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Elementi di logudorese nelle epigrafi del S. Stefano di Oschiri e della S. Maria Iscalas di Bonnanaro *  
Giuseppe Piras
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 12 Luglio 2012, n. 656
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L’occasione per proporre questo sintetico ed agile contributo mi è stata fornita dalla decriptazione di due iscrizioni che presentano tra loro alcune caratteristiche comuni, la più evidente delle quali è l’impiego nei due testi della lingua sarda, nella sua variante dialettale logudorese.

I due tituli sono, seguendo un ordine cronologico, quello inciso su un blocco di trachite inserito nel paramento esterno della chiesa campestre di S. Stefano (nel territorio di Oschiri) recante la data del 6 maggio 1492 [1] e quello che compare sull’architrave della porta laterale della chiesa di S. Maria Iscalas a Bonnanaro, datato 21 gennaio 1605. Gli altri elementi che accomunano le due iscrizioni, oltre all’uso del logudorese, sono i seguenti:

- la medesima collocazione, ovverosìa entrambe sono poste in corrispondenza di porte laterali che si aprono nel prospetto meridionale dei rispettivi edifici religiosi;

- la tipologia del supporto epigrafico. Ambedue sono state scolpite infatti su blocchi monolitici di forma approssimativamente rettangolare con funzione di architrave (funzione ancora svolta nella S. Maria Iscalas mentre nel S. Stefano il blocco è attualmente posizionato poco al di sopra della parte superiore della porta);

- il formulario seguito nello schema compositivo del testo, cioè datatio accompagnata dal nome e cognome del promotore dell’opera realizzata. I personaggi menzionati nei titoli in tutt’e due i casi potrebbero aver ricoperto degli incarichi di prestigio legati all’amministrazione delle chiese;

- alcune particolarità riscontrabili nell’esecuzione dei caratteri (seppur, beninteso, nelle due epigrafi siano state adottate due differenti tipologie di scrittura epigrafica) quali, ad esempio, il ricorso a lettere retroverse (cioè riprodotte in modo speculare rispetto al disegno usuale) ed a nessi;

- le analogie riguardano altresì l’impaginazione del testo all’interno dello specchio epigrafico. In particolare incuriosisce la medesima scelta da parte dei due lapicidi di inserire, nelle rispettive iscrizioni, l’antroponimo del personaggio suddividendolo su due linee. L’analisi formale dei due tituli fa ritenere che questa soluzione sia stata dettata da una discutibile distribuzione dei caratteri rispetto alla superficie scrittoria disponibile. Una decisione attribuibile unicamente agli sculptores delle due iscrizioni in quanto non pare plausibile immaginare l’esistenza di una minuta scrittoria preliminare all’esecuzione delle epigrafi.

Elencate le numerose caratteristiche che accomunano le due iscrizioni, veniamo dunque nello specifico alla descrizione dei singoli titoli [2] .

 

L’epigrafe della chiesa di S. Stefano (Oschiri)

La chiesa campestre intitolata a s. Stefano (Fig. 1) si erge all’interno dell’omonimo sito ubicato sopra un versante collinare che si snoda verso N a partire dalla periferia settentrionale dell’abitato di Oschiri. Alla mirabile bellezza naturalistica il sito di S. Stefano unisce un’interessante pluristratificazione di emergenze archeologiche racchiuse in un arco di tempo compreso tra il Neolitico Recente e l’età post-medievale. Tra queste emergenze spicca di certo un bancone di roccia granitica nel profilo del quale sono state scavate diverse nicchiette di forma perlopiù triangolare e quadrangolare la cui funzione non risulta tuttavia ancora acclarata a causa dell’assenza, fino ad oggi, di indagini archeologiche sistematiche. Al monumento è stata assegnata la denominazione di “altare” ma ancora non si è ben capito a cosa servisse né tantomeno a quale epoca risalga e quanto sia durato il suo utilizzo. L’alone di mistero che ancora avvolge l’“altare” ha richiamato comunque una certa attenzione anche nei confronti della chiesa, il cui prospetto frontale è situato proprio dirimpetto ad una parte del bancone di roccia (sebbene non sia a questo allineato) e dista da lui circa una quindicina di metri. L’edificio religioso, orientato canonicamente (con asse lievemente traslato verso E SE-O SO) si presenta attualmente ad aula unica alla quale è stata aggiunta, sul lato settentrionale, una bassa navatella che è separata da quella principale tramite tre ampi archi.

L’epigrafe (Fig. 2), come già accennato in precedenza, è incisa su un blocco trachitico inserito nel paramento murario del prospetto meridionale della chiesa, poco al di sopra della porta che si apre su quel lato [3] . Nonostante l’iscrizione abbia suscitato l’interesse di coloro i quali si sono occupati del sito di S. Stefano, purtroppo non è stata ancora oggetto di un’analisi scientifica rigorosa che, nell’approccio metodologico, segua i canoni d’indagine comunemente adottati nella disciplina dell’epigrafia medievale. Sino a pochissimi anni fa veniva ritenuta una testimonianza risalente ad epoca bizantina (in virtù anche di un supposto legame esistente con l’“altare”, da taluni ascritto per l’appunto ad epoca tardoantica o bizantina) e, in qualche contributo, persino ad età nuragica (!). Studi più recenti, benché estranei alla ricerca epigrafica, hanno avuto comunque il merito di identificare quantomeno l’esatto anno riportato nel testo ed il trigramma cristologico di s. Bernardino da Siena che campeggia in alto nello specchio epigrafico [4] . La semplice analisi autoptica dell’iscrizione ha permesso di constatare che in realtà non vi sia alcunché di ostico o misterioso nel tipo di scrittura impiegato nel titulus né tantomeno vi siano particolari problemi posti dalla sua comprensione, con la sola eccezione dell’antroponimo che vi compare. Il testo, impaginato su tre linee, può essere così decriptato:

