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La “Stele eburina”, il Potere sulla pietra. Testimonianze del Municipium eburinorum all'ombra della romanità imperiale  
Gianmatteo Funicelli
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 5 Novembre 2011, n. 627
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Area Archeologia

Premessa

Il presente contributo vuole essere uno strumento introduttivo per accostare all’Archeologia antica un frammento di storia locale inciso su pietra. Gli avvicendamenti riguardanti l’antica città campana di Eboli (Salerno), nella quale è protagonista il tema di questo scritto, possono essere facilmente ripercorribili attraverso innumerevoli materiali documentari, manoscritti, e uomini illustri che nel corso dei secoli hanno gettato fiumi di inchiostro per non tralasciare nell’oblio la storia di questo luogo. Da Roberto il Guiscardo agli Aragonesi, da Pietro da Eboli a Matteo Ripa, per poi conquistare anche Carlo Levi, Eboli si è collocata sempre al centro della Storia, in quanto partecipe e protagonista di essa. Particolarmente caratterizzanti risultano, inoltre, i cospicui materiali archeologici che fanno capo alla documentazione storica della Eboli più remota: oggetti fittili, suppellettili preziosi, gioielli e frammenti di vite quotidiane, rinvenuti nei più disparati contesti tombali del territorio, si accostano l’uno all’altro nei supporti espositivi al neon del Museo Archeologico cittadino per descrivere all’occhio attento dello studioso, ma anche all’ultimo ebolitano, figlio di questa terra onorata, un “punto di partenza”, una lucida crono-storia dalle epoche più antiche sino alla tarda romanità, attraverso un repertorio di oggetti che racchiudono un resoconto antichissimo, ma pur sempre tangibile, fatto di secoli, grandi uomini e culture che la memoria scritta non ha mai dimenticati. Lungi dall’esporre al lettore risultati particolarmente dettagliati a riguardo, lo scopo di chi scrive in questo ambito non sarà quello di presentare il completo status quaestionis della civiltà nell’antica Eburum/Eboli. Sarebbe come fare un pretenzioso torto alla storiografia che in passato ha già dato alle stampe esaustivi contributi in merito. L’attenzione di questo saggio si rivolgerà invece, nello specifico, ad una fondamentale testimonianza su pietra concernente la parentesi dell’antico potere politico ebolitano che, tutt’oggi come allora, rappresenta il simbolo solenne della Eburum di età romana all’ombra della municipalità, nonché un attuale vessillo di orgoglio e identità storica per la moderna popolazione ebolitana. L’oggetto archeologico in questione rappresenta, ad litteram, una pietra ‘parlante’; un valido lasciapassare per introdurre lo studioso nella Eburum di secondo secolo in rapporto con la capitale dell’Impero. Trattasi di un antico cippo onorario, e testualmente commemorativo, meglio conosciuto dagli storici nel salernitano come “Stele Eburina”. Tale documento lapideo rappresenta il sottile filo rosso che lega alla Storia di Roma l’antico e scarsamente noto Municipium Eburinorum. Sarà attenzione di chi scrive rivendicare a tale reperto, seppur nella limitazione di un contributo riduttivo, una sommaria ricerca scientifica in cui esporre il tracciato conoscitivo circa i contesti storici in cui inquadrare la Stele e i suoi relativi contenuti, ma soprattutto promuovere per tale memoria lapidea un appropriato valore capace di coinvolgere, nella direzione dello studio archeologico e più propriamente epigrafico, le generazioni future e quanti, come il sottoscritto, hanno il compito morale di diffondere e trasmettere alla posterità frammenti della propria storia antica.

 

 Eburum: sulla scia dei ‘municipia’ romani.

