Chissà se, come il Dedalus di Joyce lasciando l’Irlanda,
anche il giovane Ribera, mentre partiva dalla Spagna, pensava di andare ad “incontrare
per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a foggiare nella fucina
della [sua] anima la coscienza increata della [sua] razza”.
Eppure il viaggio in Italia, che Ribera compì molto probabilmente intorno al
1608, da viaggio di formazione divenne “esperienza di realtà” e ben presto
l’artista comprese che la “dimensione” italiana, da passaggio temporaneo si
trasformava in definitiva scelta d’esistenza. La mostra “Il giovane Ribera tra
Roma, Parma e Napoli 1608-1624”,
che il Museo di Capodimonte di Napoli ha dedicato agli anni giovanili
dell’artista, cerca di far luce su di un periodo poco conosciuto della carriera
dello Spagnoletto, provando ad azzardare tentativi, a suggerire percorsi, a
gettare tracce. Insomma sembra sottrarsi alla degradante retorica delle mostre
compilative, noiose ed inutili, che si susseguono nei nostri musei, per
diventare invece momento di studio, strumento metodologico in fieri. I
rischi di tali operazioni sono enormi e gli esiti non affatto scontati, ma occorre
la dovuta riconoscenza quando sono mossi da studi adeguati ed onestà
intellettuale.
Ad una prima analisi l’esposizione risulta abbastanza lineare e
tocca, come già il titolo precisa, tre tappe della carriera dell’artista, ma,
accanto al dato strettamente geografico e cronologico, appaiono in nuce
le problematiche d’analisi che ad ognuno di questi momenti si confanno. Il
passaggio, nell’ordine, tra Roma, Parma, ancora Roma, e Napoli, come la più
recente letteratura ha indicato, è segnato da notevoli difformità, come sempre
avviene negli esordi delle carriere più brillanti. Nessuna strada segnata, ma tante possibili
esplorazioni. Sembra, almeno in parte, cadere l’etichetta di caravaggesco della
prima ora, favorendo una
lettura più aperta, una complessità di ricerca ed una diversificazione del
tutto inaspettata. In questa direzione meglio andrebbe rimodulato anche il
rapporto del primo Ribera con il naturalismo del Caravaggio, provando a
riformulare, sulla scorta del noto saggio di Maurizio Marini “Caravaggio e il
naturalismo internazionale” pubblicato per la Storia dell’Arte italiana Einaudi, la categoria
pittorico-linguistica d’appartenenza. Così per i primissimi anni d’attività
dell’artista spagnolo, anziché utilizzare l’abusata, e forse impropria, definizione
di naturalismo, più opportuna
sarebbe quella di realismo o di
verismo. Infatti nella premessa
del saggio sopra citato, scritta dal Marini a quattro mani con Federico Zeri,
si legge: “Il termine di naturalismo (che, nell’apparente transitività del
sinonimo linguistico, appare univoco - vedi realismo e verismo) all’atto della
definizione pittorica, legata ad angolazioni cronologiche, filosofiche e
ideologiche, assume significati paralleli e, perciò, distinti e in
intersecabili. In tal senso, naturalismo, realismo, verismo, indicano momenti
diversi dell’esperienza conoscitiva e comunicativa di una pittura che guarda al
mondo estrinseco e percettibile”.
Ma tornerò più avanti sulla questione per
meglio chiarirne i termini e gli sviluppi. Facciamo ora un passo indietro e
proviamo a ricostruire brevemente la vicenda biografica dell’artista, tenendo
in sottofondo, come un basso continuo, le indicazioni geografiche e
cronologiche indicateci dall’esposizione. Jusepe de Ribera nasce a Jàtiva,
nella provincia di Valencia nel 1591 e, come scrive Alina Cuoco, nel sempre
utile “Maestro del colore” Fabbri del 1966: “l’oscurità che avvolge i primi
anni di vita del Ribera si riflette sulla precisa conoscenza della sua
formazione”. Per la
vicinanza della sua città natia con Valencia è ipotizzabile un periodo di
primissima formazione in quest’ultimo centro, come ricorda il Palomino, tra gli
allievi di Francisco Ribalta. L’iniziazione artistica in un centro estremamente
attento alla pittura italiana e l’alunnato presso la bottega di Ribalta,
artista attivo in gioventù presso i cantieri dell’Escorial, dove fu sensibile
all’influsso del manierismo riformato di Pellegrino Tibaldi e di Federico
Zuccari ed alle portentose opere dei veneti, sono probabili indizi della linea
poetica seguita da Ribera agli esordi della carriera.