YHS

M°CCCCLXXXXII A DI VI MAHYU MA

SARCO LORETU MASAIU
 

La scrittura adottata è una gotica epigrafica minuscola rotonda, di fattura piuttosto grossolana, che qui vede l’impiego del modello maiuscolo per la lettera A (in una foggia ricorrente in esemplari di questo periodo) salvo nel caso della prima, di forma minuscola. Anche la Y del trigramma bernardiniano si sottrae alle caratteristiche della minuscola e risulta nel ductus più vicina alla stilizzazione della gotica epigrafica allungata. Dal punto di vista paleografico vanno rilevate l’asta cruciforme della H e la S retroversa nel trigramma; nelle cifre dell’anno il ricorso alla O soprascritta alla M quale compendio della parola Millesimo (Fig. 3), la legatura in nesso delle tre C con tratto soprastante e le curiose apicature delle X, rievocanti in parte quelle che compaiono nell’epigrafe (sulle C dell’anno MCCCCLXXX) della chiesa di S. Maria Maddalena a Lucinasco (Imperia). La R è sempre rotonda (anche quando segue una lettera dal tratteggio non curvilineo come in Masarco) mentre per la S il disegno adoperato sistematicamente è quello provvisto di asta alta e diritta tipico della minuscola. Nella seconda riga compare una C chiusa. Segni abbreviativi sono i tratti orizzontali che tagliano a metà le aste della T in Lorettu (Fig. 4) e della S in massaiu (Fig. 5) per indicare, in entrambi i casi, lo scempiamento grafico della doppia. Assenti i segni di interpunzione. Per ciò che concerne il contenuto si è dunque di fronte ad un testo in un logudorese quattrocentesco che riporta, dopo l’invocatio iniziale sintetizzata dal trigramma bernardiniano Yhs, la data (6 maggio 1492) relativa al compimento di un’opera non meglio specificata [5] e la menzione del massaro Lorettu allora in carica, personaggio che fu forse il promotore dell’opera o comunque il gestore dei finanziamenti impiegati per l’intrapresa. Il termine logudorese massaiu [6] è qui infatti utilizzato non col significato di ‘agricoltore’, ‘contadino’ ma identifica la carica ricoperta dal Lorettu. Il massarius ecclesiae era un funzionario (laico oppure appartenente al clero) che veniva nominato dalla Curia per amministrare i proventi di una chiesa [7] . Le sue competenze erano a volte molteplici e nell’esercizio del suo ufficio era prevista la possibilità di esigere e riscuotere le somme dovute nonché di trascrivere i rendiconti in registri, i libri massariali. Poteva capitare altresì che una chiesa fosse sotto la protezione di una confraternita la quale si occupava, insieme ai canonici, della cura dell’edificio. La gestione dei beni confraternali era affidata ad un massarius (o ad una massaria se il sodalizio era femminile) il quale poteva adoperarsi per far finanziare lavori e restauri della chiesa rivestendo talora il ruolo di vero e proprio custode dell’edificio (in particolare nelle chiesette rurali). Nel nostro caso specifico, appurata l’esistenza della carica del massaro, si dovrà pertanto accertare se si siano conservati dei libri massariali relativi alla chiesa di S. Stefano e se in passato essa fosse sotto la protezione di una confraternita (solitamente intitolata al santo medesimo). Le uniche difficoltà poste dal testo epigrafico attengono, come già ricordato, all’esatta identificazione del nome proprio del massaro Lorettu. Il ductus dell’ultima lettera della seconda riga (Fig. 6) non è particolarmente definito e potrebbe essere accostato tanto ad una S della gotica epigrafica minuscola (cioè della fattispecie delle altre due presenti nell’iscrizione) quanto ad una I del tutto dissimile però dalle altre che compaiono nel titulus. Nel primo caso la lettura dell’antroponimo, disposto su due righe, sarebbe Massarco, allo stato attuale delle ricerche un unicum in ambito onomastico che richiamerebbe comunque molto da vicino il nome Massargiu [8] , variante sarda del ben più noto Massarius diffusamente attestato per l’età medievale [9] . Qualora la lettera fosse invece una I, si dovrebbe immaginare che MAI possa essere un’abbreviatura per contrazione [10] da sciogliersi in M(ann)ai o M(ir)ai, due antroponimi sardi documentati in letteratura [11] . Le rimanenti lettere SARCO, nella terza riga, dovrebbero pertanto essere interpretate come il primo elemento di un poco verosimile doppio cognome Sarco Lorettu [12] . Risulta infine molto interessante la grafìa mahyu (Fig. 7), in luogo delle consuete mayu, maju e maiu [13] , per l’odierno logudorese màju [14] .

Sulla scorta delle considerazioni fatte fin qui circa l’interpretazione più plausibile dell’antroponimo, la trascrizione del testo epigrafico è quindi la seguente:

 

Yh(esu)s / M°CCCCLXXXXII a di VI mahyu Maṣ/sarco Loret(t)u mas(s)aiu.

 

L’iscrizione della chiesa di S. Maria Iscalas (Bonnanaro)

La chiesa di S. Maria Iscalas (Fig. 8) è ubicata alla periferia NO del paese di Bonnanaro, posta in posizione elevata rispetto a quest’ultimo su un pianoro lungo le pendici del Monte Pelao, in località conosciuta tradizionalmente col coronimo Marràda. L’edificio, mononave, risulta suddiviso in tre campate, privo di transetto e con presbiterio di forma quadrata [15] . Per contrastare le spinte dei due archi a tutto sesto traversi interni, i fianchi della chiesa sono stati dotati di due contrafforti per lato. Fino a non molti anni fa il monumento versava in una condizione di estremo degrado ed abbandono: un iniziale intervento di restauro promosso dalla Soprintendenza ai BAPPSAE per le province di Sassari e Nuoro, effettuato sul finire del secolo scorso, ha provveduto alla ricostruzione della copertura e delle parti murarie crollate del presbiterio. Successivamente, nell’autunno-inverno 2000-2001, un secondo intervento ha assicurato il rifacimento della pavimentazione della navata e del presbiterio nonché la chiusura dei varchi d’accesso ancora aperti. Contestualmente è stata condotta una campagna di scavo archeologico e di studio delle stratigrafie verticali delle murature che ha consentito di svelare l’esistenza di fasi strutturali anteriori rispetto a quella attualmente visibile. Dagli scavi sono riemersi i resti di strutture di un originario impianto chiesastico assegnabile ad età medievale [16] sulle quali “in una fase anteriore alla metà del XVII, venne realizzato un secondo impianto di dimensioni maggiori rispetto al precedente” [17] . A fornire un prezioso elemento datante per questo secondo impianto, la cui fabbrica è stata finora ascritta al Seicento sulla base sia dell’esame architettonico del monumento sia della cronologia dei più antichi contesti funerari riportati alla luce al di sotto dell’area presbiteriale in occasione degli scavi archeologici, è certamente l’epigrafe incisa nell’architrave della porta che si apre sul fianco meridionale della chiesa [18] , in corrispondenza della campata centrale (Fig. 9).

