Milano 2012, Padiglione d’Arte
Contemporanea, fiumi di gente per assistere e-o partecipare al Metodo Abramović,
prenotazioni esaurite da mesi, televisioni e stampa ne parlano un giorno si e
l’altro pure. L’artista fa la sua comparsa in mostra di presenza o in video per
tre mesi ogni giorno, da marzo a giugno. Le sale del PAC allestite con schermi,
sedie, tavole-letto di varie dimensioni, minerali e magneti. Due opzioni di
visita dello spazio, da attore o da spettatore.
L’attore segue le indicazioni
dell’artista guru: respira, rilassati, immagina, senti il legno, le superfici, la
pietra, le energie, lo spazio e, soprattutto, prenditi tempo e vivi pienamente
il tuo tempo in relazione con te stesso e con ciò che ti circonda (cose,
luoghi, esseri). Lo spettatore: un voyeur
che osserva al cannocchiale ogni piccolo gesto dell’attore e si pone in un
confronto critico, osmotico, partecipativo o indifferente con ciò che accade.
Il suo ruolo è ripensato radicalmente, la sua partecipazione è una condizione
necessaria per dare senso e compimento all’opera. I video al piano superiore,
fonte documentaria e artistica delle azioni più famose della lunga carriera di Abramović,
il corredo alla visita. L’arte fuori di sé che crea “spazio altro dentro di sé”
l’hanno definita Andrea Balzola e Paolo Rosa, redigendo un manifesto per l’età
post-tecnologica (l’artista riproduce un frammento della ritualità sociale
senza dispositivi tecnologici o facendone un uso puramente rappresentativo, non
si limita a coinvolgere lo spettatore nell’opera ma gli offre la possibilità di
sperimentare nuove esperienze percettive e differenti modalità di relazione).
A pochi giorni dalla sua
conclusione qualcuno dice che è la mostra dell’anno (per interesse e clamore
suscitato), altri dicono che mostra non è (perché non ci sono “opere d’arte”). Tutto
e il contrario di tutto, ancora dopo mezzo secolo dalla sua comparsa, suscita
la performance art. Eppure, sulla
scia di altri artisti magneti che hanno fatto del corpo il mezzo della loro
espressione (da Pollock a Kaprow, da Klein a Beuys o, per linea femminile, da
Cahun a Schneemann, da Yoko Ono a Yayoi Kusama, da Ana Mendieta alla José
Galindo o a Lygia Clark), stravolgendo l’allestimento delle maggiori gallerie e
musei del mondo (da Belgrado a New york, da Londra a Venezia), quando non si
esibisce in luoghi pubblici (dal deserto australiano alla muraglia cinese, da
Maiorca ai vulcani delle Eolie), da mezzo secolo ormai, Marina c’è.
L’artista, il suo pensiero, è
l’opera d’arte; lo spett-attore è l’oggetto estetico in mostra che produce
relazioni; il dialogo che si apre è quello che Marcel Duchamp chiamava
“coefficiente d’arte” e che Nicolas Bourriaud chiama “forma di negoziazione
interumana che é un processo temporale che si gioca qui ed ora”. Il tempo
l’ultima vera conquista della pioniera Abramović che, nelle sue azioni, lo ha
reso sempre più protagonista, superando limiti fisici e rendendolo il senso
delle sue e delle nostre riflessioni. Sociale e zen, materiale e spirituale,
energica come le pietre allestite al PAC, l’artista è presente anche quando non
è presente. Come dichiarò nel 1971, la prima volta che riusciva a fare qualcosa
di diverso da un dipinto, dopo il Drangularium
nelle sale dello Studentski Kulturni Centar, ciò che conta non è l’oggetto ma
l’atmosfera. E, adesso, sta pensando alla sua eredità. Ad una scuola (il Marina Abramović
Institute progettato
dallo studio OMA di Rem Koolhaasa
ad Hudson, New York) insieme palestra, accademia e il più grande museo di performance art esistente che ne
tramandi gesti, senso, contenuti.
