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Nuova luce sugli affreschi dell'Appartamento Borgia in Vaticano  
Alessandra Masullo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 28 Aprile 2013, n. 672
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Nel 1420, quando la sede papale da Avignone venne trasferita nuovamente a Roma, per opera di papa Martino V, la città versava in una situazione non facile dal punto di vista socio-politico-economico e il popolo si trovava in una condizione di degrado e arretratezza.

Si avvertì un forte bisogno di ripristinare i modelli culturali dell’antichità classica concludendo, così, l’era medievale e compiendo la grande trasformazione dell’Europa, cui si dà il nome di Rinascimento. Ma considerare questa fresca corrente solo come una rinascita dell’antico è una veduta non molto lungimirante, perché essa fu l’integrale riforma della civiltà umana in Occidente.

Con la reintegrazione dei modelli classici, rinvennero di conseguenza tutti miti e le culture pagane di cui gli stessi riferimenti antichi erano pienamente intrisi, perciò, il Cristianesimo si trovò di fronte ad una vasta schiera di letterati che scardinavano i dogmi delle fede e mettevano in discussione le teorie filosofiche sulle origini del mondo, sull’immortalità dell’anima e sulla natura che governa tutte le cose.

Al ciclone umanista partecipò vivamente Giulio Pomponio Leto, il quale dopo la fondazione dell’Accademia Romana cui prese parte il maggior numero dei letterati e filosofi del Quattrocento, venne processato con l’accusa di aver mosso pesanti critiche nei confronti della Chiesa.

La cultura umanistica, vera rivoluzione del pensiero e dell’opinione, recava in sé elementi riformatori, disprezzando i dogmi, distruggendo la fede nelle autorità, dissolvendo con la sua critica le tradizioni e le invenzioni clericali del Medioevo. L’Umanesimo volgeva le spalle all’ideale cristiano, cui opponeva il culto dell’uomo, con le sue capacità e le sue risorse; era la prima affermazione aperta del libero pensiero, emancipatosi dalla Chiesa, la prima aperta frattura nell’unità del principio spirituale e della concezione cristiana del mondo.

Gli umanisti, d’altro canto, dopo i numerosi ostacoli posti dalle autorità cristiane, accettarono una condivisione del Cristianesimo a patto che essa assumesse le particolari caratteristiche di quell’antichità classica in cui gli accademici romani andavano rifugiandosi, con lo scopo di confutare e ripristinare, monumenti, leggi e consuetudini propri dell’antica città di Roma.

Intanto la Chiesa affermava il suo potere temporale sulla città promuovendo il rinnovamento degli edifici pericolanti e ormai obsoleti all’interno dei quali si svolgeva la vita politica economica e culturale e alcuni fra i più importanti umanisti ed artisti del tempo, trasferitisi a Roma, avevano partecipato attivamente al programma di ricostruzione promosso dai pontefici e dai loro cardinali.

Risulta chiara quindi la benevolenza da parte di Sisto IV e Alessandro VI, che si susseguirono nell’agevolare l’attività culturale degli accademici e nel favorire il rinnovamento sociale e politico di Roma.

A Bernardino di Betto venne commissionata da parte di papa Alessandro Borgia la decorazione del suo Appartamento nel Palazzo Vaticano, e oggetto di interesse e studio, è sicuramente la decorazione della Sala dei Santi, per i suoi contenuti iconografici di matrice pagana, in cui il mito di Iside e Osiride si mescola alla rappresentazione di alcuni Santi probabilmente cari al Papa stesso e all’ esaltazione dell’emblema borgiano.

Il nome di questa sala è legato alle immagini dipinte nelle lunette, sebbene in verità solo quattro di esse includano scene della vita dei Santi. Sono raffigurati Santa Elisabetta, madre di Giovanni, ritratta nella scena delle Visitazione, Susanna e i vecchioni – che raffigurano scene del Nuovo e del Vecchio Testamento - Sant’Antonio e San Paolo , i due eremiti del deserto egiziano; Santa Caterina d’Alessandria, Santa Barbara; San Sebastiano.