Il titulus, sostanzialmente inedito malgrado la sua indubitabile importanza per l’interpretazione delle vicende costruttive della S. Maria Iscalas, compare ai due lati della faccia a vista dell’imponente blocco monolitico calcareo che funge da architrave [19] , al centro della quale campeggia il motivo figurativo ‘a fiamma’ tipico degli stilemi decorativi della tradizione gotico-catalana. L’elemento ornamentale tardogotico, nel suo semplice schema compositivo con trama esornativa a spina di pesce, clipeo centrale e vertice superiore dell’inflessione fiammata sormontato da croce patente a bracci filiformi, ricalca il vasto repertorio spontaneo sviluppato dai picapedrers sardi tra XVI e XVII sec. (riproposto in alcune località dell’Isola sino alle soglie del XIX sec.) ed è ampiamente documentato nelle specchiature architravate di porte e finestre presenti in edifici religiosi e civili [20] . Proprio la decisione di incidere nella mezzerìa dell’architrave il disegno ‘a fiamma’ provvisto di croce ha rivestito un ruolo determinante nel criterio seguito dal lapicida per impaginare il titulus: giacché l’inflessione occupava in altezza pressoché tutto lo spazio disponibile nello specchio epigrafico [21] , lo scalpellino ha scelto di disporre il testo ai due lati della fiamma, suddividendolo in altrettante righe coerenti tra loro per ciascun lato. Il titulus ha pertanto inizio nella prima riga del lato sinistro dell’inflessione e prosegue nella riga sottostante per poi passare al lato destro col medesimo andamento.

Ad un’accurata e reiterata disamina, il testo può essere riprodotto come segue:

 

HŌA21DEBE                                                      PRIORISA·IDO

   (motivo ‘a fiamma’)

NARGUAN1605                                                 RADECANPU

 

Nella realizzazione dell’iscrizione il lapicida ha denotato, quanto a mestiere, una certa imperizia. Questa risulta palese nell’irregolare allineamento dei caratteri (decisamente approssimativo quantunque egli si sia servito di sottili linee guida graffite durante la fase preparatoria dell’impaginato) [22] e nella disomogeneità del loro modulo [23] . Colpiscono inoltre la variabilità della distanza lasciata tra un carattere e l’altro nonché l’esiguità di quella nell’interlineatura fra le righe dei due lati. Ad accrescere l’immediata parvenza di scarsa accuratezza e di disorganicità del prodotto epigrafico vi è altresì l’assenza di spazi risparmiati tra le parole per distinguere nitidamente gli elementi del testo alla quale si associa, in un confuso continuum grafico, il mancato utilizzo di segni di interpunzione, se si eccettua il solo interpunto inserito dopo il termine priorisa [24] . Lo scalpellino ha mostrato viceversa meno negligenza nell’esecuzione delle forme di lettere e cifre, riprodotte sulla pietra con un tratteggio perlopiù sicuro (salvo i casi della N e della A in benargu e delle lettere C, N e P in Canpu) ed un’incisione caratterizzata da un solco filiforme e marcate apicature. La tipologia scrittoria impiegata, una capitale umanistica rustica, è nel complesso di fattura abbastanza apprezzabile, con una spiccata propensione per lo sviluppo verticale dei caratteri [25] tranne in quelli dalla sagoma tondeggiante, ossia nella O (segno usato anche per indicare lo zero nell’anno) e nella G.

Sotto l’aspetto paleografico emergono la H con traversa mediana “a coda di rondine”, la R dal ductus ora aderente ai canoni della capitale (come in priorisa) o talvolta in due tratti con occhiello molto aperto e cauda ricurva (in benargu e Idora), la S (avente valore di 5 nell’anno) con l’arco superiore allungato [26] e quello inferiore chiuso a ricciolo. La P in priorisa presenta una breve appendicola nell’occhiello e la A ha aste oblique e traversa angolare (non visibile però in benargu, an e Idora). Alquanto insolita è la foggia del segno che rappresenta la prima cifra nei numerali del giorno ricordato nell’iscrizione: un’asta verticale ripiegata in alto a becco (rivolto a sinistra) e fornita alla base di un tratto semicurvo (Fig. 10). Fatti i debiti raffronti con l’1 seguente (la cifra viene raffigurata mutuando come di consueto il disegno della I capitale) si può arguire che esso indichi quasi sicuramente il numerale 2 [27] . Nel titulus compaiono, come già visto per il S. Stefano di Oschiri, lettere retroverse (la N in benargu) [28] e nessi (U ed A a formare una curiosa legatura tra la lettera finale di benargu e l’iniziale di an). Infine, nella prima riga del lato sinistro, la O è sormontata da una tilde “a cappello tondo” per segnalare l’esistenza di un’abbreviatura per troncamento.

Questa è la trascrizione dell’epigrafe:

Ho(bert vel berta?) a 21 de be/nargu͡ an 1605 / priorisa · Ido/ra de Canpu.

Il testo nell’architrave attesta quindi l’apertura della porta sottostante durante il priorato di Idora de Canpu consegnandoci contemporaneamente anche la data precisa dell’avvenimento, il 21 gennaio del 1605 [29] . Da un punto di vista linguistico è interessante, ma per nulla inusitata nel panorama epigrafico sardo di questo periodo, la commistione fra forme catalane e logudoresi: nel titulus coesistono difatti il verbo hobrir [30] (il compendio per troncamento dovrebbe verosimilmente essere sciolto nella voce hobert oppure hoberta a seconda che il termine sottinteso sia, rispettivamente, portal o porta) ed il sostantivo an (variante antica dei più comuni any e ayn) [31] assieme al termine logudorese benargu [32] , per l’attuale bennàrzu [33] . La forma priorisa potrebbe invece essere un latinismo [34] oppure l’esito della corruzione del logudorese priorissa per scempiamento grafico della doppia sibilante sorda (sulla falsariga di quanto già registrato in benargu con lo scempiamento, in quel caso, della nasale alveolare) [35] . La presenza del verbo hobrir, seppur compendiato, in principio di titulus e l’incisione di quest’ultimo nell’architrave (il blocco monolitico si trova nella posizione originaria e non vi è alcun indizio che faccia supporre una sua precedente diversa collocazione) lasciano pochi dubbi circa la funzione dell’epigrafe [36] . A meno che non si ipotizzi un differente scioglimento per l’iniziale abbreviatura per troncamento HO appare chiaro che l’iscrizione avesse lo scopo di celebrare non già il compimento di “alcune ‘costruzioni’”, come proposto in passato da Antonella Pandolfi [37] , quanto piuttosto l’apertura della porta nel fianco meridionale della chiesa. La data riportata nel titulus sollecita poi qualche riflessione in merito al secolo al quale dev’essere assegnato il secondo impianto della S. Maria Iscalas finora fissato, come già ricordato in precedenza, genericamente ad una fase anteriore alla metà del XVII sec. [38] . Un intervento come quello dell’apertura della porta laterale potrebbe essere stato concepito e realizzato in una fase successiva rispetto ai lavori condotti sul corpo dell’edificio, forse anche a distanza di alcuni anni dalla conclusione della fabbrica per la realizzazione del secondo impianto (quello cioè visibile oggidì). L’opportunità ora di riferire con esattezza al 21 gennaio del 1605 l’apertura della porta laterale permette di precisare ulteriormente il terminus ante quem per l’erezione delle strutture murarie ad essa pertinenti e di prospettare per l’intero impianto una retrodatazione quantomeno alla fine del Cinquecento.