“La resistenza e la messa in
mostra del dolore che essa implicava era una provocazione che modificava la
coscienza dell’artista più che quella del pubblico e, come i suoi colleghi
degli anni settanta avevano scoperto, non era facile da perseguire per tutta la
carriera, e men che meno oltre. Ma la durata, nei termini in cui la propone Abramović,
può creare un’esperienza condivisa, sovraccaricare uno spazio di irresistibile
empatia e far emergere un presente perfettamente sospeso, che si può persino
afferrare. Lavorando con la durata, Abramović può catturare l’unica cosa che
avrà sempre, almeno fino alla morte: il tempo” (James Westcott, Quando Marina Abramović morirà, 2011). Le
conseguenze di questa mostra ? Una maggiore consapevolezza dei linguaggi
dell’arte, una visione più relazionale dello spazio museo, uno sguardo sociale
sul tempo (sulle distrazioni che ce lo portano via e sull’importanza delle
“attenzioni” di cui l’arte è costante monito). Ne ho chiacchierato con il
curatore della mostra, Diego Sileo.
Intervista di Mercedes Auteri a Diego Sileo
Marina Abramović ha dichiarato che “l'arte deve essere l'ossigeno della
società” e che “gli artisti hanno la responsabilità di portare dei valori e
devono prevedere il futuro”, quali valori e quale futuro, secondo te, ha
previsto questa mostra ?
Marina sostiene che il tempo ha sempre più valore perché ce n’è sempre
meno. E io aggiungerei che siamo sempre meno disposti a fermarci a pensare al
poco tempo a nostra disposizione. Una performance di lunga durata, come quella
che si è ripetuta al PAC per tre mesi, ha il potere di creare una
trasformazione mentale e fisica sia per il pubblico, che qui è diventato
performer, sia per lo spettatore, che come in uno specchio poteva riflettersi nei
lenti movimenti dei partecipanti alla performance. Marina ha voluto dare al
pubblico l’opportunità di sperimentare e riflettere sulla vacuità, il tempo, lo
spazio, la luminosità e il vuoto. Diventando parte del suo lavoro, il pubblico ha
avuto la possibilità di allontanarsi dalla quotidianità, cui inevitabilmente è
soggetto, per provare a ridare la giusta importanza a quei valori che di fatto
costituiscono la base della nostra esistenza e quindi anche del nostro stesso futuro.
In cosa consiste il Metodo Abramović, come cambia la visione dell’arte rispetto alle
azioni performative che, a loro volta, già nel Novecento, avevano stravolto la
fruizione delle opere e degli spazi ?
The Abramović Method nasce da una riflessione che Marina Abramović ha
sviluppato partendo dalle sue ultime tre performance: The House With the
Ocean View (2002), Seven Easy Pieces (2005) e The Artist is Present (2010), esperienze che hanno segnato
profondamente il suo modo di percepire il proprio lavoro in rapporto al
pubblico. “Nella mia esperienza, maturata in quaranta anni di carriera, sono
arrivata alla conclusione che il pubblico gioca un ruolo molto importante,
direi cruciale, nella performance”, ha dichiarato Marina. “Senza il pubblico,
la performance non ha alcun senso perché, come sosteneva Duchamp, è il pubblico
a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e
performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”. Con The
Abramović Method è stato proprio il pubblico, guidato e motivato dall’artista,
a vivere e sperimentare le sue “installazioni interattive”. Le sue nuove opere
- impreziosite da vari minerali e pietre preziose, quali il quarzo, la selenite
e la crisocolla – hanno trasformato gli spazi del PAC in un’esperienza fatta di
buio e luce, assenza e presenza, percezioni spazio-temporali alterate. Un percorso
dove le persone hanno potuto espandere i propri sensi, osservare, imparare ad
ascoltare e ad ascoltarsi.
Rispetto alle precedenti performance, legate al corpo, al sangue, ai
limiti della fisicità, questa nuova sfida della Abramović è legata alla mente,
alle reazioni dello spettatore, all’intimità che si crea con l’osservatore in
modo totalizzante. Come hanno reagito i visitatori, sia “partecipanti” che
“spettatori” ? Qual’è il bilancio dei curatori, quantità e qualità degli
ingressi in mostra, a una settimana dalla chiusura ? Quali sono state le
considerazioni dell’artista a conclusione di questo nuovo esperimento ?
Ottima risposta, con più di 20.000 visitatori, di cui oltre la metà
partecipanti alla performance. Un
risultato ben al di sopra della nostra media di affluenza alle mostre. Abbiamo
registrato una sorprendente voglia di osare, di mettersi in discussione, di
provare a riaffermare se stessi nel proprio tempo. Marina è molto soddisfatta
del risultato, soprattutto perché si è resa conto che il suo metodo,
sperimentato su se stessa in anni di dedizione e ferreo autocontrollo, può
essere lasciato in eredità a un pubblico sempre più vasto e riproposto
attivamente dalle future generazioni.
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