo
così la plebe cittadina dalla libertà di iniziativa sociale come pure da ogni
partecipazione politica. Questi aristocratici, o per meglio dire “questori”,
formavano spesso un collegio, l’ordo
magistratum, costituito dai IVviri. Oltre
a questi ultimi vi erano dei questores
per la gestione finanziaria. Tra questi, le responsabilità nel censire venivano
affidate ai quinquennales,
nominati ogni cinque anni e in alcuni casi delegati da un praefectus. La struttura del senato locale era invece costituita
dai decuriones (i senatori), eletti a vita e radunati, quasi sempre, in numero di cento, tra cui vi erano ex
magistrati o promettenti aristocratici residenti nelle stesse località in cui
esercitavano il potere. Ai decuriones
si affiancavano i duoviri, e si
evidenzia che solo queste due categorie politiche pagavano tributi allo Stato.
Fondamentali risultano essere anche i membri del collegio dell’”augustalità”
(di cui si tratterà a breve in questo scritto). A questi si affiancano i seviri Augustales, il collegio di sei
Augustali (?) che molto spesso nelle epigrafi e (forse) anche in quella
eburina, vengono associati all’addestramento militare.
In linea generale, pertanto, si potrebbe definire il secondo secolo come un
momento felice per la politica dell’impero romano, un’epoca in cui ricchi e potenti
sono degnamente riconosciuti, e configurati in un imperialismo di svariate
tattiche di propaganda, fatte di elargizioni e sovvenzioni in cui molto spesso gli
uomini del potere sono riconosciuti dal popolo col titolo onorifico di “patrono”,
come nel caso del protagonista di questo scritto, Tito Flavio Silvano, che per
incrementare il suo potere locale nei confronti della plebe eburina, distribuiva
cibo, somme di denaro e quantitativi di carne.
Questo fenomeno di “evergetismo”
prevale nella romanità soprattutto tra le direttive politiche degli Antonini, e
si configura come valido strumento attraverso cui accaparrarsi la stabilità e
il mantenimento di una supremazia amministrativa.
Breve storia della Stele.
Un “punto di ritorno”.
La
leggenda dell’epigrafe eburina comincia nei meandri del cuore antico della Evoli-Eboli tardo medievale, sotto il
campanile di un’antica chiesetta urbana, nel luogo in cui venne inizialmente
individuata in seguito al suo (forse) reimpiego come spolia antico. Una sua prima memoria fu tracciata nel XVII sec.
dalla penna dello storico Enrico Bacco il quale nel descrivere l’evoluzione
della città di Eboli e, nello specifico, dei suoi popoli, evidenzia: «dei quali (popoli) si vede memoria in un
antico marmo nella parrocchiale chiesa di S. Maria “ad Intra”, non lungi dal
Castello d’essa terra, nel qual marmo si legge populi Eborini».
In seguito, sul finire del 1786, fece visita ad Eboli l’allora arcivescovo di
Salerno Michelangelo Lupoli
il quale nel visitare chiese e monasteri di detta cittadina, individuò l’antico
basamento inciso, allora collocato sul retro della chiesa di S. Maria ad Intra (fig. 1), e ne rimase affascinato. All’ecclesiastico salernitano, esperto
conoscitore di archeologica e molto abile nella decifrazione di antichi testi
latini su pietra, si deve la prima trascrizione del contenuto testuale inciso.