Per quanto attiene al personaggio citato nell’epigrafe, la priorisa Idora de Canpu potrebbe essere identificata con una Bidora de Campu deceduta, come risulta dal suo atto di morte, a Bonnanaro il 1 giugno del 1614 [39] . Le perplessità nei confronti di tale congettura scaturiscono tuttavia dalla mancanza nell’atto di un qualsivoglia richiamo all’importante carica di priora, indicata al contrario in modo esplicito nell’iscrizione; il solo collegamento alla S. Maria Iscalas contenuto nel documento, malgrado esso non sia affatto trascurabile, è il lascito alla chiesa di “una fague de altare de damascu biancu guarnida a voluntade de su R(ecto)re” (probabilmente un vesperale o un paliotto), donazione posta in cima alle volontà testamentarie dichiarate dalla defunta [40] . Resta infine da capire quale sia effettivamente l’organismo religioso da porre in rapporto al titolo attribuito nel testo dell’architrave a Idora de Canpu, se il personaggio fosse cioè la priora di una confraternita femminile oppure di un monastero connesso con la chiesa bonnanarese, cenobio del quale a tutt’oggi non è però giunta a noi alcuna testimonianza [41] .

L’analisi dell’iscrizione del S. Stefano di Oschiri e di quella della S. Maria Iscalas di Bonnanaro, sebbene qualunque tipo di esame comparativo debba necessariamente tener conto dell’arco cronologico di oltre un secolo che separa i due documenti epigrafici (punto nodale già rimarcato nella premessa introduttiva di questo contributo), ha fatto dunque emergere come l’utilizzo del dialetto logudorese, tratto distintivo che accomuna i due tituli, mostri sotto l’aspetto linguistico degli elementi di indubbio interesse. Questi sono rappresentati innanzitutto dalle particolari grafìe adottate dai lapicidi nella menzione dei mesi, esiti che si discostano dalle corrispettive forme più comunemente attestate nelle fonti documentarie coeve ai due testi epigrafici: la variante mahyu (in luogo delle consuete mayu, maju e maiu) nell’iscrizione del S. Stefano, benargu (invece di bennargu, bennargiu o benargiu) in quella della S. Maria Iscalas. In quest’ultimo titulus è stata inoltre evidenziata la commistione tra forme logudoresi e catalane (nello specifico il verbo hobrir ed il sostantivo an).

Dal punto di vista meramente epigrafico in precedenza si è sinteticamente accennato al formulario proposto nello schema compositivo dei due tituli, schema che vede per entrambi l’inserimento della datatio seguita dal nome e cognome del promotore dell’opera realizzata. Nell’iscrizione di Oschiri, dopo l’invocatio iniziale sintetizzata dal trigramma bernardiniano, in particolare vengono ricordati, nell’ordine: l’anno, il giorno ed il mese dell’avvenimento, accompagnati poi dal nome e cognome del personaggio e dal ruolo da lui rivestito. Nella chiesa bonnanarese abbiamo la voce verbale (benché compendiata per troncamento) posta in principio di testo (dettaglio prezioso per comprendere oggetto e funzione dell’iscrizione) alla quale fa seguito la sequenza: giorno-mese-anno dell’avvenimento-ruolo del personaggio-nome e cognome. Ancora, vanno sottolineate le analogie riscontrabili nel ricorso a lettere retroverse (la S del trigramma bernardiniano a Oschiri e la N di benargu nella S. Maria Iscalas) ed a nessi così come la scelta di suddividere su due linee l’antroponimo del personaggio citato nelle epigrafi (Massarco nel S. Stefano e Idora a Bonnanaro).

Riguardo infine al contenuto dei due tituli e segnatamente alle date in essi riportate, il 6 maggio 1492 e il 21 gennaio 1605, si deve porre l’accento sui fondamentali e precisi riferimenti forniti in merito alla cronologia relativa di alcune parti dei due edifici (nel caso della S. Maria Iscalas consentendo anche di formulare un’ipotesi di retrodatazione dell’intero impianto), ancor più utili se si considera la scarsità di testimonianze scritte e datate concernenti le due chiese. Le epigrafi restituiscono altresì il nome di due personaggi, un tal Massarco Lorettu e Idora de Canpu, consegnandoci nel contempo l’indicazione delle importanti cariche da loro ricoperte, rispettivamente quella di massarius ecclesiae e quella di prioressa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NOTE

*Attraverso questa nota un affettuoso pensiero corre all’amico Roberto Coroneo, di recente prematuramente scomparso, il quale mi segnalò per primo l’epigrafe della chiesa di S. Stefano di Oschiri nel lontano 1998 nel corso di un nostro colloquio telefonico.

[1] Non essendo esplicitata nell’iscrizione alcuna formula che possa dare indicazioni circa il sistema di datazione adottato per il computo dell’anno, pare verosimile ritenere che la datazione sia stata espressa secondo lo stile della natività, introdotto con decreto di Pietro IV il Cerimonioso nei possedimenti della Corona a partire dal Natale del 1350 in sostituzione dello stile dell’incarnazione fiorentina. Sui sistemi di datazione utilizzati nelle epigrafi medievali sarde si rimanda a Piras 2005, p. 362, nota 9 (con bibliografia precedente); Piras 2009, p. 432, nota 35 e p. 436; Piras 2010, p. 246, nota 16.

[2] Considerato il tenore del presente studio è utile sottolineare che in questa sede verrà unicamente proposta la decriptazione dei due testi epigrafici. L’analisi dettagliata dei loro contenuti così come la descrizione minuziosa dei supporti, delle tipologie scrittorie, delle particolarità paleografiche ecc. verrà affrontata in un saggio, dedicato prettamente a queste tematiche, di prossima pubblicazione, saggio al quale rinviamo pertanto i lettori.

[3] Il blocco ha una sagoma piuttosto irregolare (in particolare nel profilo del margine superiore) benché sia approssimativamente riconducibile ad una forma rettangolare le cui dimensioni sono: largh. max cm 98,4; largh. min cm 95,6; h max cm 25,7; h min cm 15,5.