La tematica archeologica qui affrontata, rimanda il lettore nella politica romana sul tramonto del potere di Commodo. Proprio con questo imperatore che il Senato romano, considerando troppo labile e gravosa una diarchia politica tra sé e l’imperatore, adottò nuove disposizioni sul decentramento del potere in modo da garantire una maggiore autonomia alle classi emergenti nella questione del comando locale. Tra i principali cambiamenti che riguardano il periodo in questo ambito, vi è il Principato adottivo (96-193 d.C.), mediante il quale l’elezione al potere non veniva garantita per discendenza, bensì tramite un’equa meritocrazia, e quindi spettante all’uomo degno di tale onore ( Il primo ad inaugurare la prassi fu l’imperatore Nerva). Successivamente, fu con la morte di Marco Aurelio (161-180 d.C.) che il principio dell’adozione del migliore non venne più accettata. Difatti al “Re filosofo” successe, nuovamente per discendenza, il figlio Commodo (180-182 d.C.) all’età di diciannove anni. Sostenendosi alle corti pretorie, e al loro prefetto, il promettente imperatore introdusse varie riforme innovative come ad esempio conferire i comandi degli eserciti ad equites nominati col titolo di praefecti, progettando di lì a poco un vasto “Impero militare” contro la borghesia e le classi aristocratiche emergenti. Fu poi da una congiura scoperta e repressa in data 182 d.C., guidata da alcuni uomini della nobilitas tra cui primeggiava Ummidio Quadrato, che tale monarchia si preannunciò sempre più severa e rigidamente teocratica, tanto da imporre all’imperatore il titolo di “Hercules Romanus”. Di Commodo basterà qui evidenziare, al di là dei vari e più complessi  avvicendamenti, una grande inclinazione verso la difesa delle frontiere e una particolare determinatezza sul funzionamento amministrativo nelle colonie [1] . In età repubblicana, poi, con l’abolizione del consolato e della politica classistica, predominerà  l’adozione del potere nelle mani del ceto senatorio, dove l’imperatore è configurato in veste di princeps. È qui che esso rappresenta il primus inter pares,  venendogli affidata una sorta di carica presidenziale, rimase comunque il depositario dell’auctoritas. Esso è l’augur, o meglio l’”Augusto” che gode a vita della tribunicia potestas (rappresentanza di tutto il corpo della cittadinanza romana). Ma il governo effettivo, fu comunque amministrato prettamente dalla cerchia senatoria. Per quanto concerne, invece, l’amministrazione di Eburum [2] in età imperiale, si cercherà, nelle prossime righe, di delineare le maggiori figure che fanno capo al potere di tale colonia latina: comparivano nell’organigramma politico eburino non più i consoli, ma solo i pretori, oltre ai magistrati che dirigevano le colonie. Il “municipio” circoscriveva sia il centro urbano che i quartieri periferici e quindi anche i villaggi limitrofi dipendenti. In questo vasto contesto territoriale, all’ombra dell’Urbe romana, figuravano ben tre tipologie di classi sociali: i decurioni, quasi ascrivibili ad un ordine senatorio e costituito dalla più fiorente nobiltà, formata da ricchi capitalisti ed aristocratici inseritisi nella sfera politica; quella degli augustali, era la classe intermedia costituita dai cavalieri che, per ragioni varie e quasi sempre collegabili alla carriera militare, si posizionavano in una classe privilegiata aspirante alla c.d. “scalata sociale”; infine vi era la plebe, ossia la parte residua, che costituiva l’ampia mole della popolazione. Nei municipi romani l’elezione dei magistrati, anche se di carattere ‘liberale’, spettante quindi all’assemblea dei cittadini, era saldamente ancorata al comando supremo, quindi tra le mani del senato locale, in genere costituito da un centinaio di membri del potere giunti al venticinquesimo anno d’età. Vi è da evidenziare, inoltre, che dal II sec. d.C. in poi l’autonomia municipale si rafforza proprio a scapito della popolazione: la figura del decurione venne imposta nelle colonie, ed essa  comportava degli obblighi gravosi, come ad esempio versare grossi contributi in denaro per la realizzazione di feste e/o opere pubbliche. Lo Stato, in seguito, intervenne nelle colonie latine con l’inserimento di appositi curatores [3] , ossia ispettori dei conti, con lo scopo di tamponare le lacune e i numerosi dissesti finanziari presenti nelle città e che facevano capo alle popolazioni più povere. In tale contesto l’amministrazione delle civitates fu ben presto solo prerogativa dei ricchi, escludendo così la plebe cittadina dalla libertà di iniziativa sociale come pure da ogni partecipazione politica. Questi aristocratici, o per meglio dire “questori”, formavano spesso un collegio, l’ordo magistratum, costituito dai IVviri. Oltre a questi ultimi vi erano dei questores per la gestione finanziaria. Tra questi, le responsabilità nel censire venivano affidate ai quinquennales [4] , nominati ogni cinque anni e in alcuni casi delegati da un praefectus. La struttura del senato locale era invece costituita dai decuriones (i senatori), eletti a vita e radunati, quasi sempre, in numero di cento, tra cui vi erano ex magistrati o promettenti aristocratici residenti nelle stesse località in cui esercitavano il potere. Ai decuriones si affiancavano i duoviri, e si evidenzia che solo queste due categorie politiche pagavano tributi allo Stato. Fondamentali risultano essere anche i membri del collegio dell’”augustalità” (di cui si tratterà a breve in questo scritto). A questi si affiancano i seviri Augustales, il collegio di sei Augustali (?) che molto spesso nelle epigrafi e (forse) anche in quella eburina, vengono associati all’addestramento militare [5] . In linea generale, pertanto, si potrebbe definire il secondo secolo come un momento felice per la politica dell’impero romano, un’epoca in cui ricchi e potenti sono degnamente riconosciuti, e configurati in un imperialismo di svariate tattiche di propaganda, fatte di elargizioni e sovvenzioni in cui molto spesso gli uomini del potere sono riconosciuti dal popolo col titolo onorifico di “patrono”, come nel caso del protagonista di questo scritto, Tito Flavio Silvano, che per incrementare il suo potere locale nei confronti della plebe eburina, distribuiva cibo, somme di denaro e quantitativi di carne [6] . Questo fenomeno di “evergetismo” [7] prevale nella romanità soprattutto tra le direttive politiche degli Antonini, e si configura come valido strumento attraverso cui accaparrarsi la stabilità e il mantenimento di una supremazia amministrativa.