L’illustre prelato ispezionò anche l’interno dell’edificio chiesastico
individuando, nel giardino posteriore, alcuni frammenti e pezzi marmorei
antichi che consigliò di conservare perché molto eloquenti dal punto di vista
storico. Nei primi anni dell’Ottocento, la lapide venne spostata fuori dal
complesso sacro e collocata sulla facciata, su di un colonnato in mattoni, per un motivo ancora poco chiaro, forse per
esporla alla cittadinanza come simbolo di orgoglio storico o per poterne
ammirare meglio i caratteri antichi. Quello che risulta certo è che essa, in
tale nuova installazione, si ritrovò ben presto alle intemperie e nel completo
stato di abbandono, difatti don Luigi Romano, parroco che in quegli anni
officiava in S. Maria ad Intra ed
esperto conoscitore di cose antiche, notò
da subito il degrado di tale reperto e rivolgendosi più volte al Sotto Intendente
della vicina cittadina montana di Campagna gli indicò che «davanti alla porta della sua chiesa si trovava un’antichissima lapide
ed altri pezzi antichi», e lo implorava
di «dare opportune disposizioni per la
loro sistemazione». Allora il promettente amministratore, nel collegio
decurionale svoltosi in data 29 aprile 1823 considerò «di essere cosa decorosa e di gran pregio del comune la rivelazione
della lapide indicata, che si è conosciuta autografa dai più valenti antiquarii»
specificando che detta pietra «a spesa
del comune venisse rialzata, e messa in acconcio avanti alla stessa
parrocchiale chiesa, con la riunione di tutti gli altri pezzi antichi […].». Su tale decisione la lapide venne murata,
assieme agli altri pezzi inventariati, sulle mura esterne del campanile. Nel
1902 il comm. Prefettizio Nestore Peruzy mosse i primi tentativi per dare alla
lapide una collocazione degna del suo contenuto politico, avendo pensato per
quest’ultima la sala delle adunanze del consiglio comunale. A tale scopo
scrisse una lettera all’allora parroco di S. Maria ad Intra, don Eduardo Maria
Colasanto, il quale si rivolse positivamente all’idea di cedere alla struttura
comunale la lapide, ma a patto che il comune stesso provvedesse al rifacimento
della pavimentazione interna della chiesa. L’offerta della lapide in cambio
della sistemazione pavimentale venne attuata e, in data 18 giugno 1903,
l’amministrazione comunale acquistò i diritti di rimozione del cippo. Tuttavia
essa, per lunghi anni e motivazioni inspiegabili, non fu più rimossa dalla
chiesa, o per incuria o per disinteresse. Nel 1914 vi è testimonianza di
un’altra lettera, questa volta redatta da un consigliere comunale «mosso da nobile sentimento verso la sua
terra nativa», ed indirizzata al sindaco di Eboli. In tale documento si
afferma che «[…] esiste una lapide
antichissima in pietra, sulla quale si legge un’elaborata scrittura antica in
parte conservata e in parte corrosa dalle ingiurie del tempo». Nell’atto si
specifica che «questo singolare ed
insigne titolo, è stato sempre oggetto di studi e ricerche da parte dei dotti e
degli archeologi» e che per questo motivo risultava di notevole interesse
storico. Successivamente i bombardamenti che colpirono la città di Eboli nel
1943, lesionarono gran parte dell’edificio municipale in cui venne finalmente
collocato il basamento, ma esso fortunatamente ne uscì illeso. Fu con la costituzione del G.A.E (Gruppo
Archeologico Ebolitano) che si pensò di dare alla lapide il giusto
riconoscimento culturale e una degna collocazione. Vani furono i tentativi di
rimozione dell’antico blocco di pietra, e a causa del suo eccessivo peso si
dovette rinunciare a molte idee di risistemazione. I soci del Gruppo Archeologico
Ebolitano diedero così all’antico basamento una collocazione provvisoria nel cortile
dell’edificio scolastico femminile “V. Giudice”, sito nella stessa Eboli e dove
i soci del G.A.E. si riunivano. Costretti a lasciare il locale del suddetto
edificio nel 1976, in cui vi era quindi la stessa sede del Gruppo, con il
permesso dell’arcivescovo di Salerno, la lapide eburina venne nuovamente risistemata
nella ormai sconsacrata chiesa di S. Maria ad
Intra, ritrovando così dopo cinquantasei anni l’impervia strada del ritorno
nel suo luogo d’origine. Attualmente il blocco monolitico campeggia nello
spazio laterale allo scalone settecentesco dell’ex convento di S. Francesco in
Eboli, dove nel marzo del 2000 venne istituito e inaugurato il Museo
Archeologico di Eboli e della Valle del Sele. A tutt’oggi, nella complessiva
raccolta archeologica, risulta il solo documento scritto della Eboli di età
imperiale.
Letture epigrafiche.
