Può una mummia essere considerata
alla stregua di un dipinto, di un affresco, di una scultura, insomma di una
qualsiasi opera d’arte? La mia risposta è sì se abbandoniamo la paura di
trovarci di fronte alla morte. Quando Alfredo Salafia - imbalsamatore
dilettante ma anche molto richiesto da nobili, politici e cardinali dell’epoca
- si trovò a tu per tu con il cadavere della piccola Rosalia Lombardo strappato
alla vita all’età di due anni il 6 dicembre del 1920 da una delle malattie più
virulente dell’epoca, la difterite, si immedesimò nel dolore che quella
prematura scomparsa aveva inflitto nel cuore dei suoi genitori e mai, come in
quel caso, ne volle fare un vero e proprio capolavoro. Voleva ingannare la
morte e renderla più simile a un sonno dolce e profondo. Un sonno dolce e
candido che si è conservato fino in tempi recenti, quando il volto della
piccola Rosalia era ancora roseo e paffuto. I suoi occhi ancora completamente
chiusi e ornati da lunghe ciglia come quelli dei bambini quando si abbandonano
al loro sonno ristoratore.
E’ bella tuttora, nonostante le
vicissitudini subite dal suo piccolo corpo, figuriamoci quando Salafia terminò
di imbalsamarla. Sua madre, come testimoniano anche i parenti, l’aveva vestita
per quell’ultima occasione con un vestitino blu sopra le ginocchia, i codini
con i fiocchetti dello stesso colore, i calzettoni bianchi e le scarpette blu.
Sembrava una scolaretta pronta per andare a scuola. Ma non è rimasta sempre
così, probabilmente perché il suo piccolo corpo ha richiesto negli anni degli
interventi di restauro. Ma rimane il mistero su chi possa averli compiuti.
Probabilmente si dovette a un certo punto procedere a coprirne il corpo con una
copertina e questo perché la malattia che le aveva devastato alcuni organi
interni di importanza vitale, quali il cuore, ne aveva anche in parte
compromesso l’apparato circolatorio.
E allora, Alfredo Salafia, un
genio autodidatta dell’imbalsamazione tramite iniezioni intravascolari, si era
trovato davanti a una sfida. Aveva già imbalsamato un centinaio di corpi, ma
mai gli era probabilmente capitato di trovarsi di fronte a un corpo devastato
da una malattia così cruenta. Il batterio che causa la difterite, Corynebacterium diphteriae, una volta in corpo produce delle
tossine che diffondendosi nel corpo a partire dalla gola scelgono alcuni organi
bersaglio. Uno di questi sono le mucose della laringe, dove addirittura formano
delle membrane grigiastre rendendo la respirazione assai difficoltosa. In
seguito la tossina difterica rapidamente si
diffonde a tutto l’organismo e danneggia in modo particolare il tessuto nervoso, il miocardio, il surrene e il rene.
Non va poi dimenticato che anche
l’imbalsamatore sarebbe stato esposto a dei rischi sanitari, dato che, onde
evitare un ulteriore e veloce deterioramento dei tessuti di quel piccolo
cadavere, dovette procedere immediatamente ad imbalsamarlo, eludendo
naturalmente le leggi dell’epoca. Il regolamento di polizia mortuaria imponeva
che una richiesta scritta al sindaco della propria città venisse inoltrata
prima di procedere all’imbalsamazione del corpo di un defunto. Nella richiesta
doveva essere indicato il metodo con cui si intendeva procedere nell’operazione
ma non le sostanze utilizzate. In seguito il corpo del defunto veniva portato
all’obitorio dove veniva tenuto in osservazione per 24 ore, accertandone le
cause del decesso ed escludendone quindi azioni di tipo criminoso.
Naturalmente è impensabile che
qualcuno avesse mai potuto dare il permesso di imbalsamare un corpo stroncato
da una malattia infettiva così virulenta. Basti pensare che l’agente patogeno
che la provoca non ha bisogno di essere ospitato in nessun organismo per
sopravvivere. E’ infatti in grado di resistere discretamente nell’ambiente esterno all’asciutto e al freddo. Due studiosi hanno calcolato che la sua sopravvivenza in
condizioni particolarmente favorevoli, può arrivare addirittura a 244 giorni.
Come testimonia il palermitano Michele Gerbasi, un famoso pediatra dell’epoca,
in una sua memoria sulla difterite a Palermo negli anni 1919-25, questa
malattia era ampiamente diffusa in città a causa delle precarie condizioni
igieniche. All’epoca di Salafia, ancora non esisteva il vaccino e uno dei modi
per curarla era la somministrazione tempestiva di un anti-tossina (siero
anti-difterico), difficilmente reperibile o comunque a volte non proprio
efficace in base alla sua stessa composizione. Bastava che la quantità di
anti-tossina contenuta nel siero non fosse abbastanza per non assicurare la
guarigione del malato.
Salafia però accettò la sfida,
proprio come un artista si fa completamente assorbire dalla sua arte. E così
Mario Lombardo, il padre di Rosalia, pur di dare un ultimo saluto alla sua
piccina, dato che al momento del decesso si trovava fuori per lavoro,
acconsentì all’imbalsamazione del suo piccolo corpo, pur sapendo che la sua
bambina non sarebbe potuta più uscire dal luogo dove Salafia l’aveva
imbalsamata: le Catacombe dei Cappuccini di Palermo.
Il più grande imbalsamatore del
secolo scorso, caduto ingiustamente nel dimenticatoio, aveva regalato alla
morte uno dei monumenti più belli con cui potesse essere raffigurata. Non i
teschi dei quadri seicenteschi, non l’urlo sofferente dei Santi martoriati di
tante opere d’arte. Ma il volto dormiente di una piccina abbandonata ai sogni
innocenti dell’infanzia.
Per me, divenne una piccola amica
dato che la prima volta che la vidi avevo pochi anni più di lei. Ingannata
dall’arte di Salafia, da allora accettai di avere una mummia per amica !
Riferimenti bibliografici
Lanza T., Rosalia per sempre,
ed. Lulu, 2008
Lanza T., On Rosalia Lombardo’s causes of
death and the method used by Alfredo Salafia to Embalm her, Journal of
Paleopathology, Sett. 2011
Gerbasi M., Osservazioni
statistico-cliniche sulla differite infantile a Palermo nel periodo 1919-1925. Annali di
clinica medica e di
medicina sperimentale, N.S., 16, fasc 2, Istituto di clinica pediatrica della R. Università di Palermo, 1925 (?)
|