«Tutto ciò che è intelligente è già stato pensato;
basta cercare di pensarlo di nuovo».
Goethe
La bellezza è o appare ? Ma la
bellezza se non appare può essere? Ma, poi, quale bellezza ? Diceva Ovidio nei Tristia: «bene qui latuit bene vixit»
: è vissuto bene chi ha saputo stare ben nascosto. Ma, come si fa a capire se una
persona è vissuta bene se non è apparsa ?
Come sappiamo riconoscere il bello, il buono, l’utile ecc… se non appaiono ?
E comunque sia, tra essere e apparire è sempre un vero guazzabuglio.
Dopo questo strano incipit tra essere e apparire e tra
essere ed apparire del bello, del bene e del giusto vorrei azzardare un'ipotesi di corrispondenza tra l’arte classica e
l’aniconismo geometrico dell’ultimo secolo, e segnatamente il neoplasticismo di
Mondrian.
Niente di più lontano,
all’apparenza. Ma, andiamo con ordine.
Quando si parla di arte, di
armonia e di bellezza bisogna sempre fare i conti con la Grecia e cioè col concetto di classico.
Abbiamo detto “concetto” a bella posta, perché il
termine classico non indica un
periodo storico ben definito, quanto una visione
particolare dell’arte intesa come perfezione assoluta, perché ispirata a valori
universali ed eterni.
Precisiamo meglio il termine.
Classico deriva dal latino classicus,
che indicava il cittadino che apparteneva per censo alla prima classe, quindi
in senso traslato classico significa esemplare, di prima qualità, e quando si
parla di arte ci si collega automaticamente all’arte greca, mentre l’altro
termine dal primo derivato, classicismo,
riguarda determinati momenti storici, in cui si fa riferimento ai modelli
classici.
Aristotele
nella Fisica sostiene che l’artista,
pur imitando la natura, non lo fa per realizzare delle copie, ma per idealizzarla
in modo da renderla priva di errori (ad esempio nei ritratti e nelle sculture) .
In
altre parole, il filosofo sostiene che l’arte affina e arricchisce ciò
che la natura ha fatto .
E tutto sommato, non possiamo
dargli torto relativamente all’arte greca classica, essendo rimasta
insuperabile e insuperata attraverso i secoli, se non i millenni, quanto a
perfezione, armonia e bellezza ideali.
Ci chiediamo: come poté accadere
siffatto fenomeno in un periodo che va orientativamente dal 480 al 440 circa?
Anche Egizi e Persiani, da cui
pure attinsero i Greci, pervengono a determinate vette stilistiche, ma mai potrebbero
essere paragonare alla perfezione dell’arte classica.
Due sono i motivi che riteniamo
fondamentali: uno politico e l’altro squisitamente culturale e filosofico in
particolare.
* Andiamo al fatto politico. Sia
in Egitto che in Persia c’è un’organizzazione statale fortemente centralizzata
e gerarchizzata, conseguentemente anche l’arte mostra qualcosa di statico ed
immutabile. Un po’ come avviene nei regimi totalitari quando essa si fonda su
un determinato modello applicativo e non sulla fantasia, perché in tal modo
l’arte e gli artisti, anarchici per eccellenza, possano essere meglio
controllati.
Infatti, sia gli Egizi che i
Persiani usano l’arte figurativa a scopo comunicativo e di promozione politica,
laddove i Greci se ne servono per raggiungere il massimo grado di perfezione,
di bellezza e di conoscenza, appunto perché l’arte greca riceve impulso dal
clima di libertà e democrazia, che garantisce al cittadino della polis una più fattiva partecipazione
alla vita politica e crea, ovviamente, le premesse per una libera espressione.
Invece, un regime qualsivoglia imprigiona la fantasia e la libertà creatrice.