Le immagini delle lunette presentano problemi iconografici legati alla scelta inusuale dei soggetti e alla loro sequenza e anche per Saxl, la serie risultò insolita: Susanna si trovava molto raramente nelle rappresentazioni artistiche e nessun giorno degli altri Santi corrispondeva a qualche particolare data della vita del papa.

La Cieri-Via nota una descrizione da parte di Saxl, poco convincente riguardo il significato dei Santi [1] .

La soluzione ipotetica di Saxl, è che forse i Santi rappresentano le sette Virtù: la Visitazione potrebbe rappresentare la Speranza , Sant’Antonio che sconfigge i demoni la Fede, San Paolo che divide il pane la Carità, Santa Caterina che sconfigge i filosofi la Prudenza, Santa Barbara e la sua torre la Fortezza, Susanna assolta dalle false accuse la Giustizia, mentre san Sebastiano dovrebbe rappresentare la Temperanza.

Se la soluzione esatta è in questa direzione, il programma generale dell’Appartamento Borgia rientrerebbe quasi completamente nella tradizione enciclopedica medievale.

Eppure non esiste nessun’altra opera in cui il paganesimo e l’orgoglio individuale abbiano potuto manifestarsi con palese nettezza come nell’Appartamento Borgia, a partire dalla constante, quasi “nauseante” presenza degli emblemi di Alessandro VI.

I Borgia erano una famiglia in cui attraverso un legame matrimoniale scorreva il sangue dei re d’Aragona, per cui Alessandro adottò un emblema trecentesco della sua famiglia, con le due corone d’Aragona, una rivolta verso l’alto e un’altra rivolta verso il basso [2] .

Questa doppia corona è abbastanza strana come emblema di un pontefice, incoronato con la triplice corona di San Pietro. Ma Alessandro VI aggiunse all’emblema aragonese un tratto nuovo: dei raggi emanano  verso il basso dalla corona inferiore, quasi a voler dire che il papa fosse figlio del sole. Questo appunto è ribadito in un’altra immagine: il soffitto della sala delle Sibille è decorato con le immagini di sette pianeti.

Le Sibille avevano predetto l’ascesa e il declino di re e imperatori e prevista la venuta di Cristo: in maniera diversa, ma analoga, gli astri preannunciano ai dotti e a saggi il corso degli eventi futuri. I sette dipinti mostrano le divinità planetarie e, sotto, gli esseri nati sotto il loro segno; sotto il carro del sole è raffigurato il papa che impartisce la sua benedizione al mondo.

C’è un altro elemento degno di nota: il carro di Venere era tradizionalmente trainato dalle sue colombe; quel carro è tirato da tori che portano strane decorazioni in testa. Il toro, è presente ovunque nelle decorazioni dei soffitti e compare centinaia di volte. Amici e nemici chiamavano il papa, dai primi giorni del suo pontificato, fino alla sua morte “il bue”.

Un distico recita: «Vive diu bos, vive diu celebrande per annos inter pontificum gloria prima choros» [3] .

Così anche i nemici erano solito chiamarlo; Pasquino in un poemetto ammonitorio gli si rivolge: «bue che sei!» [4] quindi tutti consideravano il bue come il simbolo dei Borgia e perciò era inevitabile che i soffitti del palazzo si decorassero con la storie e la mitologia del bue.

La sede destinata a questa decorazione fu il soffitto della Sala dei Santi. Pinturicchio offrì magistralmente la descrizione della storia introducendo lentamente lo spettatore verso il centro del tema.

Un arco divide il soffitto in due parti all’interno del quale sono inseriti degli ottagoni. Proprio in questi ottagoni e nelle vele del soffitto è narrata la vita della principessa greca Io, che, secondo Ovidio [5], da essere umano fu trasformata in vacca, e da vacca a dea.