Il basamento di pietra su cui è inciso il
documento attestante la presenza del “Municipium
Eburinorum” doveva configurarsi probabilmente come un grande sostegno
lapideo recante un’iscrizione onoraria (fig. 2). In tal caso vuol dire che il
testo è stato inciso per esaltare o commemorare un individuo di grande spessore
per uno specifico evento o benemerenza. Nel più comune dei casi, le iscrizioni
epigrafiche poste sui basamenti, come nel caso qui riportato, venivano incise
tramite decreto senatorio, oppure decurionale, ma anche per una sentita scelta del
popolo. Quando la stele è sovrastata da una statua, si parlerà più comunemente
di una effigies o meglio, nello
specifico come in questo caso, di una lapide-basamento su cui si presenta un’ ”iscrizione
ad honorem”. Inoltre, è da considerare che nella grande maggioranza dei casi, il
nome della persona a cui si offre la pietra elogiativa, è quasi sempre al
dativo (come nell’esempio della “Stele eburina”). Nel caso in cui il nome dell’intestatario
è invece al nominativo, non si tratterà di dedica, bensì di una spiccata autocelebrazione.
La stele eburina si presenta come un compatto blocco monolitico, in forma di
parallelepipedo in posa verticale, costituito da una possente pietra calcarea, alta
130 cm e larga 74 cm., recante un misurato e contenuto corpus epigrafico disposto su tre lati (tranne quello posteriore):
quello frontale riporta il testo dedicatorio (di cui si tratterà in seguito),
quello laterale (lato destro) è attinente e continuo al testo sulla fronte,
mentre quello inciso sul lato opposto (lato sinistro) riporta dei dati non
pertinenti a Tito Flavio Silvano, l’intestatario dell’intero plinto in
questione, bensì riguarda una dedicazione successiva e pertinente al IV sec.
d.C. Su questo massiccio basamento sovrastava (si ipotizza ancora con vaga
certezza) la statua equestre
di Tito Flavio Silvano, devotamente voluta ed eretta dal popolo eburino per celebrare,
in maniera insolita,
la figura politica di questo personaggio come proprio “protettore” (fig. 3).
Essa rimane senza dubbio una delle rare testimonianze in tutta la Lucania e
dell’entroterra salernitano dell’elevazione divinatoria (incisa su pietra) di
un amministratore e questore di una colonia romana, a livello di patrono. È
presumibile anche che tale monumento fosse stato eretto proprio nel luogo in
cui fu poi costruita la suddetta chiesa di S. Maria ad Intra, ossia sul sito dove nell’antichità sorgeva (?) la sede del Collegio dei
Dendrofori (di cui si darà spiegazione in seguito), dato che sino all’epoca dei
restauri effettuati nel sacrario intorno alla metà del XIX secolo, erano ancora
visibili nelle murature esterne della chiesa alcune parti frammentarie di
pilastri costituenti (forse) il porticato di una struttura antica, nonché delle
lacunose testimonianze di una volta romana costruita a mattoni. Ciò
spiegherebbe il ritrovamento della lapide in tale luogo. L’iscrizione lapidea
fornisce, inoltre, utili dettagli per ricavarne una datazione, anche se
orientativa: il monumento solenne potrebbe essere stato innalzato su tale
fulcro cittadino attorno al 183-184 d.C., all’epoca dell’imperatore Commodo,
allorché, come si evince dal testo inciso sulla fronte, erano consoli Marco
Stlaccio e Vezio Albino.
Nel
corso dei secoli, molti furono gli storici e studiosi che si sono cimentati
nella decifrazione dell’iscrizione: Il sopraccitato mons. Lupoli, come pure Raimondo
Guarini, sino alla traduzione dello storico e archeologo ebolitano Antonio
Romano, il quale in veste di illustre amatore e cultore di scienze
archeologiche, si propose di dare «una
più completa ed esatta spiegazione su detta epigrafe»
dato che le formulazioni effettuate sino ad allora gli sembrarono scorrette o
lacunose (1836). Purtroppo i lavori di trascrizione fin qui eseguiti, sono
manchevoli di una corretta lettura in quanto il fronte della lapide,
essendosi fortemente consunto nel corso
dei secoli e presentandosi eccessivamente lacunoso in molte sue parti, non
permetteva una corretta lettura prima e traslitterazione poi della scrittura
incisa. Fu solo nel 1861 che si risolse il problema delle parole mancanti, quando
lo storico tedesco Teodoro Mommsen,
riuscì a restituire all’Epigrafia latina il contenuto integrale della stele. Il
formulario di tale specchio epigrafico risulta comunque incompleto e non del
tutto ‘esplicitato’, in quanto molti sono rimasti gli interrogativi sulla corretta
interpretazione del testo (fig. 4).
La
più esaustiva trascrizione del testo inciso riporta:
[LATO
FRONTALE]
L.D. D.D.
T. FL. T. F. FAB SILVANO, PATR. MUN
EBUR. II. VIR. II. QQ. QUEST.