Con tali premesse sembra
che il viaggio in Italia, anziché essere orientato dall’astro di Caravaggio,
fosse un approfondimento su quanto già si andava realizzando in patria ed uno
studio delle “fonti” del tardo manierismo. Infatti, da quanto riportato dal
pittore e teorico spagnolo Martinez, nel corso delle loro conversazioni, Ribera
dichiarò che “l’ammirazione e lo studio lo avevano spinto verso
Michelangelo, Raffaello e Correggio, l’inclinazione verso il Caravaggio”.
Molto difficile è ricostruire l’itinerario del viaggio: alla possibilità
suggerita da Josè Milicua di una traversata Valencia-Napoli si oppone Nicola
Spinosa indicando i pericoli che un simile viaggio comportava all’epoca.
Qualche certezza in più è offerta dalla cronologia: l’arrivo in Italia è da
fissare all’altezza del 1608, ed al di là di altre possibili tappe, troviamo
sicuramente il diciassettenne spagnolo a Roma ad ammirare le opere di
Michelangelo e Raffaello. Successivamente, tra il 1609-10 e il 1611, Ribera si
sposta a Parma dove troviamo i primi documenti certi che attestano il pagamento
all’artista di 109 lire parmensi per la realizzazione di un San Martino
per la Congregazione
di San Prospero, poi trasferito nella chiesa di Sant’Andrea. Anche Giulio
Mancini nelle sue “Considerazioni sulla pittura” (1620) menziona la sua
permanenza a Parma a meditare sul classicismo restaurato dei Carracci e
sull’arte di Correggio e di Parmigianino.
Queste considerazioni sono il miglior
viatico per affrontare la prima opera presente in mostra, la Pietà del
Museo di Capodimonte. La piccola tavola, realizzata tra il 1610 e il 1611,
risale al periodo emiliano e fu attribuita a Ribera da Roberto Longhi, anche
sulla base dell’ inventario farnesiano del 1680. L’opera appare un esordio
insolito per un caravaggesco in stricto sensu, che preferisce al
tenebroso naturalismo un classicismo maturato sulle opere di Correggio e dei
Carracci e permeato da una tonalità che rimanda ad un senso atmosferico quasi
di matrice veneta. Le figure inondate di luce si plasmano in uno struggimento
materico che ricorda le calde sensualità cha dall’ultimo Tiziano portano a
Rubens. Nome, quest’ultimo, da non tralasciare nella formazione dell’artista,
tenendo conto anche dell’ipotesi di una tappa a Genova durante il suo viaggio
verso l’Italia. Le due opere successive, il San Giacomo della collezione
Caylus di Madrid ed il San Tommaso di Budapest, sono grosso modo coeve e
dovrebbero essere state realizzate nel primissimo periodo romano. Entrambe
nella costruzione e nei toni spingono l’adesione al “modello” di Carravaggio
più in là.
Il giovane Ribera versus il Maestro del Giudizio di
Salomone
L’altro nodo che caratterizza l’esposizione è, come spesso
accade, quello attributivo. Allineati nella Sala Causa in serrata sequenza
cronologica, si susseguono quarantatrè dipinti dell’artista, di cui più della
metà, tra cui quasi tutti quelli che segnano l’avvio della fase napoletana,
sono di attribuzione certa. Il problema riguarda principalmente le opere
realizzate tra il primo soggiorno romano e quello successivo a Parma. La querelle
è generata dall’ingresso “in mischia”
di un nome mitico nella
storiografia artistica del Seicento e lungamente dibattuto: il Maestro del
Giudizio di Salomone. L’identità proposta da Roberto Longhi per designare un
ignoto pittore di origini francesi, operante negli anni Venti del Seicento,
raccoglie un gruppo di opere alla cui testa c’è l’omonima tela del Giudizio
di Salomone della Galleria Borghese. Per l’opera del museo romano che,
insieme alla serie degli Apostoli della Fondazione Longhi, di cui sono
presenti in mostra il San Tommaso, il San Bartolomeo, il San
Mattia ed il San Paolo, forma un nucleo dalla sorprendente unità
stilistica, è stato proposto nel 2002 da Gianni Papi il nome del giovane
Ribera. Il Maestro del Giudizio di Salomone era Jusepe de Ribera: per dirla
brevemente il Papi è giunto a tale conclusione sulla scorta dell’analisi
incrociata degli inventari delle famiglie Borghese e Giustiniani e del diplomatico
spagnolo, attivo a Roma ai principi del Seicento, Pedro Cussida. Da questi
documenti è emersa la paternità comune di un gruppo di opere, tutte
attribuibili a Ribera. Spinosa, tra i principali esegeti dello Spagnoletto e
curatore della mostra in questione, dopo un’iniziale ostilità alle tesi di
Papi, si è mostrato convinto delle prove portate a sostegno dell’assimilazione
del Maestro del Giudizio di Salomone con il Ribera operante a Roma. Qualche
dubbio su tale tesi resta: innanzitutto la datazione del Giudizio di
Salomone tra il 1609 ed il 1610 sembra troppo prematura per un’opera che mostra
un’impaginazione classica ed uno sviluppo teatrale dello spazio che appare
quasi protobarocco. Sembra quasi opera di un caravaggesco di seconda
generazione, e perciò lontana da un artista, il Ribera, che all’altezza del
1609 appare ancora incerto sulla strada da percorrere. Inoltre il confronto con
le opere immediatamente successive del periodo parmense, presenti in mostra,
segna una discontinuità molto evidente e difficilmente spiegabile.