Le scene sono ben note: Giove è attratto dalla bellezza della figlia di Inaco, ma Giunone scopre ben presto l’infedeltà del consorte, il quale non trova di meglio che trasformare Io in una vacca. Giunone chiede in regalo la vacca; Giove pensa di non poter rifiutare questo regalo alla sua sposa, la quale affida la vacca alla guardia di Argo. Giove manda Mercurio a uccidere Argo, al che Giunone invia a sua volte le Furie a tormentare Io. Alla fine costei arriva in Egitto, dove, ritrovate le sembianze umane, viene fatta regina col nome di Iside. Questa Io-Iside insegnò agli Egizi l’uso dei geroglifici, proprio come Mosè inventò la scrittura ebraica

Il ciclo muove dal centro verso destra per poi continuare a sinistra. Nell’ottagono centrale è raffigurato Giove che insegue la giovane Io, sulla destra Giunone gelosa che la trasforma in una vacca, nella scena che segue, è raffigurato Mercurio inviato da giove che addormenta Argo posto a guardia di Io da Giunone. La narrazione segue a destra dell’ottagono centrale con la scena di Mercurio che uccide Argo.

La storia di Ovidio finisce con la fuga di Io sui lidi egizi, una scena non rappresentata dal Pinturicchio nel quinto ottagono dove il pittore invece raffigurò l’immagine di Io, che ritrovate le sembianze umane in Egitto, siede in trono tra Mosè ed Ermete Trismegisto.

Questa scena ha funzione di trait-d’union tra la storia mitologica ovidiana di Io e la leggenda egiziana di Iside, narrata da Apuleio e Diodoro Siculo, che si sviluppa nelle quattro vele del soffitto verso la finestra e continua in quelle nella seconda metà della stanza.

Vediamo dapprima la bellissima Io-Iside sposata ad Osiride e da questo momento Osiride diviene la figura principale della rappresentazione e tutte le scene che precedono non sono altro che un preludio il quale spiega come la storia del genere umano fosse iniziata in Grecia e proseguita in Egitto.

Osiride è il grande benefattore del genere umano. Salito al trono, egli aveva insegnato al suo popolo l’uso dell’aratro, ed era considerato una divinità. Aveva insegnato anche a coltivare la vite e a raccogliere il frutto [6] . Osiride qui è ritratto come il pacifico sovrano degli albori dell’umanità.

Le immagini sull’altra volta illustrano il tragico seguito di questa storia. Osiride è ucciso dal suo cattivo fratello Tifone e il suo corpo fatto a pezzi dagli assassini che ne disperdono le varie parti per tutto l’Egitto. Iside, peregrinando da un luogo all’altro, riesce a trovare tutte le parti del corpo del marito, sulla cui tomba fa erigere una piramide.

Nel quadro successivo si vede ancora la tomba, accanto alla quale compare un toro con tutti i paramenti: si tratta di Api, l’immagine vivente del dio scomparso.

Con la comparsa del toro Api si giunge al punto essenziale della storia.

In Egitto, all’inizio della civiltà umana, il divino re e maestro, dopo essere stato ucciso, riapparve sotto le sembianze d’un animale che gli Egiziani veneravano come un dio. Api veniva tenuto in un tempio e gli si forniva ogni tipo di cibo; quando invecchiava si metteva nella stalla un nuovo Api, e così Osiride continuava a vivere attraverso generazioni di tori. La religione del toro eterno sostituisce la figura umana di Osiride.

Il culto dell’animale vivo confina nel mondo sotterraneo il dio umano, la cui esistenza sulla terra continua sotto le spoglie del suo animale [7] .