 

 

 

Breve storia della Stele. Un “punto di ritorno”.

La leggenda dell’epigrafe eburina comincia nei meandri del cuore antico della Evoli-Eboli tardo medievale, sotto il campanile di un’antica chiesetta urbana, nel luogo in cui venne inizialmente individuata in seguito al suo (forse) reimpiego come spolia antico. Una sua prima memoria fu tracciata nel XVII sec. dalla penna dello storico Enrico Bacco il quale nel descrivere l’evoluzione della città di Eboli e, nello specifico, dei suoi popoli, evidenzia: «dei quali (popoli) si vede memoria in un antico marmo nella parrocchiale chiesa di S. Maria “ad Intra”, non lungi dal Castello d’essa terra, nel qual marmo si legge populi Eborini» [8] . In seguito, sul finire del 1786, fece visita ad Eboli l’allora arcivescovo di Salerno Michelangelo Lupoli [9] il quale nel visitare chiese e monasteri di detta cittadina, individuò l’antico basamento inciso, allora collocato sul retro della chiesa di S. Maria ad Intra (fig. 1), e ne rimase affascinato. All’ecclesiastico salernitano, esperto conoscitore di archeologica e molto abile nella decifrazione di antichi testi latini su pietra, si deve la prima trascrizione del contenuto testuale inciso. L’illustre prelato ispezionò anche l’interno dell’edificio chiesastico individuando, nel giardino posteriore, alcuni frammenti e pezzi marmorei antichi che consigliò di conservare perché molto eloquenti dal punto di vista storico. Nei primi anni dell’Ottocento, la lapide venne spostata fuori dal complesso sacro e collocata sulla facciata, su di un colonnato in mattoni,  per un motivo ancora poco chiaro, forse per esporla alla cittadinanza come simbolo di orgoglio storico o per poterne ammirare meglio i caratteri antichi. Quello che risulta certo è che essa, in tale nuova installazione, si ritrovò ben presto alle intemperie e nel completo stato di abbandono, difatti don Luigi Romano, parroco che in quegli anni officiava in S. Maria ad Intra ed esperto conoscitore di cose antiche, notò da subito il degrado di tale reperto e rivolgendosi più volte al Sotto Intendente della vicina cittadina montana di Campagna gli indicò che «davanti alla porta della sua chiesa si trovava un’antichissima lapide ed  altri pezzi antichi», e lo implorava di «dare opportune disposizioni per la loro sistemazione». Allora il promettente amministratore, nel collegio decurionale svoltosi in data 29 aprile 1823 considerò «di essere cosa decorosa e di gran pregio del comune la rivelazione della lapide indicata, che si è conosciuta autografa dai più valenti antiquarii» specificando che detta pietra «a spesa del comune venisse rialzata, e messa in acconcio avanti alla stessa parrocchiale chiesa, con la riunione di tutti gli altri pezzi antichi […].».  Su tale decisione la lapide venne murata, assieme agli altri pezzi inventariati, sulle mura esterne del campanile. Nel 1902 il comm. Prefettizio Nestore Peruzy mosse i primi tentativi per dare alla lapide una collocazione degna del suo contenuto politico, avendo pensato per quest’ultima la sala delle adunanze del consiglio comunale. A tale scopo scrisse una lettera all’allora parroco di S. Maria ad Intra, don Eduardo Maria Colasanto, il quale si rivolse positivamente all’idea di cedere alla struttura comunale la lapide, ma a patto che il comune stesso provvedesse al rifacimento della pavimentazione interna della chiesa. L’offerta della lapide in cambio della sistemazione pavimentale venne attuata e, in data 18 giugno 1903, l’amministrazione comunale acquistò i diritti di rimozione del cippo. Tuttavia essa, per lunghi anni e motivazioni inspiegabili, non fu più rimossa dalla chiesa, o per incuria o per disinteresse. Nel 1914 vi è testimonianza di un’altra lettera, questa volta redatta da un consigliere comunale «mosso da nobile sentimento verso la sua terra nativa», ed indirizzata al sindaco di Eboli. In tale documento si afferma che «[…] esiste una lapide antichissima in pietra, sulla quale si legge un’elaborata scrittura antica in parte conservata e in parte corrosa dalle ingiurie del tempo». Nell’atto si specifica che «questo singolare ed insigne titolo, è stato sempre oggetto di studi e ricerche da parte dei dotti e degli archeologi» e che per questo motivo risultava di notevole interesse storico. Successivamente i bombardamenti che colpirono la città di Eboli nel 1943, lesionarono gran parte dell’edificio municipale in cui venne finalmente collocato il basamento, ma esso fortunatamente ne uscì illeso. Fu con la costituzione del G.A.E (Gruppo Archeologico Ebolitano) che si pensò di dare alla lapide il giusto riconoscimento culturale e una degna collocazione. Vani furono i tentativi di rimozione dell’antico blocco di pietra, e a causa del suo eccessivo peso si dovette rinunciare a molte idee di risistemazione. I soci del Gruppo Archeologico Ebolitano diedero così all’antico basamento una collocazione provvisoria nel cortile dell’edificio scolastico femminile “V. Giudice”, sito nella stessa Eboli e dove i soci del G.A.E. si riunivano. Costretti a lasciare il locale del suddetto edificio nel 1976, in cui vi era quindi la stessa sede del Gruppo, con il permesso dell’arcivescovo di Salerno, la lapide eburina venne nuovamente risistemata nella ormai sconsacrata chiesa di S. Maria ad Intra, ritrovando così dopo cinquantasei anni l’impervia strada del ritorno nel suo luogo d’origine. Attualmente il blocco monolitico campeggia nello spazio laterale allo scalone settecentesco dell’ex convento di S. Francesco in Eboli, dove nel marzo del 2000 venne istituito e inaugurato il Museo Archeologico di Eboli e della Valle del Sele. A tutt’oggi, nella complessiva raccolta archeologica, risulta il solo documento scritto della Eboli di età imperiale.  