A chiudere,
probabilmente, in modo definitivo la questione è giunta nel 2009 la
testimonianza di Alessandro Zuccari, che nel volume “Da Caravaggio ai
Caravaggeschi” ha riconosciuto il Maestro del Giudizio di Salomone in Angelo Caroselli.
La mostra comunque, seguendo la linea indicata dal Papi, allinea una serie di
figure, inquadrate quasi a piano americano, che accrescono il presunto corpus
del secondo soggiorno romano. Spiccano la Liberazione
di San Pietro della Galleria Borghese, precedentemente assegnata a
Pierfrancesco Mola, ed il Mendicante della stessa galleria romana. Quest’ultima opera, realizzata intorno al 1612, è caratterizzata da un
potentissimo realismo, quasi di stampo ottocentesco. La figura vibra come
illuminata da una flebile lampada a
petrolio; le carni arrossate di chi assaggia il primo bruciante caldo
della legna in combustione dopo tante notti al freddo e lo sguardo rassegnato
di chi non ha più spazio per sperare sembrano quelli di un clochard
parigino. Gli abiti consunti e le mani protese ad elemosinare ci ricordano il
dramma dell’esistenza, Van Gogh non è poi così lontano e i Mangiatori di
patate sembrano appartenere alla stessa famiglia.
Verso Napoli “per
la strada di Caravaggio, ma più tento e più fiero”
Gli ultimi anni del soggiorno romano di Ribera ci mostrano
un artista ben inserito nella scena cittadina, come documentato anche dalla sua
presenza alle riunioni dell’Accademia di San Luca. E’ del 1614 l’impegnativa a
versare ben cento scudi per l’edificazione della chiesa dell’ente. Questi sono
anche gli anni decisivi per le sorti della sua pittura, gli anni in cui si
conquista la fama di “seguace di Caravaggio”. Infatti nel 1618 Ludovico
Carracci, in una lettera a Carlo Ferrante, elogia il pittore come uno tra i
maggiori della “scuola” del Caravaggio e, nel 1620, il già nominato Giulio
Mancini legge la sua pittura in chiave naturalistica, ma in direzione ancora
più netta e “più fiera”. Dunque in
ambito romano Ribera allenò l’occhio sulle opere di Caravaggio, ma di grande
suggestione furono per lui anche le “riletture” caravaggesche
operate dai nordici. Sono di questo periodo (1615-16) la serie dei Sensi,
di cui in mostra è presente La vista del Museo Franz Mayer di Città del
Messico, saggio di potente realismo, tra la crudezza iberica ed il
descrittivo analismo fiammingo. Il gusto per l’aneddoto, l’attenzione rigorosa
al dato fisico, una materia calda e pastosa imbevuta di luce lasciano pensare
alle prime opere di Velasquez. Così, al di là di tutte le etichette degli
storiografi dell’epoca, nell’esito pratico l’adesione al naturalismo tarda a
venire, se con tale termine si intende, come scrive il Marini, “l’esperienza
naturale e trascendente (o divina) nella dimensione quotidiana”.