L’ultima scena ci porta alla conclusione della storia: i sacerdoti sollevano il toro poggiato su un dado ed è protetto da un’edicola con due bastoni, portati a spalla da due devoti, per mostrarlo ai fedeli prima di dare inizio ai riti sacri, mentre in testa alla processione un bambino suona un corno che reca il simbolo del papa Borgia, la doppia corona.

Un corteo liturgico molto simile è raffigurato nel mosaico di Palestrina, anche se i vari elementi sono mostrati diversamente [8] , ma ricorrono le figure dei fedeli con i bastoni processionali sulle spalle, l’edicola, i musicanti, l’animale sacro (un cane) poggiato su un dado.

Questo tentativo di legare genealogicamente la storia della famiglia Borgia a quelle delle divinità pagane non è di per sé sacrilego. Alessandro VI, in una serie di rilievi nel fregio sottostante le figure dei santi, chiarì che il contenuto doveva essere interpretato in maniera strettamente cristiana.

Nella raffigurazione dei Santi, al di sotto di Santa Caterina i tori sono in venerazione di un’immagine della Vergine; sotto l’affresco di Sant’Antonio gli animali s’inginocchiano davanti alla Croce; sotto Santa Susanna appaiono inginocchiati davanti al papa.

Tutti questi tori, che sono rappresentati con l’addobbo sacrificale, chiariscono che qui il toro non va inteso come il bue Borgia, ma come il bue Api, perciò simbolo del paganesimo che si piega ad adorare la Croce e il vicario di Cristo assiso sul trono di San Pietro [9] .

Quindi per Saxl, il toro Api di Alessandro VI è un animale cristianizzato; tuttavia con la rinascita del toro Api, rinascevano alcuni elementi pagani primitivi.

Il punto principale, perciò, di questa analisi, non è tanto il fatto che Alessandro VI aveva fatto decorare il suo appartamento con una mescolanza di soggetti pagani e cristiani, quanto di aver scelto dal patrimonio classico il simbolo del toro associandolo alla genealogia della sua famiglia, che egli cercava costantemente di rendere sempre più potente e di aver collegato il toro pagano e l’animale del suo stemma con un procedimento che fa ricorso alle idee religiose dei clan primitivi.

Il problema che rimane costante è quello di conoscere l’ispiratore iconografico e iconologico del programma decorativo del soffitto; introducendo un rapporto diretto fra le scene di Api e le immagini dei Santi, si andò oltre l’intreccio dei simboli pagani e cristiani ammesso certamente nel Quattrocento.

Sotto la scena che rappresenta l’uccisione di Osiride è raffigurata la Disputa di Santa Caterina che si svolse ad Alessandria d’Egitto. L’imperatore pagano che ascolta attentamente i ragionamenti della Santa e che rimane tanto impressionato da volerla come sua sposa, siede su un trono decorato con una testa di toro. L’imperatore, in questo modo, è rappresentato come il successore di Osiride-Api sul trono d’Egitto. Il toro appare una seconda volta nel quadro, sopra l’Arco trionfale con il motto «PACIS CULTORI».

Nonostante il rilievo che ha nel quadro, quest’arco di trionfo è un’aggiunta che non ha molto a che fare con la leggenda di Santa Caterina; forse lo si può considerare un elemento di sfondo per indicare l’Alessandria romana in cui ebbe luogo il dibattito.

Ma l’arco trionfale evidentemente ha anche un’altra ragione d’essere.

Alla sua incoronazione il papa era stato acclamato «PACIS PATER»; non ci può essere dubbio di chi sia il trionfo che l’arco è destinato a celebrare: il toro e il motto lo confermano [10] .

A questo punto è necessario analizzare e possibilmente chiarire quale intreccio intercorre tra il mito dell’Egitto, la cultura classica pagana e la cultura cristiana.

Bernardino di Betto ha dimostrato, negli affreschi del soffitto della Sala dei Santi, di quanto l’ambiente apostolico fosse intriso dell’interesse nei confronti dei soggetti scelti da Alessandro VI. Come già detto nella scena finale del ciclo dei soffitti, il sacro bue è portato trionfalmente in processione entro un’edicola sormontata dalla figura di Ercole: è Ercole Libico, figlio di Iside e Osiride.