* Ma la sola libertà politica non
basta per arrivare a certe vette espressive, altrimenti nella contemporaneità
dovremmo essere al top. Sono necessarie ben altre premesse come l’ansia di
conoscenza, che permette di dare ordine al mondo e di comprenderlo. In Grecia
questo è il compito assegnato alla filosofia e quindi al linguaggio, modello
chiave per manifestare il pensiero, onde la superiorità della filosofia sulla
poesia ad esempio, nonché sulle altre arti. Infatti, nonostante i vertici di
perfezione raggiunti, l’arte greca non godette della stessa considerazione
della filosofia e nemmeno della poesia e gli artisti stessi sono considerati
artigiani, onde la parola téchne per
indicare l’arte figurativa. Non solo. Nella categoria sono compresi anche i tessitori,
i calzolai e gli stessi architetti. Inoltre, qualunque artigiano, se diventa
esperto, può essere annoverato nella classe dei maestri: architèkton.
Da notare che il termine tèchne è sostanzialmente diverso da come
lo intendiamo noi, poiché comprende: a) l’attività umana opposta a quella
spontanea della natura, b) la produzione manuale, c) la relazione con l’abilità
e non con l’ispirazione, d) la conoscenza di norme operative generali.
Pertanto, attraverso la tèchne e la sua abilità nel riprodurre
un corpo, ad esempio, l’artista mette in essere un còsmos simile a quello che si riscontra nella realtà, in quanto ha
la possibilità di trasformare i propri mezzi espressivi e di adeguarli alle
necessità, di modo che il riguardante colga un piacere estetico nel momento in
cui opera e realtà si compenetrano. Cioè nel momento in cui bellezza e
conoscenza diventano un tutt’uno.
Questi concetti affondano le loro
radici oltre che nella filosofia nella visione che ebbero i Greci della
matematica. Basti pensare a Pitagora e ai Pitagorici per i quali il “numero è
la sostanza di tutte le cose”, intendendo con ciò che la vera natura del mondo
e delle singole cose è costituita da un ordine geometrico esprimibile con i
numeri e quindi calcolabile. Di conseguenza il grande merito dei pitagorici
consiste nell’aver dato alla natura una struttura quantitativa e come tale
misurabile. Essa, per tale motivo, diventa qualcosa di oggettivo.
L’uomo stesso, in quanto natura,
può essere interpretato attraverso le idee matematiche che considerano anche
l’anima umana come “armonia”, cioè come composizione armonica delle parti che
compongono il corpo.
In altre parole, tutte le cose
sono costituite da numeri, di conseguenza la natura del mondo è costituita da
un ordine geometrico esprimibile in numeri, cioè misurabile.
Lo spirito matematico rimane una
costante nell’arte greca applicata alla natura e quindi all’uomo in quanto
natura.
Nell’espressione artistica
ellenica, di cui ci rimangono architettura, scultura e ceramica, un buco nero è
rappresentato dalla pittura, perché di essa non abbiamo documenti anche a causa
della deperibilità dei materiali. Conosciamo solo i nomi di alcuni pittori quotati all’epoca, ma niente di più.
Tra questi uno ci è pervenuto in
modo insistente: Policleto, autore di un’opera andata perduta Il Canone e inventore, ovviamente, di un
canone rappresentativo, ma di cui non conosciamo quasi nulla, e ciò che
sappiamo lo apprendiamo per via indiretta. Egli diceva ai suoi contemporanei
relativamente al nudo: che ogni linea, dalla punta dei piedi all’ultimo capello
del capo, era calcolata e ogni superficie dipendeva da un minimo tocco, da un
graffio d’unghia.
Questa simmetria perfetta dataci
dall’equilibrio e compenso dei
rapporti tra numeri costituisce l’essenza dell’arte classica.
Molti studi sono stati fatti per
comprendere di quali rapporti si trattasse ma i risultati sono stati scarsi,
possibilmente questi si cercano fra misure aritmetiche laddove Policleto si
riferisce a rapporti tra misure geometriche.