ARK. CUR
REI.
FRUMENT. HUIC COLL. DEND_
ROPHORR.
OB EXIMIAM ERG[A]
SE BENIVOLENTIAM. ET SPEM. P[ER]
PETUAM. STATUAM. DIGNISSIM[O].
PATRONO. POSUERUNT.
CUIUS. STA
[T]UAE.
ONOREM CONTENTUS. OB
TULIT.
COLL. SS. HS VIII. M. N. VT. QUODANNIS
NATALI.
EIVS. DIE. III IDUUM. DECEMBR[IUM.]
[C]ONFREQUENTENT.
ET. OB. STATUAE.
D[E]
DICATIONEM. COL[L. CON.] HS. XXN. [ET.]
[Q]Q.
IIVIR. AEDILIC. S[HS SS XX] N ET CETE
[R]IS
CON. DEC. SING. H[S XVIII N]S. S. AUGUS
TALIB.
HS XIIN. COLL. DEND[RO]PHO.[RR. ET]
FAB.
SING. HS. MILLENOS [ET] EPUL[U]M. [PL]EBEIS. SING. HS [ N]. ET VISCERATIONEM.
Si evidenziano da parte
del lapicida, una serie di errori nella redazione del testo:
Secondo rigo: QUEST anziché incidere QUAEST.
Nono rigo: QUODANNIS invece del corretto QUOTANNIS.
Al quattordicesimo rigo,
dopo la grande lacuna in cui si specifica la somma in sesterzi, il Mommsen
legge S(eviri), ma potrebbe anche essere interpretato
come S(ingulis), in riferimento ad AUGUSTALIB(us.).
Altre formulazioni del
piano frontale furono, a seconda delle righe in questione, così diversamente
interpretate:
Simone Augelluzzi
:
5. [S]E BENEVOLENTIAM ET
OPEM PER
8. [T]UAE HONORE CONTENUTS OBT
9. ULIT COLL. HS VIIIMN UT QUODANNIS
11. [C]ON. FREQUENTENT [ET UB] STATUAE
12. D[E]DICATIONEM CON[NTULIT] HS XXXN [II]
13. [Q]Q. IIVIR. AEDILIC. [SING.] ET. LIBE
14. [R]IS EOR. DEC. SING. H[S XXN
VIVI]RIS AUGUS
17. [PL]EBEIS SING. [XIIN] ET VISCERATIONEM
Theodor Mommsen:
11. [C]ONFREQUENTENT U[T ET OB S]TATUAE
D[E]
12. DICATIONEM COLL[EGII P. S.] HS XXN
14. [R]IS CONDEC. SING. HS[N XVII]I
S.(=semis)
S.(eviris) AUGUS
Altri hanno riportato:
11. [C]ONFREQUENTENT
[EIUS] STATUAE DE
12. DICATIONEM CON[TULIT IIVIR. S.] HS XXN
14. [R]IS CON. DEC..[HS XVN VIVIR]IS AUGUS
17. PLEBEIS SING. HS[XIIN] ET VISCERATIONEM.
Si restituisce, di
seguito, anche l’iscrizione incisa sul lato destro, ossia quella concernente la parte finale della dedica alla statua:
Secondo il Longobardi:
[LATO DESTRO]
DEDICATA. IV KAL. APRIL.
MARC. STLACCIO.
V. AL.
BINO […] STEIAN
Oppure Vittorio Bracco confronta così:
DED[IC]ATA
V KAL. APRIL
[AN]N[O DUUM]VIR. C. STLACCI VA[--
ET] CN. BRINNII STEIANI.
Per T. Mommsen si legge:
DEDICATA V KAL. APRIL
--NO IIVIR C. STLACCI VAL—
(=VAL[ENTIS])
-T CN. BRINNI STEIANI.
Alcuni, invece, ne hanno dedotto:
DEDICATA IV KAL. APRIL
[CONSILIBUS] MARC. STLACCIO V. A.
--STEIAN--
(Il lato destro fa
riferimento a Marco Stlaccio Albino, console nel 183 d.C. sotto il governo di
Commodo. Il testo, nella sua evidente forma abbreviata, però, potrebbe far
riferimento ai consoli Marco Stlaccio e Vezio Albino, oppure ai duoviri C.
Stlaccio Valente e Cn. Brinnio Steiano.)