Di lui ci parla diffusamente Annio da Viterbo nella sua Viterbiae Historiae Epitoma (1491 circa) narrando una leggenda intenta a collegare a Ercole Libico e di conseguenza a Iside e Osiride, fondatori della civiltà, le origini degli Etruschi e degli Italici.

Annio da Viterbo, era maestro di palazzo di Alessandro VI, e fu quasi certamente fra i suggeritori del ciclo degli affreschi, come è stato da tempo confermato dalla critica.

Per altro, nelle sue Antiquitates e nella sua Epitoma, Annio tratta di Iside, di Osiride e del bue Api con parole che trovano spesso riscontro nelle scritte didascaliche che Pinturicchio incorporò agli affreschi della Sala dei Santi per illustrare i soggetti rappresentati. [11]

Ma un altro suggeritore delle iconografie egizie dell’appartamento, probabilmente potè essere lo stesso Francesco Colonna, signore di Palestrina e protonotario apostolico, autore dell’Hypnerotomachia Poliphili.

Ai Colonna si attribuiva la stessa discendenza mitica da  Ercole Libico, l’Ercole egizio, che nobilitava Alessandro VI e i Farnese.

Testi seicenteschi tramandavano il leggendario racconto dell’eroe «Hercole Libico, over Egitio» che venuto in Italia si fermò a Palestrina «portando per impresa la Colonna» (con riferimento alle Colonne d’Ercole) generando così i primi Colonna. E in omaggio al mito di questa discendenza che, evidentemente, Francesco Colonna arricchì il suo romanzo del 1499 di riferimenti egiziaci. Riferimenti che trovano una puntuale e singolare riscontro con gli affreschi della Sala dei Santi e con le teorie di Annio da Viterbo.

Sono noti gli «hieraglyphi aegypti» che il Colonna inventò nel Sogno del Polifilo, e se si escludono i veri e propri geroglifici riprodotti nell’obelisco che sormonta un elefante, tutti gli altri pubblicati nel romanzo, sono composti di figure tratte dai fregi romani o ad essi ispirati. Del resto le colonie italiche, secondo Annio da Viterbo, come già detto, furono fondate da Ercole Libico.

Il più noto dei geroglifici prodotto dal Colonna è quello scolpito alla base dell’elefante. Si compone di tre bande di segni, la prima delle quali è chiaramente derivata da un fregio dell’Arco degli Argentari, con qualche modifica.

La spiegazione è :« Ex labore deo naturae sacrifica liberaliter. Paulatim reduces animum dei subiectun. Firmam custodiam vitae tuae misericorditer gubernando tenebit incolumenque servabit». Ovvero: con il lavoro (dei campi) sacrifica generosamente al dio della natura. A poco a poco ridurrai il tuo animo soggetto al dio. Egli governando misericordiosamente custodirà la tua vita e la conserverà incolume. E Iside era proprio la dea della natura e del lavoro agricolo, che nel geroglifico è rappresentata con la testa di un bue sorretta da due zappe; il bue, inoltre, richiama Api-Osiride.

Per Francesco Colonna che cita tutte queste divinità nel suo romanzo, Iside e Osiride formano una sola unità con Serapide, associato nel culto a Osiride e al bue Api.

Il dio della natura cui sacrificare, è secondo il geroglifico letto da Polifilo Osiride-Iside, perciò Serapide.

Ma un’altra indicazione ci viene dal versante di Annio e dal Marmo Osiriano del museo di Viterbo, celebre e divertente che l’umanista truccò, inserendo una lunetta forse creduta antica, in realtà del XII-XIII secolo, in un riquadro marmoreo eseguito probabilmente per l’occasione, con due teste a rilievo, l’una maschile della di Osiride e l’altra femminile della di Iside. Annio sostenne che il tutto era un geroglifico egiziano e interpretò a suo modo anche la lunetta, dove è scolpito un albero sormontato da un nido di uccelli.