Molto si è discusso anche attorno
alla famosa frase di Vitruvio, vissuto nel I° secolo a.C., per il quale le
costruzioni sacre dovrebbero avere le stesse proporzioni del corpo umano, il
quale a braccia e gambe aperte può essere circoscritto dalle forme geometriche
perfette: il quadrato e il cerchio. A lungo gli studiosi e gli artisti hanno
cercato di individuare visivamente quell’anello di congiunzione fra sensazione
e composizione, fra il principio organico e quello geometrico della bellezza.
Senz'altro chi si è avvicinato maggiormente alla sintesi vitruviana è stato
Leonardo.
Comunque sia, anche se di
difficile interpretazione un canone per la rappresentazione della bellezza
delle figure maschili dovette esserci.
Invece, per quel che riguarda la
bellezza e l’armonia nelle proporzioni delle statue femminili una regola
esiste. Essa consiste nell’uso della stessa unità di misura tra la distanza dei
due seni, tra il seno più basso e l’ombelico e fra l’ombelico e la divisione
delle gambe.
Il rebus riguarda il nudo
maschile, importantissimo tra i Greci e motivo di orgoglio, perché si ricollega
alla loro filosofia. Infatti, il corpo rappresenta la compiutezza umana in
quanto insieme con lo spirito sono un’unica cosa, per cui la bellezza e
l’armonia delle forme corrisponde anche ad un ideale etico fatto di equilibrio
tra forza e grazia, realtà e ideale, religione e filosofia.
Conseguentemente, forma e materia
esprimono un’unica sensibilità. L’artista greco non vuole rappresentare un
uomo, ma l’uomo, così come il filosofo
sostiene che la conoscenza non è parziale ma universale. Non per nulla il mito,
come espressione di un significato universale della relazione tra le cose, è
nato in Grecia.
In sintesi, i corpi dalle forme
ideali perfette ed armoniche, i templi otticamente assoluti non sono altro che
la manifestazione del primato dell’Idea nella quale è nascosta la natura delle
cose. Essa, secondo l’ultimo Platone, è viva e si fa sentire perché il bello è in rapporto costitutivo con il vero e con il bene. Il bello, così, rivelando la struttura della realtà, ha
funzione veritativa in quanto ne esprime la bontà, essendo essere e bene la stessa cosa.
Tuttavia, a ben vedere, con la
filosofia greca si origina quel dissidio tra idea e materia, tra idea e realtà.
Così il corpo resta sempre condizionato dal destino del còsmos e quindi dal tempo. Per evitare questo esso deve essere
perfetto, non corrotto dal tempo appunto e conforme all’Idea, deve esprimere
cioè equilibrio tra la forza fisica e la grazia, equilibrio tra materia e l’idea,
equilibrio tra l’antica religione e la nuova filosofia.
Ecco perché l’arte classica greca
non è più perfezionabile, può essere solo modello da imitare. Basta osservare
sia l’Apollo di Kassel o anche l’Apollo Tiberino o l’Hermes di Prassitele. Quest’ultimo in particolare rappresenta la
sintesi perfetta tra forma e materia. Infatti, esse, come dicevamo, corrispondono
per i Greci ad un’unica sensibilità, che prevede insieme forza, grazia,
gentilezza, benevolenza.
A questo punto, vogliamo
sottolineare, che ogni espressione del pensiero umano ha anche un suo rovescio.
Perfezionando la materia sempre più, il rischio è quello di cadere nel
formalismo oppure nel mero potere della materia. Nel primo caso si presta meno
attenzione al contenuto e più all’apparire, nel secondo caso (mettendo in
parentesi quel concetto di bellezza e armonia che abbiamo visto) la forma più
perfetta della materia diventa il cerchio onde nell’Ellenismo la presenza di
sagome arrotondate per rendere la forma più
forte e per accentuare la massa muscolare. Direbbe Alois Riegl che dal tattile si era passati all’ottico.
Con alterne vicende i precetti
dell’arte classica attraversano i secoli ogni volta interpretati in vario modo.
Ad esempio, il problema della
genesi dell’arte medievale dal mondo classico è complesso e tutt’ora aperto. È
certo che l’eredità classica rimane, invece, tra gli scrittori relativamente a
lingua e stile. Essi continuano la tradizione, anche se la spiritualità è
assolutamente diversa, perché da pagana diviene cristiana.
