L’occasione
per proporre questo sintetico ed agile contributo mi è stata
fornita dalla
decriptazione di due iscrizioni che presentano tra loro alcune
caratteristiche
comuni, la più evidente delle quali è
l’impiego nei due testi della lingua
sarda, nella sua variante dialettale logudorese.
I
due tituli sono, seguendo un ordine
cronologico, quello inciso su un blocco di trachite inserito nel
paramento
esterno della chiesa campestre di S. Stefano (nel territorio di
Oschiri)
recante la data del 6 maggio 1492e quello che compare
sull’architrave della porta laterale
della chiesa di S.
Maria Iscalas a Bonnanaro, datato 21 gennaio 1605. Gli altri elementi
che accomunano
le due iscrizioni, oltre all’uso del logudorese, sono i
seguenti:
-
la medesima collocazione, ovverosìa entrambe sono poste in
corrispondenza di
porte laterali che si aprono nel prospetto meridionale dei rispettivi
edifici
religiosi;
-
la tipologia del supporto epigrafico. Ambedue sono state scolpite
infatti su
blocchi monolitici di forma approssimativamente rettangolare con
funzione di
architrave (funzione ancora svolta nella S. Maria Iscalas mentre nel S.
Stefano
il blocco è attualmente posizionato poco al di sopra della
parte superiore
della porta);
-
il formulario seguito nello schema compositivo del testo,
cioè datatio
accompagnata dal nome e cognome
del promotore dell’opera realizzata. I personaggi menzionati
nei titoli in
tutt’e due i casi potrebbero aver ricoperto degli incarichi
di prestigio legati
all’amministrazione delle chiese;
-
alcune particolarità riscontrabili nell’esecuzione
dei caratteri (seppur,
beninteso, nelle due epigrafi siano state adottate due differenti
tipologie di
scrittura epigrafica) quali, ad esempio, il ricorso a lettere
retroverse (cioè
riprodotte in modo speculare rispetto al disegno usuale) ed a nessi;
-
le analogie riguardano altresì l’impaginazione del
testo all’interno dello
specchio epigrafico. In particolare incuriosisce la medesima scelta da
parte
dei due lapicidi di inserire, nelle rispettive iscrizioni,
l’antroponimo del
personaggio suddividendolo su due linee. L’analisi formale
dei due tituli fa ritenere che
questa soluzione
sia stata dettata da una discutibile distribuzione dei caratteri
rispetto alla
superficie scrittoria disponibile. Una decisione attribuibile
unicamente agli sculptores delle
due iscrizioni in
quanto non pare plausibile immaginare l’esistenza di una
minuta scrittoria
preliminare all’esecuzione delle epigrafi.
Elencate
le numerose caratteristiche che accomunano le due iscrizioni, veniamo
dunque
nello specifico alla descrizione dei singoli titoli.
L’epigrafe
della chiesa
di S. Stefano (Oschiri)
La
chiesa campestre intitolata a s. Stefano (Fig. 1) si erge
all’interno
dell’omonimo sito ubicato sopra un versante collinare che si
snoda verso N a
partire dalla periferia settentrionale dell’abitato di
Oschiri. Alla mirabile
bellezza naturalistica il sito di S. Stefano unisce
un’interessante pluristratificazione
di emergenze archeologiche racchiuse in un arco di tempo compreso tra
il
Neolitico Recente e l’età post-medievale. Tra
queste emergenze spicca di certo
un bancone di roccia granitica nel profilo del quale sono state scavate
diverse
nicchiette di forma perlopiù triangolare e quadrangolare la
cui funzione non
risulta tuttavia ancora acclarata a causa dell’assenza, fino
ad oggi, di
indagini archeologiche sistematiche. Al monumento è stata
assegnata la
denominazione di “altare” ma ancora non si
è ben capito a cosa servisse né
tantomeno a quale epoca risalga e quanto sia durato il suo utilizzo.
L’alone di
mistero che ancora avvolge l’“altare” ha
richiamato comunque una certa
attenzione anche nei confronti della chiesa, il cui prospetto frontale
è situato
proprio dirimpetto ad una parte del bancone di roccia (sebbene non sia
a questo
allineato) e dista da lui circa una quindicina di metri.
L’edificio religioso,
orientato canonicamente (con asse lievemente traslato verso E SE-O SO)
si
presenta attualmente ad aula unica alla quale è stata
aggiunta, sul lato
settentrionale, una bassa navatella che è separata da quella
principale tramite
tre ampi archi.