[4] Di una prima lettura, fornita dal Prof. Gigi Sanna nell’ambito di una conferenza svoltasi ad Oschiri il 17 giugno 2008, si ha notizia in
<http://gianfrancopintore.blogspot.com/2008/06/astrade-macch-solo-donna-masala.html> e in
<http://gianfrancopintore.blogspot.com/2008/06/peccato-che-donna-i-masala-non-fosse.html>.
Il significato attribuito al testo sarebbe: “Nell’anno del Signore 1492, essendo Allodu maiore (della villa di Oschiri), donna Masala fonda la chiesetta in onore di Santo Stefano”. In Calvia 2010, p. 81 viene invece data questa decifrazione: ‘YξS / m°cccclxxxx
II a divini an (simbolo cornuto) u mai / fas cro los c + v mafatu’. È doveroso precisare che nel contesto del pregevole lavoro del Calvia sul sito di S. Stefano, la parte dedicata all’interpretazione dell’epigrafe è minima. Da ultimo si segnala Cau 2011, p. 384: ‘+ YhS[sus] /m°CCCCLXXXXII a[nno] d[omi]Ni mA[st]R[u] b[ustian]U m[urr]A i / cum E[piscopus] f[rater] A[gostinianu]s C[RES]PO IOAn[nES] f[raig]u mA fATu’ secondo l’autore da tradursi in “+ Nel nome di Gesù, nell’anno del Signore 1492, il maestro Sebastiano M(urr)ai, allorché (era) vescovo il frate agostiniano Crespo Giovanni, mi ha edificato (alla lettera: fabbrica mi ha fatto)”.

[5] Nel titulus non compare purtroppo alcuna indicazione utile all’individuazione dell’opera: l’epigrafe potrebbe documentare dunque l’ultimazione dell’erezione della chiesa ovvero l’ampliamento oppure il restauro dello stesso edificio o di una sua parte così come l’apertura di una porta e via dicendo.

[6] Sul sostantivo logudorese massàju cfr. tra gli altri Spano 1851, p. 334, s.v. ‘massàju’; Spano 1852, II, p. 283, s.v. ‘massàjo’; Wagner 1941, pp. 153, 372 e 493; Wagner 1962, p. 86, s.v. ‘massáyu’ o ‘messáyu’; Espa 1999, p. 855, s.v. ‘massàju’ e Casu 2002, p. 922, s.v. ‘massàju’.

[7] Du Cange 1845, IV, pp. 313-314, s.v. massarius; Arnaldi 1937, II, p. 151, s.v. massarius; Blatt 1959, pp. 241-242, s.v. massarius; Niermeyer-van de Kieft 1976, p. 660, s.v. massarius; Bagola 1988, p. 155, s.v. massarius.

[8] Tola 1861, I, sec. XIV, doc. CL (24 gennaio 1388), pp. 817-861, p. 844 e Bortolami 2000, p. 246. Un Massargiu Montigha figura tra gli juratis della villa di Tuyli che sottoscrissero l’accordo stipulato tra Giovanni d’Aragona e Eleonora d’Arborea nel quale venne riconfermata la precedente pace firmata a Barcellona il 31 agosto 1386 tra gli ambasciatori della stessa Eleonora e Pietro IV d’Aragona. Riguardo all’ipotesi Massarco e alla sua vicinanza con l’antroponimo sardo Massargiu (nonché con la variante dialettale sarda massàrzu) è molto interessante la seguente riflessione di Sante Bortolami: “Altri apax potrebbero essere solo forme deformate dall’incessante evoluzione linguistica e dall’oralità di nomi comuni (es. Acargio per (v)acargius = «vaccaro» sul tipo di Masargiu, pure documentato)”. Bortolami 2000, p. 228. Sul termine massàrzu cfr. Espa 1999, p. 855, s.v. ‘massarzu’.

[9] Tra le innumerevoli testimonianze d’età medievale legate all’antroponimo Massarius (vengono qui tralasciate le sue diverse varianti quali, tra le altre, Massarus, Maxarus, Massarellus, Massarutius) si citano, a mero scopo esemplificativo BrattÖ 1955, pp. 150, 157 e 241 (riguardo alla diffusione di questo nome nell’antroponomastica fiorentina); Santini 1895, p. LXII e parte IIa, doc. XXXVI (19 settembre e 14-19 ottobre 1234: Massarius f. Arezzoli, nuntius del Comune di Firenze), pp. 258-259, p. 259, doc. XXVI (8 dicembre 1222: Sassolus f. Massarii), pp. 250-251, p. 251; Diacciati 2008, doc. 4 (1 ottobre 1295-1 maggio 1296: Massarius Raffacanis, membro del Consiglio speciale del capitano del Popolo nel Comune di Firenze), pp. 217-243, p. 235; Pasqui 1916, doc. 486 (22 novembre 1219: domnus Massarius monachus di Camaldoli), pp. 159-160, p. 160, doc. 518 (6 settembre 1234: Massarius Mathei, abitante del castello di Montecchio, nei pressi di Arezzo), pp. 204-206, p. 205, doc. 596 (26 aprile 1256: Massarius tabernarius, membro del Consiglio del Popolo del Comune di Arezzo), pp. 313-317, p. 316, doc. 614 (17-20 ottobre 1258: Massarius de Rondene, aretino), p. 349; Sartore 2005, doc. 156.2 (8 marzo 1315: Massarius Busscacti, abitante di Perugia), p. 60, doc. 260 (21 gennaio 1332: Massarius, o Massarutius, perugino e marito di una tal Iacoba), p. 100; Lasinio 1914, doc. 2089 (1 gennaio 1236: Massarius f. Bernardi Bonafe), p. 373, doc. 1904 (4 aprile 1230: Massarius abate di S. Ippolito di Faenza, poi di S. Maria de Urano a Bertinoro, Forlì, ed infine priore di Camaldoli), pp. 272-273, doc. 2049 (31 agosto 1234: donnus Massarius monachus Camaldolensis, vice Camaldolensis heremi), p. 354, doc. 2052 (17 settembre 1234: il già citato Massarius monachus Camaldolensis), p. 355; Mittarelli-Costadoni 1760, pp. V, 24, 29, 47-48, 54, 60-62, 64-65, 117-119 (ancora il Massarius priore di Camaldoli) e pp. 19, 25, 28, doc. L (11 giugno 1256), col. 71, doc. CIII (1261), col. 150 per il donnus Massarius abbas monasterii S. Ylarii de Galliata (diocesi di Ravenna). Il summenzionato Massarius, priore generale di Camaldoli nel gennaio 1262 e morto nell’ottobre 1263 viene ricordato anche in Zanetti 1974a, p. 74 e Zanetti 1974b, p. 98, nota 11 e doc. XIII (15 settembre 1263), pp. XXXIV-XXVI. Tra le attestazioni epigrafiche infine, un Massarius Donnaincasa compare in una lastra del pavimento cosmatesco della S. Maria in Castello a Tarquinia del quale fu forse uno dei committenti (XIII sec.). Cfr. De Rossi 1875, pp. 123-124; Cimarra 2003, pp. 46-49 (con citazione della bibliografia precedente e di alcuni documenti medievali relativi soprattutto all’area romana, alla Sabina ed al Lazio settentrionale nei quali compare l’antroponimo Massarius) e Chiovelli 2007, p. 213.