Per ultimo, si riporta la scrittura incisa corrispondente
al lato sinistro:
Secondo V. Bracco:
[LATO SINISTRO]
PRAEF.
ET DO.
[N]ITENTI
FL. DELMA
TIO V.P. COR. E. P. LU.
Qui T. Mommsen legge:
PRAEF. ET DO.
[N]ITENTI
FL. DELMA
TIO V. P. CUR.
(=REI
PUBLICAE?)
Se ne ricava, dopo l’esposizione del corpus, che l’iscrizione frontale e
quella del lato destro, fanno riferimento a Tito Flavio Silvano e quindi
assieme ascrivibili al II sec. d.C., mentre il testo tracciato sullo specchio
epigrafico sinistro è stato identificato come più recente. Il Bracco lo data infatti
al IV sec. d.C. ritenendolo un secondo e successivo documento dedicatorio
indirizzato ad un’altra statua (?). Il testo identifica tale Flavio Delmazio,
molto probabilmente un personaggio appartenente alla gens Flavia.
[TRADUZIONE ISCRIZIONE
LATO FRONTALE]:
-Permesso conferito per Decreto dei Decurioni-
1
A
Tito Flavio, Figlio di Tito Fabio Silvano, Patrono del Municipio
2
degli
Eburini, Duumviroiuri dicundo, Duumviro quinquennale, Questore della cassa
comunale. Curatore
3
dell’annona.
A costui il Collegio dei Dendro-
4
fori,
per la grande benevolenza e per la grande
5
speranza
che ha dimostrato verso il collegio stesso,
6
pose
una statua che ricordasse sempre lui, che era un patrono degno
7
di
ricordo. Ed egli, contento dell’onore di una statua,
8
assegnò
al collegio sopra scritto
9
8.000
sesterzi, perché ogni anno nel giorno della sua nascita,
10
il
terzo giorno prima delle Idi di dicembre
11
si
riunissero per celebrarlo. E per ringraziare il collegio
12
della
dedica della statua, assegna 20 sesterzi ai
13
quinquennali
e 20 sesterzi a ciascuno dei duumviri edili,
14
e
assegna a ciascuno dei restanti decurioni 18 sesterzi e mezzo,
15
ad
ogni Augustale 12 sesterzi, ai singoli collegi dei dendrofori
16
e
dei fabbri 1.000 sesterzi e un banchetto privato,
17
ad
ognuno della massa dei soci [?] sesterzi ed una pubblica distribuzione di
carne.
[Traduzione del lato frontale, secondo Antonio Romano]
« Luogo assegnato per Decreto
dei Decurioni. A Tito Flavio Silvano, figlio di Tito della Tribù Fabia, Patrono
del Municipio degli Eburini, Duumviro, e indi per la seconda volta Quinquennale,
Questore della pubblica Cassa, e Curatore dell’Annona. A costui il Collegio dei
Dendrofori, per la grande benevolenza e perpetua speranza verso di sé, eresse
una statua qual degnissimo Patrono. Egli, contento dell’onore fattogli, offrì
al Collegio suddetto ottomila sesterzi. Affinché poi, ogni anno ai tre degli
Idi di dicembre, giorno di sua nascita, in radunanza, si celebrasse la
dedicazione della di lui statua, assegnò a ciascun Duumviro di Giustizia
sesterzi venti, e altrettanti sesterzi a ciascuno dei Duumviri quinquennali con
la potestà edilizia. Ed agli altri in tal guisa: assegnò a ciascuno dei
Decurioni sesterzi quindici, ai Sestumviri Augustali sesterzi dodici, al
Collegio dei Dendrofori e dei Fabri sesterzi mille ciascuno ed un banchetto. A
ciascuno dei plebei sesterzi dodici ed una viscerazione. Dedicata ai
quattro delle Calende di Aprile, essendo Consoli Marco Stlaccio e Vezio Albino.».
Sullo specchio lapideo, dopo l’intestazione
inerente il Locus Datus Decreto
Decurionum (sull’epigrafe: “L. D. –
D. D.” ), ossia il permesso
legislativo attestante l’autorità suprema dei decurioni, lo statuto della
municipalità romana in Eboli viene confermata dalla presenza di un questore, il
quale curava l’amministrazione finanziaria cittadina come pure l’Annona.