L’epigrafe
(Fig. 2), come già accennato in precedenza, è
incisa su un blocco trachitico
inserito nel paramento murario del prospetto meridionale della chiesa,
poco al
di sopra della porta che si apre su quel lato.
Nonostante l’iscrizione abbia suscitato l’interesse
di coloro i quali si sono
occupati del sito di S. Stefano, purtroppo non è stata
ancora oggetto di
un’analisi scientifica rigorosa che, nell’approccio
metodologico, segua i
canoni d’indagine comunemente adottati nella disciplina
dell’epigrafia
medievale. Sino a pochissimi anni fa veniva ritenuta una testimonianza
risalente ad epoca bizantina (in virtù anche di un supposto
legame esistente
con l’“altare”, da taluni ascritto per
l’appunto ad epoca tardoantica o
bizantina) e, in qualche contributo, persino ad età nuragica
(!). Studi più
recenti, benché estranei alla ricerca epigrafica, hanno
avuto comunque il
merito di identificare quantomeno l’esatto anno riportato nel
testo ed il
trigramma cristologico di s. Bernardino da Siena che campeggia in alto
nello
specchio epigrafico. La
semplice analisi autoptica dell’iscrizione ha permesso di
constatare che in
realtà non vi sia alcunché di ostico o misterioso
nel tipo di scrittura
impiegato nel titulus né
tantomeno vi
siano particolari problemi posti dalla sua comprensione, con la sola
eccezione
dell’antroponimo che vi compare. Il testo, impaginato su tre
linee, può essere
così decriptato:
YHS
M°CCCCLXXXXII
A DI VI MAHYU MAṣ
SARCO
LORETU MASAIU
La
scrittura adottata è una gotica epigrafica minuscola
rotonda, di fattura
piuttosto grossolana, che qui vede l’impiego del modello
maiuscolo per la
lettera A (in una foggia ricorrente
in esemplari di questo periodo) salvo nel caso della prima, di forma
minuscola.
Anche la
Y
del trigramma bernardiniano si sottrae alle
caratteristiche della minuscola e risulta nel ductus
più vicina alla stilizzazione della gotica epigrafica
allungata. Dal punto di vista paleografico vanno rilevate
l’asta cruciforme
della H e la S
retroversa nel trigramma; nelle cifre dell’anno il ricorso
alla O soprascritta alla M quale compendio della parola Millesimo (Fig. 3), la legatura in nesso
delle tre C con tratto soprastante
e le curiose apicature delle X,
rievocanti in parte quelle che
compaiono nell’epigrafe (sulle C
dell’anno MCCCCLXXX)
della chiesa di
S. Maria Maddalena a Lucinasco (Imperia). La R
è
sempre rotonda (anche quando segue una lettera dal tratteggio non
curvilineo
come in Maṣsarco)
mentre per la
S
il disegno adoperato sistematicamente è quello provvisto di
asta alta e diritta
tipico della minuscola. Nella seconda riga compare una C
chiusa. Segni abbreviativi sono i tratti orizzontali che tagliano
a metà le aste della T
in Lorettu (Fig. 4) e della S in massaiu
(Fig. 5) per indicare, in entrambi i casi, lo scempiamento grafico
della
doppia. Assenti i segni di interpunzione. Per ciò che
concerne il contenuto si
è dunque di fronte ad un testo in un logudorese
quattrocentesco che riporta,
dopo l’invocatio iniziale
sintetizzata dal trigramma bernardiniano Yhs,
la data (6 maggio 1492) relativa al compimento di un’opera
non meglio
specificata e la
menzione del massaro Lorettu allora in carica, personaggio che fu forse
il
promotore dell’opera o comunque il gestore dei finanziamenti
impiegati per
l’intrapresa. Il termine logudorese massaiuè
qui infatti utilizzato non col significato di
‘agricoltore’, ‘contadino’ ma
identifica la carica ricoperta dal Lorettu. Il massarius
ecclesiae era un funzionario (laico oppure appartenente
al clero) che veniva nominato dalla Curia per amministrare i proventi
di una
chiesa.
Le sue competenze erano a volte molteplici e nell’esercizio
del suo ufficio era
prevista la possibilità di esigere e riscuotere le somme
dovute nonché di
trascrivere i rendiconti in registri, i libri massariali. Poteva
capitare
altresì che una chiesa fosse sotto la protezione di una
confraternita la quale
si occupava, insieme ai canonici, della cura dell’edificio.
