Mi scuso da
subito se la premessa sarà lunga e personale ma chiedo pazienza al lettore e
prometto considerazioni e conclusioni che proveranno ad essere universali.
Lo scorso
dicembre sono andata a Berlino perché volevo galleggiare sulla Sprea, insieme
ai musei dell’isola. Volevo vedere questa Germania così ricca da fare tremare
l’Europa tutta, così capace di risollevarsi dalle proprie ceneri, così colta da
investire in arte, architettura e fare dei suoi muri crollati monumeti di
coraggio, colore, libertà. Anche lì, però, ho trovato grande contestazione. Mi
sono imbattuta nel pensiero di un intellettuale tedesco, Ingo Schulze, che,
dopo tre anni di silenzio, era tornato a parlare in pubblico ad un evento
intitolato “Attacco alla democrazia”. Diceva, “Parlare di un attacco alla
democrazia è eufemistico. Una situazione in cui alla minoranza di una minoranza
è concesso, quindi è legale, danneggiare gravemente il bene comune per il
proprio arricchimento è già postdemocratica. Colpevole è la stessa
collettività, perché non si tutela contro questo saccheggio, perché non è in
grado di eleggere rappresentanti che percepiscano i suoi interessi”. E mentre
le risorse di legittimazione della democrazia sociale vengono dilapidate in
questa redistribuzione a vantaggio dei ricchi, il capitalismo non ha bisogno di
democrazia, ma di condizioni stabili. Strutture democratiche funzionanti
possono agire piuttosto come forza contraria e freno al capitalismo, e tali
sono anche percepite, come hanno dimostrato le reazioni all’annuncio del
referendum in Grecia e il suo sollecito ritiro. In Grecia dove tutto è
cominciato: la crisi del modello economico occidentale ma, anche, l’ideale di
bellezza (come giustizia, onestà, ordine del mondo) e la democrazia.
Abbiamo sentito
i politici russi usare il termine “democrazia guidata”, i politici tedeschi
dire “democrazia conforme al mercato” e i politici italiani raccontare e fare
cose che ho pudore a ripetere. E noi ? che cosa abbiamo detto e fatto ? È tutto
così lampante, dice Schulze, “la soppressione della democrazia, la crescente
polarizzazione sociale ed economica tra poveri e ricchi, la rovina dello Stato
sociale, la privatizzazione e con essa la monetizzazione di ogni ambito di vita
(dell’istruzione, della sanità, dei trasporti pubblici, ecc.), la cecità di
fronte all’estremismo di destra, lo sproloquiare dei media, che parlano senza
sosta per non dover parlare dei problemi reali, la censura scoperta o
mascherata (ora come rifiuto diretto, ora sotto forma di audience o format)
e tutto il resto. Gli intellettuali tacciono. Dalle università non si sente
nulla, nulla dai pionieri del pensiero, qua e là qualche sporadico baluginio,
poi di nuovo il buio”.
Ecco da dove
forse bisognerebbe ricominciare, allora, dal pensiero e dalla sua esternazione.
Come traduce Stefano Zangrando sul Corriere della Sera, dal tedesco
all’italiano, la voglia di Schulze di ritornare a parlare, decidendo di
prenderci sul serio e “trovare chi ci è affine nelle idee e nelle opinioni,
perché un linguaggio diverso non lo si può parlare da soli”, “se giorno dopo
giorno ci viene servita la pazzia come fosse la cosa più ovvia, prima o poi
anche noi ci crederemo malati e anormali: è solo questione di tempo”.