L’episodio è quasi incredibile per l’astrusità della lettura non meno che per la sfacciata natura del falso, inteso a “provare” la presenza di Osiride a Viterbo. Ma ciò riporta al clima di quell’archeologia fantastica, di cui proprio l’Hypnerotomachia è l’espressione più rigogliosa [12] .

Nei rami intrecciati intorno al nido, Annio lesse dunque la forma di un occhio e, basandosi su un passo di Macrobio, considerò l’occhio come geroglifico di Osiride. Nei due volatili che si trovano alla base dell’albero, visti come sparvieri, lesse poi il simbolo di Ercole e, ancora, di Osiride, che come sparvieri mossero i loro eserciti contro i Giganti.

Annio vedeva poi nella lunetta una serie di simboli, che permetteva di decifrare il seguente messaggio: «sono Osiride, che insegnò agli Italici l’arte di arare, seminare, potare, coltivare le vigne, vendemmiare e fare il vino» [13] ; «Docuit egiptiacos arare», si legge di Osiride in uno degli affreschi di Pinturicchio.

Anche il Colonna doveva ben conoscere l’interpretazione di Annio, secondo cui, dunque, l’occhio e il rapace sono segni di Osiride, come pure quella dell’Alberti, che considerava l’occhio un segno di dio e l’avvoltoio un segno della natura. [14] .

La frase «deo naturae sacrifica» è resa nel suo geroglifico “egizio” con un’ara sacrificale che contiene proprio le figure di un occhio e un avvoltoio. Il sottinteso che il dio della natura è Osiride (Osiride,Iside, ovvero Serapide) risultava avvallata dalle indicazioni di Annio, ben note all’ambiente degli umanisti romani. E rafforzato dalla vicinanza della testa di bue, che richiamava Api: nonché, dall’altro lato, della patera, che nel geroglifico corrisponde alla parola “liberaliter” (riccamente, generosamente).

Infatti, più avanti il Colonna ricorda la patera aurea che i sacerdoti di Menfi immergevano nel Nilo per officiare Api.

Nella pancia dell’elefante, infine Polifilo incontra le due figure nere di un re e una regina, eretti su due arche sepolcrali: sono evidentemente Osiride e Iside, neri perché africani [15] .

Come un re e una regina anche il Pinturicchio aveva raffigurato Osiride e Iside, legando la figura del primo a immagine del lavoro agricolo. In tutta la decorazione dell’Appartamento Borgia ricorre poi frequentemente il bucranio come simbolo di Api e il sacro animale fa la sua apparizione in due affreschi della Sala dei Santi: il parallelismo con la rappresentazione del Colonna è evidente [16] .

La stessa immagine dell’elefante con l’obelisco, allegoria della Sapienza, richiama anche nelle sue preziose bardature il bue Api di Pinturicchio che incrocia il proprio sepolcro a forma di “meta”, forma che veniva assimilata a quella dell’obelisco. E l’ara sacrificale che nell’affresco è collocata accanto ad Api, con la fiamma ardente, è la stessa che nel geroglifico del Colonna è accostata alla testa di bue.

Ma c’è anche una rispondenza più intrinseca allo stesso stile pittorico del Pinturicchio.

L’elefante viene descritto come «scintillato d’oro» mentre la gualdrappa è «di molti sigilli ET culle ET historiette ET fictione probatamente ornata». Ugualmente sono le “historiette” del Pinturicchio, con gli ornati a rilievo di “culle” e “sigilli”. Lo scintillio del corpo dell’elefante, richiama i puntini d’oro che l’artista inserì nei suoi affreschi, anche intorno alla figura del bue Api. Insomma, uno sfarzo di ori che ben corrisponde al gusto, anche delle architetture dipinte da Bernardino di Betto, come è eloquente, anche il confronto con stoffe e vesti come quella del papa Borgia, nel ritratto eseguito nel suo appartamento.