La gestione dei beni
confraternali era affidata ad un massarius
(o ad una massaria se il sodalizio
era femminile) il quale poteva adoperarsi per far finanziare lavori e
restauri
della chiesa rivestendo talora il ruolo di vero e proprio custode
dell’edificio
(in particolare nelle chiesette rurali). Nel nostro caso specifico,
appurata
l’esistenza della carica del massaro, si dovrà
pertanto accertare se si siano
conservati dei libri massariali relativi alla chiesa di S. Stefano e se
in
passato essa fosse sotto la protezione di una confraternita
(solitamente
intitolata al santo medesimo). Le uniche difficoltà poste
dal testo epigrafico
attengono, come già ricordato, all’esatta
identificazione del nome proprio del
massaro Lorettu. Il ductus
dell’ultima lettera della seconda riga (Fig. 6) non
è particolarmente definito
e potrebbe essere accostato tanto ad una S
della gotica epigrafica minuscola (cioè della fattispecie
delle altre due
presenti nell’iscrizione) quanto ad una I
del tutto dissimile però dalle altre che compaiono nel titulus. Nel primo caso la lettura
dell’antroponimo, disposto su
due righe, sarebbe Massarco, allo
stato attuale delle ricerche un unicum
in ambito onomastico che richiamerebbe comunque molto da vicino il nome
Massargiu,
variante sarda del ben più noto Massarius
diffusamente attestato per l’età medievale.
Qualora la lettera fosse invece una I,
si dovrebbe immaginare che MAI
possa
essere un’abbreviatura per contrazioneda sciogliersi in M(ann)ai o M(ir)ai,
due antroponimi sardi
documentati in letteratura.
Le rimanenti lettere SARCO, nella
terza riga, dovrebbero pertanto essere interpretate come il primo
elemento di
un poco verosimile doppio cognome Sarco
Lorettu.
Risulta infine molto interessante la grafìa mahyu
(Fig. 7), in luogo delle consuete mayu,
maju e maiu,
per l’odierno logudorese màju.
Sulla
scorta delle considerazioni fatte fin qui circa
l’interpretazione più
plausibile dell’antroponimo, la trascrizione del testo
epigrafico è quindi la
seguente:
Yh(esu)s
/ M°CCCCLXXXXII
a di VI mahyu Maṣ/sarco
Loret(t)u mas(s)aiu.
L’iscrizione
della chiesa di S. Maria Iscalas (Bonnanaro)
La
chiesa di S. Maria Iscalas (Fig.
8) è ubicata alla
periferia NO del
paese di Bonnanaro, posta in posizione elevata rispetto a
quest’ultimo su un
pianoro lungo le pendici del Monte Pelao, in località
conosciuta
tradizionalmente col coronimo Marràda.
L’edificio, mononave, risulta
suddiviso in tre campate, privo di transetto e con presbiterio di forma
quadrata.
Per contrastare le spinte dei due archi a tutto sesto traversi interni,
i
fianchi della chiesa sono stati dotati di due contrafforti per lato.
Fino a non
molti anni fa il monumento versava in una condizione di estremo degrado
ed
abbandono: un iniziale intervento di restauro promosso dalla
Soprintendenza ai
BAPPSAE per le province di Sassari e Nuoro, effettuato sul finire del
secolo
scorso, ha provveduto alla ricostruzione della copertura e delle parti
murarie
crollate del presbiterio. Successivamente,
nell’autunno-inverno 2000-2001, un
secondo intervento ha assicurato il rifacimento della pavimentazione
della
navata e del presbiterio nonché la chiusura dei varchi
d’accesso ancora aperti.
Contestualmente è stata condotta una campagna di scavo
archeologico e di studio
delle stratigrafie verticali delle murature che ha consentito di
svelare
l’esistenza di fasi strutturali anteriori rispetto a quella
attualmente
visibile. Dagli scavi sono riemersi i resti di strutture di un
originario
impianto chiesastico assegnabile ad età medievalesulle quali
“in una fase anteriore alla metà del
XVII, venne realizzato un
secondo impianto di dimensioni maggiori rispetto al
precedente”. A
fornire un prezioso elemento datante per questo secondo impianto, la
cui
fabbrica è stata finora ascritta al Seicento sulla base sia
dell’esame
architettonico del monumento sia della cronologia dei più
antichi contesti
funerari riportati alla luce al di sotto dell’area
presbiteriale in occasione
degli scavi archeologici, è certamente l’epigrafe
incisa nell’architrave della
porta che si apre sul fianco meridionale della chiesa, in
corrispondenza della campata centrale (Fig. 9).