Eredi, invece, della classicità
si proclamano gli artisti, in senso lato ovviamente, dell’Umanesimo e del
Rinascimento.
Lo stesso Barocco col sostenere
il disgregamento della classicità si deve necessariamente rifare ad essa.
Alla classicità torna il
Neoclassico, e la stessa querelle ottocentesca tra classico e romantico non fa
altro che mantenere viva la tradizione.
Con la fine dell’800 e
l’opposizione kantiana tra bello e
sublime l’arte prenderà un’altra direzione, di cui si dirà.
A questo punto, la domanda è:
nell’ultimo secolo c’è stata una corrente artistica che si è avvicinata
all’armonia, al rigore, se non al pensiero, del mondo classico ?
Andiamo con ordine e teniamo
presenti due principi.
a) Già nell’età classica la
rappresentazione del corpo presentava in se stessa una buona dose di
astrazione.
b) Un aniconismo geometrico
percorre costantemente i secoli, a parte nei vasi dell’età arcaica in Grecia,
nell’antico ebraismo, nel giudaismo medioevale, nell’Islam soprattutto, ma
occasionalmente anche nella cultura cristiana a seguito di alcuni movimenti
iconoclasti.
La teologia a partire dalla
patristica indica la “via pulchritudinis”,
come possibilità di avvicinarsi all’umanità del Cristo.
Ma già Vico nel primo capitolo
dell’opera L’antichissima sapienza degli
Italici dice: «verum et factum convertuntur» cioè «vero e fatto si
convertono», più esplicitamente il vero è il fatto. E se il vero è il fatto l’assunto ci rimanda anche all’arte che per ciò rimane
separata dal mondo della bellezza.
Kant nella Critica del giudizio allontana definitivamente il bello della natura che è il sublime, dal bello dell’arte.
Conseguentemente, a partire dal
Romanticismo il bello non sta nella
cosa, come nei secoli precedenti, ma negli occhi di chi guarda.
Da questo momento in poi, l'opera
d'arte chiama in causa la filosofia; si fa meta-arte ed in molteplici correnti
artistiche si traduce nell’uso di materiali desueti, fino a congiungersi con il
residuale, con l'immondizia.
Nel momento in cui entra in scena
la filosofia dell’arte in relazione allo sguardo dello spettatore i giudizi, le
linee di interpretazioni si moltiplicano, si intersecano, si addizionano senza
un vero filo conduttore.
Diceva Erza Pound: «La bellezza è
difficile». Siamo già a metà XX secolo. La bellezza è difficile da rendere in
una forma, da decifrare, e soprattutto da intendere.
Tenuto presente quanto sopra, ci
chiediamo: il ‘900 propone un’espressione artistica che tende a rendere l’idea
di bellezza, magari in forme diverse da come l’intese l’arte classica ma ad
essa collegata quanto a rigore formale e contenutistico ?
Sembrerebbe paradossale, ma a
nostro avviso la corrente artistica che più si avvicina all’armonia dell’arte
classica è il Neoplasticismo e
segnatamente l’opera di Mondrian, e in forma molto larvata, e con intenti più
sfumati quanto a coerenza poetica ed estetica, il Suprematismo di Malevich.
Platone nell’Ippia Maggiore fa
dire a Socrate: «... Infatti ora cerco di parlare della bellezza delle figure,
non come potrebbero intenderla i più, per esempio come bellezza di esseri
viventi e di pitture, ma … intendo qualcosa di rettilineo e circolare e le
figure piane e solide che se ne generano per mezzo di compassi righe e squadre .
Infatti, affermo che queste figure sono belle non in senso relativo come le
altre, ma sono belle in se stesse per natura, e posseggono certi piaceri
propri, per niente comparabili a quelli dei grattamenti. Anche i colori sono
belli e procurano piaceri allo stesso modo» .