[10] L’abbreviatura potrebbe essere segnalata nel titulus da una fessurazione rettilinea che pare intravedersi poco al di sopra della M, precisamente tra quest’ultima lettera e la successiva A. Le perplessità circa una sua identificazione con una tilde diritta orizzontale posta in funzione abbreviativa (come peraltro già proposto in Cau 2011, p. 384) derivano dalla presenza sulla superficie trachitica di numerosi vacuoli di forma pressoché simile, creatisi per l’azione erosiva che ha interessato il supporto lapideo.

[11] Sull’antroponimo sardo Mannai (o Mannay) cfr. Bortolami 2000, pp. 231 (il Bortolami lo definisce come “appellativo personale di conio locale” insieme a Mirai e ad altri nomi), 244 e 246; Tola 1861, I, sec. XIV, doc. CL, p. 843 (Mannai de Aceni, giurato della villa di Fenugheda nel succitato accordo del 24 gennaio 1388); Tola 1861, II, sec. XV, doc. IX (30 marzo 1410, Mannay Datzeni abitante di Oristano), pp. 42-43, p. 43 e X (31 marzo 1410, Mannay Colori anch’egli abitante di Oristano), pp. 43-45, p. 43. Per il nome proprio Mirai si rimanda a Bortolami 2000, pp. 231 e 246; Tola 1861, I, sec. XIV, doc. CL, pp. 838 (Mirai de Serra, giurato della villa di Oruinas, oggidì Ruinas), 844 (Mirai de Marongiu, majore della villa di Barumini), 845 (Mirai Simbula, di Alary, odierna Allai) e 855 (Mirai de Serra, di Selluri attuale Sanluri).

[12] Sul cognome castigliano Sarco, o Zarco, derivante dal termine arabo ‘al-Azraq’ (ovvero “azzurro, specialmente degli occhi”) e molto diffuso durante l’età medievale tra la popolazione giudaica in Spagna cfr. tra gli altri Laliena Corbera 1996, p. 160. Così come l’ipotesi di una forma cognominale doppia Sarco Lorettu appare del tutto inverosimile, sembra altrettanto poco plausibile configurare la possibilità che Sarco possa essere inteso come un soprannome aggiunto all’antroponimo considerato il solo impiego del logudorese nell’epigrafe. Sull’origine del cognome Lorettu si rinvia a Pittau 1990, p. 127; Maxia 2010, pp. 252, 281 e 366.

[13] Ad esempio nel Registro di San Pietro di Sorres, una delle fonti documentarie in lingua logudorese (l’area linguistica di riferimento per la precisione è quella del logudorese settentrionale) redatte in anni prossimi al 1492 della nostra epigrafe (il Registro comprende atti, costituzioni, capitoli e sinodi che coprono un arco cronologico compreso tra il 1423 e il 1524; cfr. Zichi 2003, p. 229), si osserva l’uso indistinto delle grafìe mayu, maju e maiu. Cfr. rispettivamente, per l’occorrenza nel Registro della forma mayu, Turtas-Piras-DessÌ 2003, schh. n. 15 (11 maggio 1431), p. 8; n. 28 (2 maggio 1423), p. 12; n. 39 (16 maggio 1430), p. 16; n. 68 (3 maggio 1435), p. 28; n. 137 (1441), p. 54; n. 251 (30 maggio 1459), p. 100. Per maiu: schh. n. 130 (s.d.), p. 52; n. 143 (20 maggio 1440), p. 57; n. 227 (1 maggio 1449), p. 91; n. 364 (20 maggio 1441), p. 155. Per maju: schh. n. 80 (21 maggio di un anno non specificato), p. 32; n. 246 (7 maggio 1454), p. 98. La forma mayu con grafema yod in posizione intervocalica è invece quella presente nel Condaghe di Luogosanto (c. 85r, l. 4: Pascha de mayu; cfr. Fois-Maxia 2009, pp. 32, 40, 82, 171, 223 e 244), documento in sardo logudorese datato al 1519. Maxia 2008, p. 21 e Fois-Maxia 2009, p. 209.

[14] Spano 1851, p. 329, s.v. ‘màju’; Wagner 1941, p. 150, s.v. ‘máyu’; Wagner 1962, p. 57, s.v. ‘maju’; Atzori 1975, pp. 288-289, s.v. ‘maiu’. La forma mahyu potrebbe essere il riflesso della pronuncia locale in quel periodo e in tal caso l’esito denoterebbe evidenti difformità con la parlata dialettale attuale. Un ringraziamento particolare, per i preziosi suggerimenti forniti in merito al logudorese parlato ad Oschiri e nel suo territorio, va all’amico Giorgio Pala.

[15] Una dettagliata analisi architettonica della S. Maria Iscalas è in Ponzeletti 2004, pp. 33-34.

[16] Pandolfi 2004, pp. 124-127. In Ponzeletti 2004, p. 34 viene precisato che si tratta di “un edificio proto-romanico ascrivibile all’XI secolo o anche precedente”.

[17] Così Pandolfi 2004, p. 127.

[18] Le dimensioni della porta sono le seguenti: largh. cm 103,6; h cm 184,4 mentre gli stipiti hanno una largh. max di cm 21 (nel lato destro) e cm 17 (nel lato sinistro).

[19] Il blocco lapideo misura cm 184,2x51,1x21,9. All’incirca verso la metà della sua superficie è visibile una profonda fenditura che corre trasversalmente da un margine all’altro dei due lati lunghi.

[20] Cfr., tra gli altri, Sanna 1993; Segni Pulvirenti-Sari 1994, sch. 91, pp. 290-291; Porcu Gaias 1996, sch. 64, p. 185; Casu 2004; Bagnolo 2004.

[21] L’altezza del motivo decorativo fiammato, dal bordo inferiore dell’architrave all’estremità superiore della croce, è infatti di cm 44,2 sui 51,1 totali del blocco lapideo.