Questo personaggio si identifica sull’epigrafe come “T(ito) FL(avio), T(iti) F(ilio) FAB(io) SILVANO”,
ossia Tito Flavio Silvano, figlio di Tito appartenente alla tribù Fabia, una
delle trentuno tribù rustiche della Roma repubblicana ed imperiale. Si nota, in
questo rigo dell’iscrizione, l’adozione dei tria
nomina per identificare la persona in oggetto: il praenomen (Tito), il nomen
(Flavio) nonché il cognomen
(Silvano). L’intestazione risulta quindi essere incline ai modi tradizionali,
visto che già nel II sec. d.C. il praenomen
non veniva più utilizzato, a meno che non si trattasse di una figura altamente aristocratica.
Questo personaggio si configurava come il rappresentante della municipalità
eburina e in tale veste venne effigiato, quindi, come “patrono”. L’iscrizione,
inoltre, riferisce che Tito Flavio S. è Duumviro, quindi Questore della
Pubblica Cassa e curatore dell’Annona (ossia la cura frumentaria, vale a dire
l’insieme delle derrate alimentari che venivano assegnate annualmente alla
popolazione), ricavando, dunque, che l’antica Eburum fu senza dubbio sede di Questura. Lo stesso personaggio
viene definito per la seconda volta Quinquennale, ossia fu eletto alla seconda
carica (una singola carica durava un lustro) di magistrato e preposto a compiti
di vigilanza ma soprattutto di censire ed annotare sulle proprie tavole i nomi
dei Decurioni. Altro dato dedotto è la presenza di vasti ceti artigianali nel
tessuto urbano eburino, di cui una modesta area archeologica ne conserva
tutt’oggi le antiche tracce, in località “le fornaci” ovvero presso il sito rinvenuto
sul retro della chiesetta dei SS. Cosma e Damiano nel Centro Antico di Eboli,
nello stesso luogo dove si potrebbe orientativamente ipotizzare la presenza dell’antico
foro romano (fig. 5). Stando alle fonti incise, queste officine diedero vita a
delle specifiche associazioni (collegia)
a carattere operaio o artigianale, di cui l’epigrafe riferisce con certezza
quella dei “dendrofori”, fornitori allo Stato di legname da ardere o di travi
per la costruzione di imbarcazioni da guerra (si suppone, quindi, che Roma
richiedeva forniture di legname anche alla colonia di Eburum), come pure quella dei “fabri” tra cui si profilano i fabbri
ferrai, artigiani del ferro, nonché i vari costruttori di legname pregiato ed
architetti di edifici. Altre utili informazioni sul tessuto romano della
cittadina sono ad esempio l’augustalità riferita alla presenza in Eburum del culto di Augusto, fedelmente
mantenuto attivo dagli “Augustali”, il collegio di liberti preposto all’ufficio
di questa devozione divinatoria. Nel testo si deduce l’assegnazione di cifre in
sesterzi ai Decurioni, così da assicurare annualmente la celebrazione del patrono,
i quali ebbero in Eburum la stessa
carica dei senatori romani con piena autonomia legislativa, sia nei confronti
dei magistrati che del popolo eburino. Si può brevemente esporre, in tale
ambito, che queste associazioni private, i collegia,
divennero proprio dal II sec. d.C. degli istituti di carattere religioso,
sociale, economico e politico, e si configurano più esplicitamente come
associazioni private di culti non pubblici, ma del resto legalmente
riconosciuti: trattasi dei “collegia
cultorum”. La celebrazione di tale rituale onorario doveva concludersi con
una solenne dedicazione di un banchetto pubblico (EPULUM) rivolto alle corporazioni artigiane, ai collegia e a tutte le confraternite
suddette, a cui si affiancava una pubblica viscerazione (VISCERATIONEM), ossia una cerimonia sacrificale rivolta agli dei:
un rituale per celebrare, al potere divino, il massimo potere supremo in terra che
questo popolo ha perpetuato sulla pietra.
Conclusione
La trattazione qui presentata è stata, nella massima
possibilità materiale dello scrivente, un primo approccio verso l’argomento esposto.
È con questo repertorio di informazioni e dati, preziosi alla storiografia
locale e non, che si è custodito un fondamentale tassello di storia romana indispensabile
per affrontare le radici del popolo ebolitano, ma soprattutto fondamentale per
garantire la trasmissione di dati archeologici, presenti nell’entroterra
salernitano e scarsamente riconosciuti, alla posterità. Ci si augura, in un
futuro sempre più prossimo, che la storiografia contemporanea possa dare alle
stampe contributi maggiormente validi volti non solo alla conoscenza della “Stele
eburina”, ma soprattutto alla rimanente mole di documentazioni epigrafiche rinvenute
in Campania che, assieme a quelle affrontate in questa sede, costituiscono i
cardini della nostra storia.