Il
titulus, sostanzialmente
inedito malgrado la sua indubitabile importanza per
l’interpretazione delle
vicende costruttive della S. Maria Iscalas, compare ai due lati della
faccia a
vista dell’imponente blocco monolitico calcareo che funge da
architrave, al
centro della quale campeggia il motivo figurativo ‘a
fiamma’ tipico degli
stilemi decorativi della tradizione gotico-catalana.
L’elemento ornamentale
tardogotico, nel suo semplice schema compositivo con trama esornativa a
spina
di pesce, clipeo centrale e vertice superiore
dell’inflessione fiammata
sormontato da croce patente a bracci filiformi, ricalca il vasto
repertorio
spontaneo sviluppato dai picapedrers sardi tra XVI
e XVII sec.
(riproposto in alcune località dell’Isola sino
alle soglie del XIX sec.) ed è
ampiamente documentato nelle specchiature architravate di porte e
finestre
presenti in edifici religiosi e civili.
Proprio la decisione di incidere nella mezzerìa
dell’architrave il disegno ‘a
fiamma’ provvisto di croce ha rivestito un ruolo determinante
nel criterio
seguito dal lapicida per impaginare il titulus:
giacché l’inflessione
occupava in altezza pressoché tutto lo spazio disponibile
nello specchio
epigrafico,
lo scalpellino ha scelto di disporre il testo ai due lati della fiamma,
suddividendolo in altrettante righe coerenti tra loro per ciascun lato.
Il titulus
ha pertanto inizio nella prima riga del lato sinistro
dell’inflessione e
prosegue nella riga sottostante per poi passare al lato destro col
medesimo
andamento.
Ad
un’accurata e reiterata disamina, il
testo può essere riprodotto come segue:
HŌA21DEBE
PRIORISA·IDO
(motivo
‘a fiamma’)
NARGUAN1605
RADECANPU
Nella
realizzazione dell’iscrizione il lapicida ha denotato, quanto
a mestiere, una
certa imperizia. Questa risulta palese nell’irregolare
allineamento dei
caratteri (decisamente approssimativo quantunque egli si sia servito di
sottili
linee guida graffite durante la fase preparatoria
dell’impaginato)e nella
disomogeneità del loro modulo.
Colpiscono inoltre la variabilità della distanza lasciata
tra un carattere e
l’altro nonché l’esiguità di
quella nell’interlineatura fra le righe dei due
lati. Ad accrescere l’immediata parvenza di scarsa
accuratezza e di
disorganicità del prodotto epigrafico vi è
altresì l’assenza di spazi
risparmiati tra le parole per distinguere nitidamente gli elementi del
testo
alla quale si associa, in un confuso continuum
grafico, il mancato utilizzo di segni di interpunzione, se si eccettua
il solo
interpunto inserito dopo il termine priorisa.
Lo scalpellino ha mostrato viceversa meno negligenza
nell’esecuzione delle
forme di lettere e cifre, riprodotte sulla pietra con un tratteggio
perlopiù
sicuro (salvo i casi della N e
della A in benargu
e delle lettere C, N
e P
in Canpu) ed un’incisione
caratterizzata da un solco filiforme e marcate apicature. La tipologia
scrittoria impiegata, una capitale umanistica rustica, è nel
complesso di
fattura abbastanza apprezzabile, con una spiccata propensione per lo
sviluppo
verticale dei caratteritranne in quelli dalla
sagoma tondeggiante, ossia nella O
(segno usato anche per indicare lo zero nell’anno) e nella G.
Sotto
l’aspetto paleografico emergono la H
con traversa mediana “a
coda di rondine”, la R
dal ductus ora aderente ai canoni della capitale
(come in priorisa)
o talvolta in due tratti con occhiello molto aperto e cauda
ricurva (in benargu
e Idora), la S
(avente valore di 5 nell’anno) con l’arco superiore
allungato e
quello inferiore chiuso a ricciolo. La P in
priorisa presenta una breve appendicola
nell’occhiello e la A
ha aste oblique e traversa angolare (non visibile però in benargu,
an
e Idora). Alquanto insolita è la foggia
del segno che rappresenta la
prima cifra nei numerali del giorno ricordato
nell’iscrizione: un’asta
verticale ripiegata in alto a becco (rivolto a sinistra) e fornita alla
base di
un tratto semicurvo (Fig.