Beh ! Guardando le opere dei nostri due artisti
sembra che siano stati ispirati da questo brano, ma certamente è un’ipotesi
errata, perché, come si sa, sono giunti alla geometria attraverso l’incontro
col cubismo, che li porterà a considerare arte la geometria pura, nonostante le
due personalità risiedano in zone geografiche assai distanti e senza contatto
tra loro. Questo potrebbe essere un esempio lampante della penetrazione delle
idee dello “Spirito del tempo” (che i Tedeschi indicano con Zeitgeist), le quali riescono a superare
le barriere imposte da governi, prigioni o guerre.
Sia il Suprematismo che il Neoplasticismo
hanno alla base un’estetica fatta di metodo, misura, regola, e una poetica
costituita da una particolare concezione del mondo secondo cui l’umanesimo non
è morto e per questo bisogna aiutare gli uomini a vivere attraverso la
chiarezza delle strutture e delle luci. A parte questo, le due strade
divergono.
In questo contesto, mettendo in
parentesi il Suprematismo
malevitchiano, sarebbe opportuno ai fini della dimostrazione della nostra
ipotesi, soffermarsi, invece, sul Neoplasticismo
e, segnatamente, sulla personalità di Mondrian, il quale per gradi giunge a
rifiutare di illustrare la realtà in
favore della sua rappresentazione.
Sosteneva Alois Riegl, già alla
fine dell’800 che qualsiasi arte ha il proprio fondamento nella realtà sia che
l’artista la riproduca tout court sia
che la trasformi per un proprio bisogno o per un proprio piacere.
Mondrian, infatti, inizia il suo
percorso artistico da raffigurazioni che hanno un referente reale, vedi
l’albero, per giungere a sintesi sempre maggiori nelle quali la realtà non è
più riconoscibile, per cui colori e segni acquistano una totale autonomia.
Infatti, l’artista nel momento in
cui abbandona la rappresentazione si rende conto della necessità di un codice
sostitutivo rigoroso, fatto di equilibri cromatici e spaziali, che gli
consentano di arrivare ad un concetto di assoluto,
realizzato attraverso forme geometriche in cui misura e colore si compenetrano,
mentre le superfici diventano nettamente timbriche, cioè senza variazione
alcuna del colore. Il suo ossessivo obbiettivo è quello di rappresentare
l’equilibrio divino, sostegno dell’universo.
In altre parole, un dipinto della
massima astrazione in Mondrian, buon conoscitore del neoplatonismo, ha radici sì
nel reale, come i corpi della Grecia classica, ma, i suoi lavori non evocano
una visione, bensì una concezione della realtà, realtà che
viene superata in favore di rapporti universali che tendono, come dicevamo, a
cogliere l’assoluto.
Così, nel passaggio dalla presentazione della realtà alla rappresentazione, la sua visione si fa
astratta, assoluta, atemporale e si pone su livelli di armonia, composizione,
equilibrio, che possiamo dire aderenti ancora alla categoria estetica del bello
e quindi inconfondibilmente classici.
Così come Policleto aveva
inventato un canone compositivo che mirava a rendere visibile nell’immagine del
corpo umano l’Idea platonica, allo stesso modo Mondrian attraverso il perfetto
equilibrio di forma, timbro, colore e idea tende a penetrare nel mistero del
reale.
«La nuova arte ha rivelato il
contenuto della nuova coscienza del tempo: un rapporto simmetrico tra
universale e individuale» . Ed ancora: «Nella realtà vitale dell’astratto
l’uomo nuovo ha superato i sentimenti di nostalgia, di gioia di rapimento, di
dolore, d’orrore ecc…: nell’emozione costante per mezzo del bello essi si sono
purificati ed approfonditi. Egli giunge ad una visione molto più profonda della
realtà sensibile» . Anche per i Greci,
infatti, bellezza e conoscenza erano tutt’uno, come già affermato.
Ed il pensiero va all’Ermes di
Prassitele. È vero, ha una forma plastica di una persona, ma quanta astrazione!
Non per nulla Mondrian parla di neoplasticismo!