[22] Labili tracce dei solchi di queste linee permangono al di sopra delle lettere che compongono le prime righe dei due lati dello specchio epigrafico.

[23] Il modulo dei caratteri di forma circolare (la O oppure il segno usato per lo zero) e, in taluni casi, dal tratteggio curvilineo (ad esempio la R in Idora) risulta essere infatti notevolmente inferiore rispetto a quello delle lettere e cifre che li precedono (o seguono) nel testo epigrafico.

[24] Il segno d’interpunzione ha la caratteristica sagoma a punta di freccia rivolta verso il basso, ottenuta con la sezione triangolare della lama dello strumento incisorio.

[25] Impressione amplificata, come nelle D e nelle E dell’iscrizione, anche dalla loro filiformità.

[26] Simile caratteristica si ritrova nelle S presenti in un’inedita epigrafe seicentesca in capitale umanistica collocata nel centro dell’abitato di Sindia (NU). L’iscrizione è scolpita nell’architrave di una finestra tardogotica in trachite, elemento frammentario ed erratico di incerta provenienza (una tradizione locale lo ricondurrebbe all’abitazione di Gavino Pintor Serra, Inquisitore Generale della Sardegna dal 1610 al 1614, originario di Sindia) inserito attualmente nel muro laterale del cortile di un istituto di suore ove è ubicata la chiesa di S. Pietro apostolo. L’epigrafe, recante al centro il trigramma della Compagnia di Gesù (lo stemma appare anche al centro di un blocco monolitico in vulcanite posto accanto al frammento di finestra), ricorda non meglio specificati lavori (forse proprio la costruzione dell’edificio al quale apparteneva la finestra) fatti eseguire dal Reverendus Franciscus Sanna nel 1640. Un sentito ringraziamento per la segnalazione va all’amico Mario A. Sanna.

[27] La forma abituale per riprodurre il numerale 2 in questo genere di scritture epigrafiche è quella riscontrabile, ad esempio, nell’epigrafe seicentesca in logudorese della N.S. di Todorache, chiesa campestre nel territorio di Mores (SS). L’iscrizione, incisa nei conci dell’archivolto del portale che conduce alla sacrestìa, testimonia la drammatica comparsa, il 7 luglio del 1652, di un’epidemia di peste nel villaggio di Mores e la sua cessazione il 30 novembre dello stesso anno. Il lato sinistro del portale riporta: A · 7 · de · triul/as · 1652 est / istada in/trada sa / peste · in M/ọres. Così invece nel lato destro: A · 30 · de / novembre · 1652 / e(st?) sensada / sa peste in Mores. In un testo (anch’esso in logudorese) posto immediatamente sotto (con caratteri di modulo inferiore e di mano diversa dalla precedente), pur tra titubanze calligrafiche e ambiguità interpretative determinate da un’infelice quanto arbitraria reintegrazione dei caratteri operata in epoca recente, parrebbe di intendere che nel corso dell’epidemia tre famiglie abbiano trovato rifugio all’interno della chiesa. Questo è quanto recita: In custa ECA (per ecclésia?) · si / at · canpadu · 3 · ma/a/sonadas · / Satu‹r›ninu Cu=/gur=ra. Ancora più in basso, di mano differente dalle altre, infine le lettere A e C seguite da un segno simigliante ad una U/V. Una prima lettura, non priva di mende, dei tituli è in Spano 1855, p. 143. In merito al Saturninu Cugurra che figura nel secondo testo in logudorese, lo Spano afferma che dovrebbe trattarsi dell’allora parroco di Todorache, villaggio poi totalmente spopolato.

[28] L’adozione della N retroversa pare non essere infrequente nella documentazione epigrafica isolana del XVI e XVII secolo. Uno dei casi più eclatanti è costituito dall’iscrizione in capitale umanistica (la scrittura mostra tuttavia anche l’inserimento di caratteri di derivazione minuscola, come le lettere B, D e H) incisa nell’architrave trachitico che sormonta la porta principale della chiesa campestre di S. Leonardo di Balanotti, in agro di Oschiri. Nell’epigrafe, anch’essa in logudorese e disposta attorno ad una nicchia ricavata al centro dell’architrave all’interno della quale è raffigurato il santo titolare della chiesa, le N sono costantemente retroverse. Notevole è anche l’ampio ricorso a nessi da parte del lapicida (talvolta più legature nella medesima parola). L’erosione prodotta dagli agenti atmosferici ha profondamente deteriorato il supporto lapideo causando nel contempo la perdita di alcune porzioni del testo epigrafico, in particolare purtroppo la quasi totalità dei numerali dell’anno. Nonostante le lacune presenti nel titulus se ne può comunque ricostruire il contenuto, relativo all’erezione della chiesa (meno probabilmente al suo ampliamento o restauro) ad opera degli obrieri Anton Melone, Anton Istevene Masia e di due loro colleghi, entrambi di nome Salvador ma dei quali è divenuto oramai illeggibile il cognome. La trascrizione dell’epigrafe, finora inedita, è la seguente: Custa hobera la / fatṭạ sen͡de hoberaios / Antọn ͡Melo(n)e AntonIste͡ve͡ne / Masia Salvadoṛ […]ca / S͡alvadọ[r ---] +++ An(n)o Ị[…]. Nella nicchia, in basso a sinistra dell’immagine di san Leonardo, sono chiaramente visibili le lettere BE.

[29] L’esatta interpretazione dell’anno era già stata fornita in Piras 2005, p. 372, nota 27. Relativamente alla decifrazione del titulus cfr. Deriu 1983/1984, II, pp. 143-179: ‘HOATIDEBE / HOAZIDEBE [?] + PRIORISA IDO MARONNIBOS / MAROMNIBOS [?] (= MARONGIU?) RA DE CAMPU’ e <http://smariadeiscalas.altervista.org>: ‘HO(C) (QU)ALI(S) DEB(ITOR)E IM(PERITU)RO (O)MNI(A) POS(UIT) oppure AN(N)I 1605 PRIORIS(S)A (B)IDORA DE CAMPUS’. In Chessa 2002, p. 84 l’iscrizione viene definita come “basso-medioevale” mentre per Pandolfi 2004, p. 127: “Alcuni interventi possono essere collocati cronologicamente nella prima metà del 1600, quando per volontà e con finanziamento della prioressa Bidora de Campus, vennero compiute alcune ‘costruzioni’, come ricorda l’epigrafe collocata sulla porta laterale destra della chiesa”.

[30] Alcover-de B. Moll 1969a, pp. 839-843, s.v. ‘obrir’.

[31] Alcover-de B. Moll 1968, p. 650, s.v. ‘an’.