Letture epigrafiche.

Il basamento di pietra su cui è inciso il documento attestante la presenza del “Municipium Eburinorum” doveva configurarsi probabilmente come un grande sostegno lapideo recante un’iscrizione onoraria (fig. 2). In tal caso vuol dire che il testo è stato inciso per esaltare o commemorare un individuo di grande spessore per uno specifico evento o benemerenza. Nel più comune dei casi, le iscrizioni epigrafiche poste sui basamenti, come nel caso qui riportato, venivano incise tramite decreto senatorio, oppure decurionale, ma anche per una sentita scelta del popolo. Quando la stele è sovrastata da una statua, si parlerà più comunemente di una effigies o meglio, nello specifico come in questo caso, di una lapide-basamento su cui si presenta un’ ”iscrizione ad honorem. Inoltre, è da considerare che nella grande maggioranza dei casi, il nome della persona a cui si offre la pietra elogiativa, è quasi sempre al dativo (come nell’esempio della “Stele eburina”). Nel caso in cui il nome dell’intestatario è invece al nominativo, non si tratterà di dedica, bensì di una spiccata autocelebrazione. La stele eburina si presenta come un compatto blocco monolitico, in forma di parallelepipedo in posa verticale, costituito da una possente pietra calcarea, alta 130 cm e larga 74 cm., recante un misurato e contenuto corpus epigrafico disposto su tre lati (tranne quello posteriore): quello frontale riporta il testo dedicatorio (di cui si tratterà in seguito), quello laterale (lato destro) è attinente e continuo al testo sulla fronte, mentre quello inciso sul lato opposto (lato sinistro) riporta dei dati non pertinenti a Tito Flavio Silvano, l’intestatario dell’intero plinto in questione, bensì riguarda una dedicazione successiva e pertinente al IV sec. d.C. Su questo massiccio basamento sovrastava (si ipotizza ancora con vaga certezza) la statua equestre [10] di Tito Flavio Silvano, devotamente voluta ed eretta dal popolo eburino per celebrare, in maniera insolita [11] , la figura politica di questo personaggio come proprio “protettore” (fig. 3). Essa rimane senza dubbio una delle rare testimonianze in tutta la Lucania e dell’entroterra salernitano dell’elevazione divinatoria (incisa su pietra) di un amministratore e questore di una colonia romana, a livello di patrono. È presumibile anche che tale monumento fosse stato eretto proprio nel luogo in cui fu poi costruita la suddetta chiesa di S. Maria ad Intra, ossia sul sito dove nell’antichità  sorgeva (?) la sede del Collegio dei Dendrofori (di cui si darà spiegazione in seguito), dato che sino all’epoca dei restauri effettuati nel sacrario intorno alla metà del XIX secolo, erano ancora visibili nelle murature esterne della chiesa alcune parti frammentarie di pilastri costituenti (forse) il porticato di una struttura antica, nonché delle lacunose testimonianze di una volta romana costruita a mattoni. Ciò spiegherebbe il ritrovamento della lapide in tale luogo. L’iscrizione lapidea fornisce, inoltre, utili dettagli per ricavarne una datazione, anche se orientativa: il monumento solenne potrebbe essere stato innalzato su tale fulcro cittadino attorno al 183-184 d.C., all’epoca dell’imperatore Commodo, allorché, come si evince dal testo inciso sulla fronte, erano consoli Marco Stlaccio e Vezio Albino.

Nel corso dei secoli, molti furono gli storici e studiosi che si sono cimentati nella decifrazione dell’iscrizione: Il sopraccitato mons. Lupoli, come pure Raimondo Guarini, sino alla traduzione dello storico e archeologo ebolitano Antonio Romano, il quale in veste di illustre amatore e cultore di scienze archeologiche, si propose di dare «una più completa ed esatta spiegazione su detta epigrafe» [12] dato che le formulazioni effettuate sino ad allora gli sembrarono scorrette o lacunose (1836). Purtroppo i lavori di trascrizione fin qui eseguiti, sono manchevoli di una corretta lettura in quanto il fronte della lapide, essendosi  fortemente consunto nel corso dei secoli e presentandosi eccessivamente lacunoso in molte sue parti, non permetteva una corretta lettura prima e traslitterazione poi della scrittura incisa. Fu solo nel 1861 che si risolse il problema delle parole mancanti, quando lo storico tedesco Teodoro Mommsen [13] , riuscì a restituire all’Epigrafia latina il contenuto integrale della stele. Il formulario di tale specchio epigrafico risulta comunque incompleto e non del tutto ‘esplicitato’, in quanto molti sono rimasti gli interrogativi sulla corretta interpretazione del testo (fig. 4).