«… sebbene nella nuova pittura la
terza dimensione visiva si perda, essa s’esprime mediante i valori ed il colore
nel piano» .
Così, al fine di rendere assoluta
la sua opera, l’artista trascorre intere giornate a modificare una linea, a
spostarla, a cambiare la disposizione di un quadrato o di un rettangolo, ad
ingrandirlo o rimpicciolirlo, fino a giungere ad un equilibrio perfetto tra
forma, spazio, colore, linea.
Ci sembra di udire Policleto
quando diceva ai suoi contemporanei che ogni linea, dalla punta dei piedi
all’ultimo capello del capo era calcolata e ogni superficie dipendeva da un minimo tocco, da un graffio d’unghia
o Pitagora quando affermava che il «numero è la sostanza di tutte le cose»,
intendendo con ciò che la vera natura del mondo e dei singoli enti consiste in
un ordine geometrico esprimibile con i numeri e quindi misurabile.
Analogamente, ogni opera di
Mondrian parrebbe sottendere un’operazione matematica perché, dice Argan: «…gli
atti umani debbono avere la chiarezza, l’assolutezza, l’intrinseca verità del
pensiero pensato» .
E infatti: «La proporzione perfetta si ha quando tutti i valori del
sistema (ciascuno dei quali tenderebbe naturalmente
a dilatarsi o contrarsi, a emergere o sprofondare, a influenzare gli altri
valori) si equilibrano formando, non più una superficie omogenea, ma un piano geometrico» . Come non riallacciarsi ai Pitagorici ?
Ed ancora, per Mondrian l’artista
ha nella società una sua responsabilità perché ogni opera deve avere un
progetto sociale, in cui siano messi in evidenza valori etici, estetici, razionali.
Per lui la pittura, essendo
mutevole la realtà, è una forma di conoscenza dell’universale. E più platonico
di così ?
Principi straordinari che col
passare del tempo si sono eclissati perché gli artisti, in genere modesti
epigoni Duchampiani, si limitano a presentare
la realtà tout court (ed ecco le
penne a sfera, le moto fiammanti, la spazzatura, gli escrementi, ecc… in bella
mostra nei musei) e non a rappresentarla,
perché lo scarto poetico (da poiesis)
sta proprio lì, nella epoché, nel
momento cioè della sospensione di giudizio tra presentazione, in cui sono presenti i pre-giudizi, e rappresentazione.
In questo scarto avviene la riflessione e quindi l’elaborazione di ciò che è
presentato in forma di pre-giudizio che, trasformato in un atto riflessivo,
viene rappresentato in un’opera d’arte.
In questa società dello
spettacolo e dell’apparire abbiamo messo in parentesi Cartesio e il suo dubbio metodico.
E di dubbi metodici in era di
digitale ce ne dovrebbero essere tanti, soprattutto in relazione all’espressione
artistica. Ma questo è un altro discorso.
NOTE
Ovidio, Tristia, III,
el. 4, v. 25
Cfr. Mondrian: «… Così l’arte è la rappresentazione e
nello stesso tempo involontariamente il mezzo dell’evoluzione della materia e
riesce a bilanciare natura e non natura in noi e intorno a noi», in I classici dell’arte, Milano, Rizzoli,
1974, p. 9.
I classici
dell’arte, Milano, Rizzoli, 1974, p.
6.
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Fig. 1
Oinochoe attica, 740 a.C.
Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera
Fig. 2
Apollo di Kassel, copia romana da originale greco identificabile con un tipo di Fidia
Staatliche Kunstsammlungen, Kassel, I sec. d.C.
Fig. 3
Apollo tiberino, copia romana di originale greco, epoca alto-imperiale
Museo Nazionale, Palazzo Massimo, Roma
Fig. 4
Hermes e Dioniso, attribuibile a Prassitele, 340 a.C.
Museo Archeologico, Olimpia
Fig. 5
PIET MONDRIAN, Composizione A, 1919
Galleria Nazionale d'arte moderna, Roma
Fig. 6
PIET MONDRIAN, Composizione, 1936
Kunstmuseum, Basilea
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