[32] Quello dello scempiamento della nasale alveolare sembrerebbe non essere un fenomeno circoscritto al testo dell’epigrafe: consultando i Quinque libri relativi a Bonnanaro per gli anni che vanno dal 1602 al 1704 è stato possibile verificare il costante utilizzo di forme quali benargiu e Bunanaro (per l’odierno Bonnanaro) come accade ad esempio nell’atto di morte di una tal Quiriga Marongiu, datato 11 gennaio 1614 e redatto da P. Joanne Pinna, curato del villaggio. ASDSS, Quinque Libri. Bonnanaro, Libri Defunctorum, Def. 1 (1602-1704), c. 4v. Per lo scempiamento della nasale rispetto alla forma logudorese bennargu si rinvia inoltre a Maxia 1999, p. 7 nel quale vien fatto riferimento per l’appunto alla grafìa benargiu (secondo lo studioso frutto però di un’interferenza riconducibile al còrso jenargiu) documentata in un atto di matrimonio del 1583 contenuto nei Quinque libri della cattedrale di S. Antonio a Castelsardo. Il poleonimo Bunanaro (insieme alla più consueta forma Bunanor) è attestato anche in Turtas-Piras-DessÌ 2003, sch. n. 253 (“calonigu Miali ville de Bunanaro”), p. 102. Riguardo all’etimologia di bennàrgiu cfr., tra gli altri, Meyer-LÜbke 1914, p. 186.

[33] Cfr. Spano 1851, p. 147, s.v. ‘bennàrzu’; Wagner1941, pp. 128, nota 94 (‘bennardzu’ e ‘bénneru’), 154, 337 e 458 (‘bennárdzu’); Espa 1999, p. 212, s.v. ‘bennalzu/bennarzu’; Casu 2002, p. 244, s.v. ‘bennàlzu’.

[34] L’uso del vocabolo latino per indicare il ruolo ricoperto da Idora de Canpu troverebbe forse una sua giustificazione nel contesto in cui è inserita l’epigrafe e nel ruolo preminente che l’ambiente ecclesiastico gravitante attorno alla S. Maria Iscalas deve aver naturalmente svolto nella stesura del contenuto del titulus. Sulle attestazioni delle forme priorisa e abadisa nelle epigrafi medievali della Sardegna si veda Piras 2005, p. 372, nota 27.

[35] Wagner 1962, p. 312, s.v. ‘priore, -i’; Espa 1999, p. 1059, s.v. ‘priorissa’. L’assonanza col termine catalano prioresa (variante ricorrente per il più frequente prioressa) potrebbe consentire di azzardare l’ipotesi che l’esito priorisa possa essere il risultato dell’influenza esercitata da parte di questa lingua. Alcover-de B. Moll 1969b, p. 887, s.v. ‘prioressa’. Un sincero ringraziamento alle amiche Lourdes e Maite Martínez Fernández per l’ausilio concessomi.

[36] Un esempio opposto, rimanendo ancora nell’ambito di attestazioni epigrafiche della Sardegna relative a personaggi recanti il titolo di priore o priora, è invece quello dell’iscrizione datata MCCLX che compare nella facciata della S. Maria di Seve a Banari (SS), dove la totale assenza di riferimenti nel titulus (menzionante il priore frater Guiciardus de Metina) non consente purtroppo di determinare con precisione la finalità del documento. Questo è quanto riporta il testo: Frat(er) · Guiciardus / de Mẹtina · prior · S(an)c(t)e · / Marie · anni · D(omi)ni · MCCLX. Per le differenti lezioni dell’iscrizione fornite in passato cfr. Chighini 1877, ff. 70-71; Coroneo 1993, pp. 150, 151 (sch. 55) e 302, nota 185; Rassu 1997, p. 49, nota 111; Caprara 2000, p. 23; Castello 2001, p. 259; Rassu 2001; Giola 2005, p. 63; Sassu 2005, p. 36.

[37] Pandolfi 2004, p. 127.

[38] Cfr. supra, nota 17.

[39] ASDSS, Quinque Libri. Bonnanaro, Libri Defunctorum, Def. 1 (1602-1704), c. 4v.

[40] Ibid.: “A p(rim)u de lampadas 1614 Bonannaro. / Est morta Bidora de Campu de sa pr(esen)te- Villa cun sos sacram(en)tos da/dos per me P. Io(ann)e Pin(n)a curadu. Hat fattu testamentu, in su q(ua)le / lassat sas lassapias siguentes dae sos benes suos. P(rim)o una fague de / altare de damascu biancu guarnida a voluntade de su R(ecto)re p(ro) Santa Maria / de Iscalas; pius lassat bindigui liras….”. Nel margine sinistro del foglio, in corrispondenza delle linee di testo comprese tra la terza e la settima riga dell’atto di morte di Bidora de Campu, sono tuttora appena percepibili le tracce di annotazioni (a lato della quinta riga pare potersi leggere “Está cumplida”) che potrebbero essere forse in qualche modo legate alla donazione fatta dalla defunta.

[41] Francisco de Vico, nella sua Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña, inserì nell’elenco dei cenobi sardi appartenenti all’Ordine cistercense anche el monasterio de Santa María de Escalas, junto a Sácer, de monjas de la orden de Monte Cristo”. de Vico 1639, I, p. 161. L’indicazione è stata in seguito ripresa da Jorge Aleo, Giuseppe Manno, Vittorio Angius e Francesco Liperi Tolu; recentemente, sulla base di questo riferimento, Salvatore Chessa ha proposto di localizzare il non altrimenti noto monastero di monache cistercensi menzionato dal Vico in prossimità proprio della S. Maria Iscalas di Bonnanaro. Chessa 2002, p. 84 (con bibliografia precedente citata).




            
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Fig. 1

Fig. 1
La chiesa campestre di S. Stefano (Oschiri).

Fig. 2

Fig. 2
L'epigrafe incisa sul blocco trachitico sopra la porta della chiesa.

Fig. 3

Fig. 3
Particolare delle cifre dell'anno.

Fig. 4

Fig. 4
Il cognome Lorettu compendiato.

Fig. 5

Fig. 5
L'abbreviatura per la parola massaiu.

Fig. 6

Fig. 6
Particolare delle prime tre lettere dell'antroponimo.

Fig. 7

Fig. 7
Il termine mahyu.

Fig. 8

Fig. 8
La chiesa di S. Maria Iscalas (Bonnanaro).

Fig. 9

Fig. 9
L'iscrizione inserita nel fianco meridionale che ricorda la priorisa Idora de Canpu.

Fig. 10

Fig. 10
Particolare relativo alla data del 21 gennaio 1605.




Tutte le foto cortesia di Giuseppe Piras

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