10). Fatti i debiti
raffronti con l’1 seguente (la cifra viene raffigurata
mutuando come di
consueto il disegno della I capitale) si
può arguire che esso indichi
quasi sicuramente il numerale 2. Nel titulus
compaiono, come già visto per il S. Stefano di Oschiri,
lettere
retroverse (la
N
in benargu) e
nessi (U ed A a formare una
curiosa legatura tra la lettera
finale di benargu e l’iniziale di an).
Infine, nella prima riga
del lato sinistro, la
O
è sormontata da una tilde “a cappello
tondo” per segnalare l’esistenza di
un’abbreviatura per troncamento.
Questa
è la trascrizione dell’epigrafe:
Ho(bert
vel
berta?) a 21 de be/nargu͡ an 1605
/ priorisa · Ido/ra de Canpu.
Il
testo nell’architrave attesta quindi
l’apertura della porta sottostante durante il priorato di
Idora de Canpu
consegnandoci contemporaneamente anche la data precisa
dell’avvenimento, il 21
gennaio del 1605.
Da un punto di vista linguistico è interessante, ma per
nulla inusitata nel
panorama epigrafico sardo di questo periodo, la commistione fra forme
catalane
e logudoresi: nel titulus coesistono difatti il
verbo hobrir(il compendio
per troncamento dovrebbe verosimilmente essere sciolto
nella voce hobert oppure hoberta
a seconda che il termine sottinteso sia,
rispettivamente, portal o porta)
ed il sostantivo an
(variante antica dei più comuni any e ayn)assieme al termine
logudorese benargu,
per l’attuale bennàrzu.
La forma priorisa potrebbe invece essere un
latinismooppure
l’esito della corruzione del logudorese priorissa
per
scempiamento grafico della doppia sibilante sorda (sulla falsariga di
quanto
già registrato in benargu con lo
scempiamento, in quel caso, della
nasale alveolare). La
presenza del verbo hobrir, seppur compendiato, in
principio di titulus
e l’incisione di quest’ultimo
nell’architrave (il blocco monolitico si trova
nella posizione originaria e non vi è alcun indizio che
faccia supporre una sua
precedente diversa collocazione) lasciano pochi dubbi circa la funzione
dell’epigrafe.
A meno che non si ipotizzi un differente scioglimento per
l’iniziale
abbreviatura per troncamento HO appare chiaro che
l’iscrizione avesse lo
scopo di celebrare non già il compimento di
“alcune ‘costruzioni’”, come
proposto in passato da Antonella Pandolfi,
quanto piuttosto l’apertura della porta nel fianco
meridionale della chiesa. La
data riportata nel titulus sollecita poi qualche
riflessione in merito
al secolo al quale dev’essere assegnato il secondo impianto
della S. Maria
Iscalas finora fissato, come già ricordato in precedenza,
genericamente ad una
fase anteriore alla metà del XVII sec..
Un
intervento come quello dell’apertura della porta laterale
potrebbe essere stato
concepito e realizzato in una fase successiva rispetto ai lavori
condotti sul
corpo dell’edificio, forse anche a distanza di alcuni anni
dalla conclusione
della fabbrica per la realizzazione del secondo impianto (quello
cioè visibile
oggidì). L’opportunità ora di riferire
con esattezza al 21 gennaio del 1605
l’apertura della porta laterale permette di precisare
ulteriormente il terminus
ante quem per l’erezione delle strutture murarie ad
essa pertinenti e di
prospettare per l’intero impianto una retrodatazione
quantomeno alla fine del
Cinquecento.
Per
quanto attiene al personaggio
citato nell’epigrafe, la priorisa Idora de Canpu
potrebbe essere
identificata con una Bidora de Campu deceduta, come risulta dal suo
atto di
morte, a Bonnanaro il 1 giugno del 1614. Le
perplessità nei confronti di tale congettura scaturiscono
tuttavia dalla
mancanza nell’atto di un qualsivoglia richiamo
all’importante carica di priora,
indicata al contrario in modo esplicito nell’iscrizione; il
solo collegamento
alla S. Maria Iscalas contenuto nel documento, malgrado esso non sia
affatto
trascurabile, è il lascito alla chiesa di “una
fague de altare de damascu biancu
guarnida a voluntade de su R(ecto)re”
(probabilmente un vesperale o un
paliotto), donazione posta in cima alle volontà
testamentarie dichiarate dalla
defunta.