Tutto nuovo fu l’influsso esercitato dal pittore perugino nel cruciale formarsi di uno stile particolarissimo per la decorazione delle pareti dipinte in cui la chiave della novità fu la capacità di formulare un linguaggio del tutto innovativo, rielaborato dai prototipi della pittura di epoca classica.

Nella feconda stagione romana, a contatto con un panorama culturale di amplissimo respiro, stimolato dalle nuove scoperte archeologiche, a contatto con le potenti personalità intellettuali ed artistiche del Quattrocento romano, nella cerchia dei grandi che affrescavano la Cappella Sistina, Pinturicchio elaborò dunque un linguaggio non ancora conosciuto, anticipando le volte di Raffaello e Peruzzi.

Dall’opera dell’artista veniva contestualmente tratteggiato il quadro complesso della cultura romana della fine del XV secolo dal quale traspariva il tessuto di una società attraversata dal grande fenomeno umanistico propugnato dagli intellettuali, ma fortemente controllata dalla Curia romana.

Inoltre gli affreschi del Pinturicchio evidenziavano la precoce ispirazione del repertorio figurativo degli intonaci parietali della riscoperta della Domus Aurea.

Il punto di partenza che mi ha spinta ad approfondire lo studio sull’argomento, è stato un’affermazione di due studiosi, Lovito e Cloulas, i quali condividono la tesi che Pomponio Leto abbia scritto un commento sul soffitto della Sala dei Santi e che la rappresentazione del mito di Iside e di Osiride non è altro che la rappresentazione dell’immortalità dell’anima.

È proprio questo ciclo decorativo a destare l’attenzione, dimostrando come esso debba essere considerato un’opera fortemente innovativa, di valore quasi rivoluzionario, in cui il pittore inserì tutte le novità del suo linguaggio “all’antica”.

L’Appartamento Borgia, segna l’apice dell’attività di Pinturicchio a Roma per la ricchezza dell’apparato iconografico.

Analizzando a fondo il periodo artistico e storico di Pinturicchio, dalla decorazione della Cappella di San Girolamo nella chiesa di Santa Maria del Popolo, il Palazzo dei Penitenzieri del Cardinale Della Rovere, la Cappella Bufalini nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli, al Casino del Belvedere e infine all’Appartamento Borgia, conoscendo minuziosamente il pensiero umanistico di Pomponio Leto e consultando testi antichi e manoscritti di notevole interesse conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, è stato vivo l’impegno per dare una risposta o quantomeno una traccia di ricerca che possa essere di grande aiuto per un’analisi approfondita del ciclo decorativo e di un commento che scagionasse il suo contenuto fortemente pagano in un periodo in cui la Chiesa era intenzionata a mostrare il suo potere spirituale e temporale.

 

Pomponio Leto dedicò ventotto anni della sua vita all’insegnamento che egli esercitò alla Sapienza [17] , circondato da una fitta schiera di allievi.

L’umanista ebbe un alto concetto della sua scuola; lo studio romano, angusto, alloggiato alla meglio in casupole disuguali, dove gli uditori dovevano accalcarsi fin dalla mezzanotte [18] .

«È così- esclamava- che hanno ridotto l’Ateneo del Popolo Romano, anzi tutte le nazioni, di tutte le genti, in questo teatro dell’Orbe» [19] .

Per lui dunque, la missione dell’Antica Sapienza era molto alta e gli insegnanti di essa dovevano essere degni di Roma e della sua grandezza.

L’insegnamento universitario del Leto si divideva in tre periodi; il primo andò dal suo ritorno alla cattedra verso il 1470 al viaggio in Oriente. I documenti che ci rimangono di qualche decennio di attività scolastica, sono quasi tutti commenti di testi poetici antichi, per lo più epici latini.