Quella di Caravaggio è una natura anima mundi, dove la luce ha un potere
trascendente di redenzione, il soggetto illuminato è sottratto dalle tenebre.
Luce ed ombra: il dualismo sintetizza in valori estetici visivi la lotta tra
bene e male, la luce rivela la natura ed annulla il male nell’ombra.
Nell’ambiguità del post-caravaggismo si è spesso scambiato il lume di candela per la luce del Caravaggio. Ecco
allora l’utilità del distinguo fatto all’inizio tra naturalismo, realismo e
verismo, e l’opportunità di indicare questi anni della carriera di Ribera non
come naturalisti, ma come realisti o veristi. Infatti, citando nuovamente il
Marini, questi per il realismo scrive che spesso “si tinge…d’insistenti
connotati sociali” e per il verismo che è “parte insostituibile in certa
pittura fiamminga del XVII secolo…facile all’aneddoto, al dettaglio pittoresco,
al simbolo proverbiale”. Mi sembrano queste le caratteristiche più
specifiche della pittura del Ribera romano. Novità nella sua pittura appaiono a
cominciare dalla serie dei Padri della Chiesa o dei filosofi dell’antichità,
come il Sant’Agostino di Palermo, il Sant’Antonio Abate di Madrid
e l’Origene di Urbino. L’opera del periodo romano che più di tutte
presenta intense caratteristiche caravaggesche è la Negazione di
San Pietro di Palazzo Corsini a Roma con le figure immobilizzate dal
dramma.
Nel 1616 Ribera lascia Roma, il trasferimento a Napoli per uno spagnolo
è un po’ un ritorno a casa. Arriva in città d’estate, probabilmente caldissima:
è una “discesa all’inferno” che
segue l’itinerario di Caravaggio. La realtà quotidiana diventa un richiamo
troppo forte, un assillo terribile, violento, che può reggere solo attraverso
il confronto con il potere redentivo e misericordioso delle opere napoletane
del Caravaggio. La visione di dipinti come Le opere di misericordia o la Flagellazione
sono la folgorazione definitiva che orienta in trasfigurazione trascendente
l’esperienza quotidiana. In questo clima sfilano le ultime opere in mostra,
evidenti appaiono anche i contatti con le elaborazioni locali del Caravaggio,
su tutti le opere di Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione e Carlo
Sellitto.
A Napoli Ribera gode di appoggi importanti, tra i quali il potente
pittore Giovan Bernardino Azzolino, di cui ha sposato la figlia nel 1616, e del
vicerè della città, il duca di Osuna. Attraverso anche queste conoscenze la sua
bottega diventa ben presto la più importante della città e realizza un gran
numero di lavori. La Resurrezione
di Lazzaro (1616) del Prado di Madrid è un’opera sontuosa, la luce che “resuscita” Lazzaro è diretta
emanazione divina e lo stupore attonito del gruppo di figure rende più di
qualsiasi commento. Di grande rilievo sono le opere realizzate nel 1618 per la
moglie del duca di Osuna, il Martirio di San Bartolomeo e il Calvario;
quest’ultima presenta sintomi di un caravaggismo di maniera, riletto sugli
affascinanti esempi di Massimo Stanzione.
Le accensioni cromatiche dei panneggi
e il patetismo teatrale appaiono, ancora una volta, una trasgressione del
naturalismo più integrale. La Susanna
e i vecchioni del 1617 dal taglio intensamente teatrale, con la
fisiognomica dei vecchi e con gli
elementi architettonici classicheggianti, può essere un supporto
all’identificazione di Ribera con il Maestro del Giudizio di Salomone, ma
quanti anni separano le due opere. Per concludere meritano di essere citati due
capolavori, il Compianto su Cristo deposto (1620-23) della National
Gallery di Londra, e l’opera che chiude la mostra, La Madonna col
bambino consegna la regola a San Bruno (1624) di Berlino. Il Compianto anticipa
come soluzione la Pietà
del 1637 dipinta per la
Certosa di San Martino, ma con un registro meno drammatico ed
un colorismo neomanierista. La luminosità generata dalla cascata d’oro dei
capelli della Maddalena imbeve tutta la composizione, ed i panneggi si caricano
di calde tonalità. L’opera di Berlino con la Madonna incoronata dalle teste di puttino appare
già carica di istanze neoclassiche e rende merito a quanto suggerito da Alvar González-Palacios sui possibili rapporti dello Spagnoletto
con Guido Reni.
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