Resta infine da capire quale sia effettivamente l’organismo
religioso da porre
in rapporto al titolo attribuito nel testo dell’architrave a
Idora de Canpu, se
il personaggio fosse cioè la priora di una confraternita
femminile oppure di un
monastero connesso con la chiesa bonnanarese, cenobio del quale a
tutt’oggi non
è però giunta a noi alcuna testimonianza.
L’analisi
dell’iscrizione del S.
Stefano di Oschiri e di quella della S. Maria Iscalas di Bonnanaro,
sebbene
qualunque tipo di esame comparativo debba necessariamente tener conto
dell’arco
cronologico di oltre un secolo che separa i due documenti epigrafici
(punto
nodale già rimarcato nella premessa introduttiva di questo
contributo), ha
fatto dunque emergere come l’utilizzo del dialetto
logudorese, tratto
distintivo che accomuna i due tituli, mostri sotto
l’aspetto linguistico
degli elementi di indubbio interesse. Questi sono rappresentati
innanzitutto
dalle particolari grafìe adottate dai lapicidi nella
menzione dei mesi, esiti
che si discostano dalle corrispettive forme più comunemente
attestate nelle
fonti documentarie coeve ai due testi epigrafici: la variante mahyu
(in
luogo delle consuete mayu, maju e maiu)
nell’iscrizione del S. Stefano,
benargu (invece di bennargu,
bennargiu o benargiu)
in quella della S. Maria Iscalas. In quest’ultimo titulus
è stata
inoltre evidenziata la commistione tra forme logudoresi e catalane
(nello
specifico il verbo hobrir ed il sostantivo an).
Dal
punto di vista meramente epigrafico
in precedenza si è sinteticamente accennato al formulario
proposto nello schema
compositivo dei due tituli, schema che vede per
entrambi l’inserimento
della datatio seguita dal nome e cognome del
promotore dell’opera
realizzata. Nell’iscrizione di Oschiri, dopo l’invocatio
iniziale
sintetizzata dal trigramma bernardiniano, in particolare vengono
ricordati,
nell’ordine: l’anno, il giorno ed il mese
dell’avvenimento, accompagnati poi
dal nome e cognome del personaggio e dal ruolo da lui rivestito. Nella
chiesa
bonnanarese abbiamo la voce verbale (benché compendiata per
troncamento) posta
in principio di testo (dettaglio prezioso per comprendere oggetto e
funzione
dell’iscrizione) alla quale fa seguito la sequenza:
giorno-mese-anno
dell’avvenimento-ruolo del personaggio-nome e cognome.
Ancora, vanno
sottolineate le analogie riscontrabili nel ricorso a lettere retroverse
(la S
del trigramma
bernardiniano a Oschiri e la N
di benargu nella S. Maria Iscalas) ed a nessi
così come la scelta di
suddividere su due linee l’antroponimo del personaggio citato
nelle epigrafi (Massarco
nel S. Stefano e Idora a Bonnanaro).
Riguardo
infine al contenuto dei due tituli
e segnatamente alle date in essi riportate, il 6 maggio 1492 e il 21
gennaio
1605, si deve porre l’accento sui fondamentali e precisi
riferimenti forniti in
merito alla cronologia relativa di alcune parti dei due edifici (nel
caso della
S. Maria Iscalas consentendo anche di formulare un’ipotesi di
retrodatazione
dell’intero impianto), ancor più utili se si
considera la scarsità di
testimonianze scritte e datate concernenti le due chiese. Le epigrafi
restituiscono altresì il nome di due personaggi, un tal Massarco
Lorettu
e Idora de Canpu, consegnandoci nel contempo
l’indicazione delle
importanti cariche da loro ricoperte, rispettivamente quella di massarius
ecclesiae e quella di prioressa.
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(l’articolo, pressoché identico nel titolo e nei
contenuti, era già stato
pubblicato dal Cau in «Voce del Logudoro», n. 41,
28 novembre 2010 e n. 42, 5
dicembre 2010).
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NOTE
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