Hannah Arendt
aveva considerato l’assenza di pensiero critico “banalità del male” e la
questione civile oggi sembra ancora questa, ritornare a pensare, provare ad
accendere qualche baluginio nel buio, proclamare il nostro disagio per scoprire
il tesoro della nostra sofferenza morale, per comprendere l’intimo significato
della parola democrazia e della parola giustizia, “Idea senza fine e fondamento
di valore della nostra esistenza associata”. In questa mirabile chiamata all’arma
bianca dell’indignazione che è l’ultimo libro di Roberta De Monticelli, La questione civile, veniamo intimati ad
aprire gli occhi, a non rimanere ipnotizzati dall’anestetizzante routine e
dalle cattive abitudini a cui vorrebbero asservirci, a fare delle scelte
consapevoli, a prendere coscienza del disvalore che ci sta divorando la vita,
per dare reale valore ai valori (a parole abusate come: bellezza, giustizia,
nobiltà d’animo), a distinguere il bene dal male. È così difficile? I bambini
di oggi cresceranno in un Paese incapace di assicurare pari opportunità
d’ingresso alle carriere, un’istruzione sufficiente, un’informazione non
strumentalizzata, condizioni minime per esercitare i diritti politici ? La
cultura dell’osceno e dell’indifferenza ci apparterrà irrimediabilmente solo
perché ci è stata imposta per anni o sarà possibile, a uno a uno, cominciare a
contrastarla dalle Alpi a Pantelleria e poi, magari, valicare i monti e
traversare i mari ?
Personalmente,
da qualche tempo ormai, vivo malissimo questa quotidianità teatro
dell’ottundimento delle coscienze. Mi sento svenire ogni volta che ascolto
schiamazzi da pollaio a tutte le ore e su tutte le reti della televisione
italiana che sposa modelli “videocratici” che farebbero inorridire persino
Orwell. Mi avvilisce che il disastro della nave da crociera Costa Concordia
abbia rivelato, a prezzo di vite umane, l’insostenibilità di un modello di
turismo che sfrutta e calpesta le bellezze e il patrimonio culturale non
producendo crescita o benessere (come ha dichiarato recentemente Italia Nostra
costituendosi parte civile al processo e proponendo un turismo consapevole che
porti veri e duraturi posti di lavoro, crescita economica e umana). Mi
tramortisce il poco valore che si dà all’ambiente, alle persone, all’alimentazione,
la disinformazione e l’incomprensione di quello che succede nel mondo. Basisco
davanti all’assenza dei politici, ai limiti dei tecnici, agli abusi, ai
soprusi, ai condoni, alla speculazione edilizia. Non capisco tutto il denaro e
la violenza che hanno investito lo sport nazionale, il calcio, e tutte le sue
propagini del gioco, compresa la liberalizzazione e l’accesso su internet dei
giochi online da casinò e affini dove il dispendio diventa invisibile. Vorrei
morire quando mi accorgo del proliferarsi di localini, con sfruttamento di
avvenenti ragazze dell’est, spesso rifatte, che il più delle volte finiscono
poi in giri di prostituzione coofinanziati dai maschi della specie. Ho pianto
quando una delle donne dell’harem dell’ex presidente del consiglio ha fatto la
lucida analisi del “mio bel paese” (trasformando le due parole vicine, “mio” e
”belpaese”, in due note marche di formaggini che si scioglievano al sole),
“Quando sei onesto non fai business, rimani nel piccolo, per avere successo devi
passare sopra i cadaveri degli altri ed è giusto che sia così. La bellezza è un
valore e il valore si paga”. Ne stavo facendo quasi una malattia, davvero, fino
a quando De Monticelli non mi ha spiegato che invece i miei sono “esercizi
spirituali del disgusto”, oggi più che mai necessari come conoscenza
approfondita del disvalore. Bisogna soffrire fino in fondo per comprendere il
fenomeno di questa catastrofe etica ed estetica e provare a reagire. Non
notarlo più o, peggio, avallarlo con superficialità è la forma più evidente di
consenso alla banalità del male. Da questi esercizi proviamo a muovere i
concetti di consapevolezza individuale e responsabilità collettiva, a
sviluppare la capacità di mettere a fuoco con esattezza la relazione fra
bellezza che stiamo dissipando (catastrofe estetica) e il tragico nascosto
dietro al grottesco (catastrofe morale e civile). Ecco, adesso io sto reagendo.
A costo di gridare nel deserto, trasformare la mia quotidianità in un campo di
battaglia, sarò il cambiamento che chiedo al mondo.