NOTE
L’epigrafe è indicativa di tutto questo.
Difatti il patrono eburino in questione viene affidato alla memoria della
lapide anche per aver raccomandato la preparazione di un banchetto pubblico e
una distribuzione di carne: “ET EPULUM …
ET VISCERATIONEM”.
Dal greco εύεργέτης:
con significato di titolo onorifico; “benefattore”.
Della
statua innalzata sulla stele (?) oggi non rimane alcuna traccia se non degli
incavi e i fori presenti sulla parte superiore, che ne fanno supporre
l’innalzamento. Per la celebrazione di Tito Flavio Silvano si ipotizza
l’erezione di un monumento equestre in quanto si è concordi nell’affermare che
chi si occupava dell’amministrazione di una colonia latina, quindi un
protettore di un municipio romano, veniva spesso reclutato dall’ordine
Equestre. Tuttavia la tesi della rappresentazione “a cavallo” potrebbe anche
essere scartata in quanto la modesta dimensione del basamento non avrebbe
potuto sorreggere un elaborato scultoreo eccessivamente monumentale.
Anche
se nella storia romana in Campania vi sono già stati dei casi di onorificenza
da parte del popolo verso un politico al potere, il Pirone nei suoi contributi
storici riguardanti la città di Eboli, affermava che il basamento della statua
di Tito Flavio Silvano è il “caso unico” in tutta la Lucania in cui un potente
rappresentante del governo locale si esplicita come patrono e per questo degno
di un così ufficiale riconoscimento pubblico.
Theodor
Mommsen (1817-1903), illustre storico, numismatico e grande cultore di scienze
archeologiche, si avvicina all’epigrafia di età romana e nel 1847 raccoglie
innumerevoli documentazioni sulle iscrizioni epigrafiche del Regno di Napoli pubblicando
presso l’Accademia di Berlino, nello stesso anno, il CIL, ovvero il Corpus
Inscriptionum Latinarum, uno scrigno di cultura incisa su pietra nonché un
fondamentale strumento di ricerca storica. L’intero apparato del progetto,
costituito da XVII capitoli, raccoglie gran parte della documentazione
epigrafica dell’Impero Romano.
Si
rimanda a BRACCO, 1974, pag. 4.
BRACCO, op.cit., p. 4. Si
evidenziano le difficoltà di lettura
nonché di decifrazione che incontra lo studioso: “titulum sinistri lateris, difficilium quidem lectu, recognovimus
Barbieri, Panciera, ego”.
Ad
Eboli già nel XVIII secolo furono individuati i locali dove nell’antichità
venivano conservati i granai dell’annona. Questi erano siti in località Borgo,
precisamente nell’attuale Via Spirito Santo. Sino all’inizio dell’Ottocento. si
potevano ancora ammirare gli antichi portali d’ingresso e i relativi magazzini
di deposito, i quali furono poi abbattuti nel 1870 ca.
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Fig. 1
Chiesa parrocchiale di Santa Maria ad Intra, (secc. XII-XIII)
Eboli, Centro Storico. La freccia indica il luogo dove venne incassata la lapide agli inizi dell'Ottocento
Fig. 2
Stele Eburina, basamento della statua equestre di Tito Flavio Silvano, II sec. d.C.
pietra calcarea, 130 x 74 cm.
Eboli, Museo Archeologico di Eboli e della Valle del Sele
Fig. 3
FRANCESCO PIRANESI DI GIAMBATTISTA, Marco Aurelio a cavallo, 1785
incisione
La statua fu innalzata nel 176 d.C. e fu da modello per l'erezione di innumerevoli monumenti equestri analoghi, a carattere onorario, indirizzati anche a liberti di medio rango in molte colonie romane
Fig. 4
Particolare del testo inciso sul lato frontale della stele, concernente la dedica a Tito Flavio Silvano, II sec. d.C.
Fig. 5
Eboli, Località "S. Cosma e Damiano". Scavi effettuati dal 1973 al 1975: resti di locali commerciali, II secolo a.C.P
Foto cortesia di Gianmatteo Funicelli
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