La più esaustiva trascrizione del testo inciso riporta:

[LATO FRONTALE]

L.D.     D.D.

T. FL. T. F. FAB SILVANO, PATR. MUN

EBUR. II. VIR. II. QQ. QUEST. ARK. CUR

REI. FRUMENT. HUIC COLL. DEND_

ROPHORR. OB EXIMIAM ERG[A]

SE BENIVOLENTIAM. ET SPEM. P[ER]

PETUAM. STATUAM. DIGNISSIM[O].

PATRONO. POSUERUNT. CUIUS. STA

[T]UAE. ONOREM CONTENTUS. OB

TULIT. COLL. SS. HS VIII. M. N. VT. QUODANNIS

NATALI. EIVS. DIE. III IDUUM. DECEMBR[IUM.]

[C]ONFREQUENTENT. ET. OB. STATUAE. D[E]

DICATIONEM. COL[L. CON.] HS. XXN. [ET.]

[Q]Q. IIVIR. AEDILIC. S[HS SS XX] N ET CETE

[R]IS CON. DEC. SING. H[S XVIII N]S. S. AUGUS

TALIB. HS XIIN. COLL. DEND[RO]PHO.[RR. ET]

FAB. SING. HS. MILLENOS [ET] EPUL[U]M. [PL]EBEIS. SING. HS [ N]. ET VISCERATIONEM.

 

 

Si evidenziano da parte del lapicida, una serie di errori nella redazione del testo:

Secondo rigo: QUEST anziché incidere QUAEST.

Nono rigo: QUODANNIS invece del corretto QUOTANNIS [14] .

Al quattordicesimo rigo, dopo la grande lacuna in cui si specifica la somma in sesterzi, il Mommsen legge S(eviri),  ma potrebbe anche essere interpretato come S(ingulis), in riferimento ad AUGUSTALIB(us.).

 

Altre formulazioni del piano frontale furono, a seconda delle righe in questione, così diversamente interpretate:

 

 

Simone Augelluzzi [15] :

5. [S]E BENEVOLENTIAM ET OPEM PER

8. [T]UAE HONORE CONTENUTS OBT

9. ULIT COLL. HS VIIIMN UT QUODANNIS

11. [C]ON. FREQUENTENT [ET UB] STATUAE

12. D[E]DICATIONEM CON[NTULIT] HS XXXN [II]

13. [Q]Q. IIVIR. AEDILIC. [SING.] ET. LIBE

14. [R]IS EOR. DEC. SING. H[S XXN VIVI]RIS AUGUS

17. [PL]EBEIS SING. [XIIN] ET VISCERATIONEM

 

Theodor Mommsen:

11. [C]ONFREQUENTENT U[T ET OB S]TATUAE D[E]

12. DICATIONEM COLL[EGII P. S.] HS XXN

14. [R]IS CONDEC. SING. HS[N XVII]I S.(=semis)

                                                 S.(eviris) AUGUS

 

Altri hanno riportato:

11. [C]ONFREQUENTENT [EIUS] STATUAE DE

12. DICATIONEM CON[TULIT IIVIR. S.] HS XXN

14. [R]IS CON. DEC..[HS XVN VIVIR]IS AUGUS

17. PLEBEIS SING. HS[XIIN] ET VISCERATIONEM.

 

 

Si restituisce, di seguito, anche l’iscrizione incisa sul lato destro, ossia quella concernente  la parte finale della dedica alla statua:

 

 

Secondo il Longobardi:

 

[LATO DESTRO]

 

DEDICATA. IV KAL. APRIL.

MARC. STLACCIO.  V. AL.

BINO […] STEIAN

 

Oppure Vittorio Bracco confronta così:

 

DED[IC]ATA V KAL. APRIL

[AN]N[O DUUM]VIR. C. STLACCI VA[--

ET] CN. BRINNII STEIANI.

 

 

Per T. Mommsen si legge:

 

DEDICATA V KAL. APRIL

--NO IIVIR C. STLACCI VAL—

                                                    (=VAL[ENTIS])

-T CN. BRINNI STEIANI.

 

Alcuni, invece, ne hanno dedotto:

 

DEDICATA IV KAL. APRIL

[CONSILIBUS] MARC. STLACCIO V. A.

--STEIAN--

 

(Il lato destro fa riferimento a Marco Stlaccio Albino, console nel 183 d.C. sotto il governo di Commodo. Il testo, nella sua evidente forma abbreviata, però, potrebbe far riferimento ai consoli Marco Stlaccio e Vezio Albino, oppure ai duoviri C. Stlaccio Valente e Cn. Brinnio Steiano.)