Ti ringrazio
lettore per avere avuto pazienza e stomaco d’arrivare a leggere fino a qui e
arrivo al dunque, al pensiero pratico. La mia proposta è quella di opporre a
questi “modelli videocratici”, i miei “modelli museocratici”. Negli ultimi anni,
l’esistenza associata e la vivibilità del pianeta sembrano avere perso
importanza per l’individuo sempre più alienato da paura, viltà, egoismo, ormai
sempre più incapace di scegliere il bene comune e la cura sana di sè, delle
relazioni profonde, del proprio tempo. Al modello del vincere facile, delle
amicizie di sconosciuti online, dei ritmi frenetici che impediscono di “stare”,
dell’eterna giovinezza e della falsa bellezza (a vantaggio della chirurgia
plastica) che generano enormi difficoltà ad invecchiare serenamente
(consapevoli, saggi, maturi come solo i grandi vecchi sanno), della ricchezza
materiale, del consumo spropositato rispetto alle reali esigenze, i musei
oppongono un modello basato sull’importanza del valore, del talento, della
storia come maestra di vita, della contemplazione, dell’antico sempre giovane,
della selezione di ciò che conta, della ricchezza spirituale. Le attività
culturali all’interno di un museo (laboratori per tutte le fascie d’età,
concerti, presentazioni di libri, residenze d’artista, performance, ecc.)
invitano ciascuno di noi a riflettere su se stesso e sul proprio tempo, a
stimolare il pensiero creativo e il problem
solving, a creare relazioni sane,
a sollecitare la capacità critica e immaginifica che sola ci può salvare da
ogni crisi di qualunque portata essa sia.
Non tutte le
crisi vengono per nuocere, anzi, alcune sono fondamentali per la rigenerazione.
Allora, cerchiamo di trarre profitto spirituale dalla crisi materiale. Siamo
diventati poveri? Lo faremo con umiltà. Abbiamo esaurito le risorse? Lo faremo
con idee semplici.
Come ha
raccontato Adriana Polveroni pronunciandosi in diverse occasioni sull’economia
della cultura e sui musei, “la crisi non è il male peggiore, più profondo è un
altro buco che ha messo in luce, qualcosa che non si voleva vedere, nascosto
com’era dallo scintillio dell’arte. Dell’arte che imita la moda, che ripiega
nel lusso, che prende a prestito la vita e fa finta di spensierarsi. Ora, la
fine dei soldi ha rivelato la mancanza del senso. La rinuncia a esercitare un
pensiero critico rispetto al mondo in cui si muove. Il quale però ha ancora
fortissimo bisogno dell’arte, se non altro per quella sua inalienabile capacità
di rinnovarsi, di produrre nuovi linguaggi”. Così cominciano a proliferare mostre
“sociali”, compiacenti o sovversive, purché capaci di cambiare il nostro
sguardo sulle cose. Due, che trovo molto intelligenti, da pochissimo concluse:
al Prado di Madrid, Spectaculum
spectatoris (un film di tre minuti passato in molte sale cinematografiche
spagnole e una videoinstallazione di seicento ritratti effettuati da Francesco
Jodice a singoli, coppie, studenti, famiglie, addetti ai lavori, ripresi di
notte nelle sale deserte del Prado; per scardinare la struttura del museo,
mettendo al centro, insieme ai capolavori, chi lo rende vivo: i suoi
visitatori); e alla Strozzina di Palazzo Strozzi a Firenze, Declining Democracy. Ripensare la democrazia
tra utopia e partecipazione (dodici artisti internazionali affrontano temi
come: lo scontro tra individuo e collettività, la distanza tra i cittadini e la
classe politica, il potere e le influenze delle lobby economiche e dei mass
media, l’immigrazione, i diritti civili).