 

 

 

 

 

Per ultimo, si riporta la scrittura incisa corrispondente al lato sinistro:

 

 

Secondo V. Bracco [16] :

 

[LATO SINISTRO]

 

PRAEF. ET DO.

[N]ITENTI FL. DELMA

TIO V.P. COR. E. P. LU.

 

Qui T. Mommsen legge:

 

PRAEF. ET DO.

[N]ITENTI FL. DELMA

TIO V. P. CUR.

    (=REI PUBLICAE?)

 

 

Se ne ricava, dopo l’esposizione del corpus, che l’iscrizione frontale e quella del lato destro, fanno riferimento a Tito Flavio Silvano e quindi assieme ascrivibili al II sec. d.C., mentre il testo tracciato sullo specchio epigrafico sinistro è stato identificato come più recente. Il Bracco lo data infatti al IV sec. d.C. ritenendolo un secondo e successivo documento dedicatorio indirizzato ad un’altra statua (?). Il testo identifica tale Flavio Delmazio, molto probabilmente un personaggio appartenente alla gens Flavia [17] .

 

[TRADUZIONE ISCRIZIONE

LATO FRONTALE]:

 

-Permesso conferito per Decreto dei Decurioni-

1                 A Tito Flavio, Figlio di Tito Fabio Silvano, Patrono del Municipio

2                 degli Eburini, Duumviroiuri dicundo, Duumviro quinquennale, Questore della cassa comunale. Curatore

3                 dell’annona. A costui il Collegio dei Dendro-

4                 fori, per la grande benevolenza e per la grande

5                 speranza che ha dimostrato verso il collegio stesso,

6                 pose una statua che ricordasse sempre lui, che era un patrono degno

7                 di ricordo. Ed egli, contento dell’onore di una statua,

8                 assegnò al collegio sopra scritto

9                 8.000 sesterzi, perché ogni anno nel giorno della sua nascita,

10             il terzo giorno prima delle Idi di dicembre

11             si riunissero per celebrarlo. E per ringraziare il collegio

12             della dedica della statua, assegna 20 sesterzi ai

13             quinquennali e 20 sesterzi a ciascuno dei duumviri edili,

14             e assegna a ciascuno dei restanti decurioni 18 sesterzi e mezzo,

15             ad ogni Augustale 12 sesterzi, ai singoli collegi dei dendrofori

16             e dei fabbri 1.000 sesterzi e un banchetto privato,

17             ad ognuno della massa dei soci [?] sesterzi ed una pubblica distribuzione di carne.

 

 

 

[Traduzione del lato frontale, secondo Antonio Romano]

 

« Luogo assegnato per Decreto dei Decurioni. A Tito Flavio Silvano, figlio di Tito della Tribù Fabia, Patrono del Municipio degli Eburini, Duumviro, e indi per la seconda volta Quinquennale, Questore della pubblica Cassa, e Curatore dell’Annona. A costui il Collegio dei Dendrofori, per la grande benevolenza e perpetua speranza verso di sé, eresse una statua qual degnissimo Patrono. Egli, contento dell’onore fattogli, offrì al Collegio suddetto ottomila sesterzi. Affinché poi, ogni anno ai tre degli Idi di dicembre, giorno di sua nascita, in radunanza, si celebrasse la dedicazione della di lui statua, assegnò a ciascun Duumviro di Giustizia sesterzi venti, e altrettanti sesterzi a ciascuno dei Duumviri quinquennali con la potestà edilizia. Ed agli altri in tal guisa: assegnò a ciascuno dei Decurioni sesterzi quindici, ai Sestumviri Augustali sesterzi dodici, al Collegio dei Dendrofori e dei Fabri sesterzi mille ciascuno ed un banchetto. A ciascuno dei plebei sesterzi dodici ed una viscerazione. Dedicata ai quattro delle Calende di Aprile, essendo Consoli Marco Stlaccio e Vezio Albino.».

 

Sullo specchio lapideo, dopo l’intestazione inerente il Locus Datus Decreto Decurionum (sull’epigrafe: “L. D. – D. D.” ), ossia il permesso legislativo attestante l’autorità suprema dei decurioni, lo statuto della municipalità romana in Eboli viene confermata dalla presenza di un questore, il quale curava l’amministrazione finanziaria cittadina come pure l’Annona [18] . Questo personaggio si identifica sull’epigrafe come “T(ito) FL(avio), T(iti) F(ilio) FAB(io) SILVANO”, ossia Tito Flavio Silvano, figlio di Tito appartenente alla tribù Fabia, una delle trentuno tribù rustiche della Roma repubblicana ed imperiale. Si nota, in questo rigo dell’iscrizione, l’adozione dei tria nomina per identificare la persona in oggetto: il praenomen (Tito), il nomen (Flavio) nonché il cognomen (Silvano). L’intestazione risulta quindi essere incline ai modi tradizionali, visto che già nel II sec. d.C. il praenomen non veniva più utilizzato, a meno che non si trattasse di una figura altamente aristocratica. Questo personaggio si configurava come il rappresentante della municipalità eburina e in tale veste venne effigiato, quindi, come “patrono”. L’iscrizione, inoltre, riferisce che Tito Flavio S. è Duumviro, quindi Questore della Pubblica Cassa e curatore dell’Annona (ossia la cura frumentaria, vale a dire l’insieme delle derrate alimentari che venivano assegnate annualmente alla popolazione), ricavando, dunque, che l’antica Eburum fu senza dubbio sede di Questura. Lo stesso personaggio viene definito per la seconda volta Quinquennale, ossia fu eletto alla seconda carica (una singola carica durava un lustro) di magistrato e preposto a compiti di vigilanza ma soprattutto di censire ed annotare sulle proprie tavole i nomi dei Decurioni. Altro dato dedotto è la presenza di vasti ceti artigianali nel tessuto urbano eburino, di cui una modesta area archeologica ne conserva tutt’oggi le antiche tracce, in località “le fornaci” ovvero presso il sito rinvenuto sul retro della chiesetta dei SS. Cosma e Damiano nel Centro Antico di Eboli, nello stesso luogo dove si potrebbe orientativamente ipotizzare la presenza dell’antico foro romano (fig. 5). Stando alle fonti incise, queste officine diedero vita a delle specifiche associazioni (collegia) a carattere operaio o artigianale, di cui l’epigrafe riferisce con certezza quella dei “dendrofori”, fornitori allo Stato di legname da ardere o di travi per la costruzione di imbarcazioni da guerra (si suppone, quindi, che Roma richiedeva forniture di legname anche alla colonia di Eburum), come pure quella dei “fabri” tra cui si profilano i fabbri ferrai, artigiani del ferro, nonché i vari costruttori di legname pregiato ed architetti di edifici. Altre utili informazioni sul tessuto romano della cittadina sono ad esempio l’augustalità riferita alla presenza in Eburum del culto di Augusto, fedelmente mantenuto attivo dagli “Augustali”, il collegio di liberti preposto all’ufficio di questa devozione divinatoria. Nel testo si deduce l’assegnazione di cifre in sesterzi ai Decurioni, così da assicurare annualmente la celebrazione del patrono, i quali ebbero in Eburum la stessa carica dei senatori romani con piena autonomia legislativa, sia nei confronti dei magistrati che del popolo eburino. Si può brevemente esporre, in tale ambito, che queste associazioni private, i collegia, divennero proprio dal II sec. d.C. degli istituti di carattere religioso, sociale, economico e politico, e si configurano più esplicitamente come associazioni private di culti non pubblici, ma del resto legalmente riconosciuti: trattasi dei “collegia cultorum”. La celebrazione di tale rituale onorario doveva concludersi con una solenne dedicazione di un banchetto pubblico (EPULUM) rivolto alle corporazioni artigiane, ai collegia e a tutte le confraternite suddette, a cui si affiancava una pubblica viscerazione (VISCERATIONEM), ossia una cerimonia sacrificale rivolta agli dei: un rituale per celebrare, al potere divino, il massimo potere supremo in terra che questo popolo ha perpetuato sulla pietra.

 

Conclusione

La trattazione qui presentata è stata, nella massima possibilità materiale dello scrivente, un primo approccio verso l’argomento esposto. È con questo repertorio di informazioni e dati, preziosi alla storiografia locale e non, che si è custodito un fondamentale tassello di storia romana indispensabile per affrontare le radici del popolo ebolitano, ma soprattutto fondamentale per garantire la trasmissione di dati archeologici, presenti nell’entroterra salernitano e scarsamente riconosciuti, alla posterità. Ci si augura, in un futuro sempre più prossimo, che la storiografia contemporanea possa dare alle stampe contributi maggiormente validi volti non solo alla conoscenza della “Stele eburina”, ma soprattutto alla rimanente mole di documentazioni epigrafiche rinvenute in Campania che, assieme a quelle affrontate in questa sede, costituiscono i cardini della nostra storia.

 

 

 



NOTE

[1] Per questo paragrafo e i relativi avvicendamenti, si rimanda a CLEMENTE, 1973, pag. 30 ss.

[2] Sulle nozioni storico-evolutive della città di Eboli, risultano fondamentali i quattro volumi raccolti dallo storico ebolitano Cosimo Longobardi (LONGOBARDI, 1998).

[3] Dal testo inciso sulla “Stele eburina”, si fa riferimento ad un curatore dell’annona: “CURatori REI FRUMENTariae”.

[4] Tito Flavio era anch’esso un duumviro quinquennale: “II(viro) Q(uin)Q(uennali)”. Ma sull’epigrafe si attesta l’assegnazione di alcuni sesterzi anche ad altri quinquennali, come specifica il Mommsen.

[5] Per questo passaggio, si confronti CALABI LIMENTANI, 1991, pag. 145: “… il rapporto esatto e la connessione tra i due titoli ci sfugge …”

[6] L’epigrafe è indicativa di tutto questo. Difatti il patrono eburino in questione viene affidato alla memoria della lapide anche per aver raccomandato la preparazione di un banchetto pubblico e una distribuzione di carne: “ET EPULUM … ET VISCERATIONEM”.