Negli anni
settanta del Novecento lo avevano già prefigurato Pietro Romanelli (allora
direttore generale Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica
istruzione), in un fondamentale convegno, Il
museo come esperienza sociale, e Franco Russoli (allora soprintendente alla
Pinacoteca di Brera), “occorre spezzare l’immagine cristallizzata del museo,
dimostrando che si può vivere, attraverso il più libero dialogo con le cose
della natura e le testimonianze della storia, la vicenda quotidiana del nostro
rapporto con la realtà”. Lo ha ripetuto recentemente Alberto Garlandini
(presidente di Icom Italia), “i musei del XXI secolo non sono più solo istituti
di conservazione del patrimonio culturale e della memoria storica. Hanno una
dimensione sempre più sociale e sono servizi pubblici al servizio delle
comunità, producono e comunicano saperi, cultura, creatività. Sono agenzie per
la mediazione culturale, per il dialogo interculturale, per la coesione
sociale. Aprono le menti e aiutano a comunicare con il mondo. Danno nuova linfa
alle identità e alle radici culturali; creano senso di appartenenza; potenziano
le attrattive dei territori; migliorano la qualità della vita”. Bisogna
strutturare questo modello, qualificarlo, qualificando la professionalità di
chi ci lavora.
Sulla
trasformazione sociale dell’arte e del museo, come spazi di continua riflessione
socio-antropologica e attivatori di sviluppo, rimando a due testi di recente
pubblicazione (Gabi Scardi, Paesaggio con
figura, Allemandi; e Loriana Ambrusto e Massimiliano Vetere, Slow Museum, Silvana Editoriale) e torno
nuovamente al dunque. Il museo, attraverso l’apprendimento informale, e scuola
ed università, attraverso l’apprendimento formale, dovrebbero sostenere la
lotta all’ignoranza diffusa che acceca le speranze di un futuro sostenibile e
che non è solo “scarsa scolarità” ma anche “perdita dell’organizzazione mentale
e della cultura materiale legata ai mestieri”. E che, aggiunge ancora De
Monticelli, “riguarda molti di noi che abbiamo avuto il privilegio
dell’istruzione, che nelle professioni e fuori di esse potremmo e dovremmo
contribuire quotidianamente alla qualità della vita e della coscienza morale,
civile e intellettuale sulla quale si regge una democrazia”.
Proprio in
questi giorni, dopo avere occupato diversi teatri in tutta Italia, gli
operatori culturali della penisola si sono dati appuntamento al Museo Madre di
Napoli, “consapevoli che qualsiasi trasformazione non può che nascere da una
centralità della cultura intesa come creazione e condivisione di pratiche e
saperi”, chiedono “la costruzione di un discorso pubblico con i soggetti che
dal basso e quotidianamente fanno esistere i beni comuni producendo alternative
sociali, economiche e giuridiche”. Non li volevano fare entrare, sono entrati
lo stesso. Lo Stato dovrà interrogarsi sulla risposta che sta avendo dalle
privatizzazioni e dalla gestione dei fondi pubblici e sui giovani che reclamano
lavoro, dignità, formazione, pane e cultura. Sono dei teppisti? Non credo. Mi
sembrano gli stessi che hanno fatto cordone davanti al Museo Egizio del Cairo
per difenderlo, sotto i colpi dei cecchini che sparavano dai tetti; gli stessi
che hanno colorato di vita quel muro di morte che aveva diviso Berlino; gli
stessi che hanno aiutato L’Aquila a riportare alla luce il patrimonio storico
artistico dopo il terremoto. Gli stessi che sono andati dove non li volevano
fare andare, a riprendersi quei valori per cui vale la pena vivere.
James Hillman
diceva che preparare del cibo in modo sciatto, indossare una giacca cucita
male, non ascoltare il cinguettìo degli uccelli o non fermarsi a contemplare il
crepuscolo significa ignorare il mondo. “Questo stato di ignoranza, questa
anestesia, è la condizione umana attuale ed è sostenuta e favorita dalla nostra
economia, dal nostro modo di impiegare il tempo libero, dall’uso che facciamo
dei nostri mezzi di comunicazione e dal nostro modo di curarci. [...] Ho il
sospetto che favorisca la passività politica del cittadino euro-americano e
quindi aiuti i poteri dominanti a proseguire, senza impedimenti, sulla loro
rotta rovinosa” (La politica della
bellezza, 1999, tradotto in Italia nel 2010). Io penso che tutti dovrebbero
leggere James Hillman almeno una volta nella vita.
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