[7] Dal greco  εύεργέτης: con significato di titolo onorifico; “benefattore”.

[8]  Cfr. BACCO, 1628.

[9] Michelangelo Lupoli, arcivescovo di Salerno, nacque a Frattamaggiore di Aversa nel 1765. Scrisse varie opere storiche, archeologiche nonché apologetiche. Fu eletto vescovo di Irsina, arcivescovo di Conza e nel 1831 fu trasferito a Salerno. Muore il 28 Luglio del 1834.

[10] Della statua innalzata sulla stele (?) oggi non rimane alcuna traccia se non degli incavi e i fori presenti sulla parte superiore, che ne fanno supporre l’innalzamento. Per la celebrazione di Tito Flavio Silvano si ipotizza l’erezione di un monumento equestre in quanto si è concordi nell’affermare che chi si occupava dell’amministrazione di una colonia latina, quindi un protettore di un municipio romano, veniva spesso reclutato dall’ordine Equestre. Tuttavia la tesi della rappresentazione “a cavallo” potrebbe anche essere scartata in quanto la modesta dimensione del basamento non avrebbe potuto sorreggere un elaborato scultoreo eccessivamente monumentale.

[11] Anche se nella storia romana in Campania vi sono già stati dei casi di onorificenza da parte del popolo verso un politico al potere, il Pirone nei suoi contributi storici riguardanti la città di Eboli, affermava che il basamento della statua di Tito Flavio Silvano è il “caso unico” in tutta la Lucania in cui un potente rappresentante del governo locale si esplicita come patrono e per questo degno di un così ufficiale riconoscimento pubblico.   

[12] Documentazione estratta dalle schede archeologiche presenti negli «Annali dell’Istituto di corrispondenza archeologica», curati e descritti da Girolamo Matta e Antonio Romano. In tali elaborati, sui rinvenimenti archeologici di Eboli antica la dice lunga il capitolo titolato Scavi di Eboli, vol. IV, a. 1832, pp. 295-304.

[13] Theodor Mommsen (1817-1903), illustre storico, numismatico e grande cultore di scienze archeologiche, si avvicina all’epigrafia di età romana e nel 1847 raccoglie innumerevoli documentazioni sulle iscrizioni epigrafiche del Regno di Napoli pubblicando presso l’Accademia di Berlino, nello stesso anno, il CIL, ovvero il Corpus Inscriptionum Latinarum, uno scrigno di cultura incisa su pietra nonché un fondamentale strumento di ricerca storica. L’intero apparato del progetto, costituito da XVII capitoli, raccoglie gran parte della documentazione epigrafica dell’Impero Romano.

[14] Si rimanda a BRACCO, 1974, pag. 4.

[15] Vedi AUGELLUZZI, 1903.

[16] BRACCO, op.cit., p. 4. Si evidenziano  le difficoltà di lettura nonché di decifrazione che incontra lo studioso: “titulum sinistri lateris, difficilium quidem lectu, recognovimus Barbieri, Panciera, ego”.

[17] Idem, p. 5: “Ego vero dixerim basi quarto saec. Post. Chr. n. novam dedicationem, quae legitur, inscriptam esse atque fortasse novam statuam impositam, Neque improbabile est hunc Flavium Delmatium ad eandem gentem Flavii prioris dedicationis pertinuisse”.

[18] Ad Eboli già nel XVIII secolo furono individuati i locali dove nell’antichità venivano conservati i granai dell’annona. Questi erano siti in località Borgo, precisamente nell’attuale Via Spirito Santo. Sino all’inizio dell’Ottocento. si potevano ancora ammirare gli antichi portali d’ingresso e i relativi magazzini di deposito, i quali furono poi abbattuti nel 1870 ca.

 

 

 

 

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Chiesa parrocchiale di Santa Maria ad Intra
Fig. 1
Chiesa parrocchiale di Santa Maria ad Intra, (secc. XII-XIII)
Eboli, Centro Storico. La freccia indica il luogo dove venne incassata la lapide agli inizi dell'Ottocento

Stele Eburina
Fig. 2
Stele Eburina, basamento della statua equestre di Tito Flavio Silvano, II sec. d.C.
pietra calcarea, 130 x 74 cm.
Eboli, Museo Archeologico di Eboli e della Valle del Sele

Marco Aurelio a cavallo
Fig. 3
FRANCESCO PIRANESI DI GIAMBATTISTA, Marco Aurelio a cavallo, 1785
incisione
La statua fu innalzata nel 176 d.C. e fu da modello per l'erezione di innumerevoli monumenti equestri analoghi, a carattere onorario, indirizzati anche a liberti di medio rango in molte colonie romane

Marco Aurelio a cavallo
Fig. 4
Particolare del testo inciso sul lato frontale della stele, concernente la dedica a Tito Flavio Silvano, II sec. d.C.

Marco Aurelio a cavallo
Fig. 5
Eboli, Località "S. Cosma e Damiano". Scavi effettuati dal 1973 al 1975: resti di locali commerciali, II secolo a.C.P




Foto cortesia di Gianmatteo Funicelli

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