Dopo il ritorno dalla Russia la sua attività assunse un nuovo aspetto. Egli divenne filologo e glottologo, scrisse varie volte in prosa e perfino in versi la sua “Ars Grammatica”, che pubblicò nel 1484, fece dei lunghi studi intorno al “De lingua latina” di Varrone.

Nel 1484 vide la luce l’edizione principe del Terenzio, pubblicato a Parma.

Dopo il 1480 quindi, i lavori di grammatica e glottologia presero decisamente il sopravvento. L’archeologia che primeggiava in tutti i documenti del primo decennio d’insegnamento a scapito del commento filologico e della stessa spiegazione del testo, lasciò spazio ad altri interessi.

Più tardi, scemato l’interesse che lo spingeva verso la filologia, il Leto ritornò agli studi sull’archeologia, dedicandosi però alla critica delle fonti storiche, della Repubblica e dell’Impero.

Un influsso sul Leto ebbe certamente l’opera del Platina, ad imitazione del quale compose un lavoro storico dalle grandi linee: i “Cesari”.

Naturalmente i singoli periodi che sono stati distinti negli ultimi trent’anni di vita intellettuale di Pomponio, non sono rigidamente divisi da limiti fissi, ma vengono quasi ad intersecarsi l’uno con l’altro.

All’infuori di questi gruppi di documenti, è da notare poi una particolare tendenza per le scienze naturali, come dimostrano gli studi sparsi un po’ ovunque sulla “Historia Naturalis” di Plinio e sull’opera geografica di Strabone.

Altra tendenza tipica dell’ingegno di Pomponio Leto è l’interesse per i testi giuridici; ebbe infatti, un’acuta conoscenza del diritto romano, attinta alle fonti primigenie.

I documenti dell’insegnamento universitario dell’umanista si dividono in due gruppi: quello dei chirografi e quello dei dictata.

Il chirografo è il libro che il professore teneva sott’occhio durante la lezione. Esso è un testo classico, commentato in margine dal Maestro. Le glosse occupano talvolta tutto lo spazio disponibile in alto, in basso della pagina ed ai lati del testo.

Il dictatum è il complesso di note che uno, o più studenti raccoglievano dalla bocca del maestro, nell’aula stessa della Sapienza. Salvo qualche accenno il testo manca sempre, i dictata, perciò, non poterono servire ad uso personale di Pomponio, anche se qualcuno di essi fu da lui riveduto e corretto.

I Dictata portano poi segni evidenti della loro provenienza scolastica: ripetizioni continue, spiegazioni di parole latine, riprese di cose già dette etc. etc.

Non tutti i chirografi sono autografi. Lo sono indubbiamente quelli dell’ultimo periodo, mentre gli altri sono quasi sempre annotati da vari allievi, ma portano delle correzioni della mano di Pomponio Leto.

Gli studi varroniani rappresentano il momento culminante di tutta l’opera scientifica di Pomponio. Il chirografo è andato smarrito, ma ci restano i Dictata, dovuti alla scolaresca della Sapienza.

I corsi universitari su Varrone si collocano finora fra il 1480 e il 1484-85 [20] ; in particolare, il Vat. Lat. 3415 (V), contenente il commento ai libri V-VII del De lingua Latina, reca il titolo e la data: “Pomponii viri clarissimi in Varronem dictata. 1484”.

Il manoscritto ripercorre l’opera varroniana, in cui oltre allo studio filologico e grammaticale dell’opera, vengono trattati numerosi argomenti di natura astrologica e filosofica, e proprio attraverso lo sviluppo di tali ragionamenti, è stato possibile ricostruire nelle grandi linee il pensiero di Pomponio Leto e la sua cultura dualistica e presocratica, il suo sincretismo riguardo l’istituzione del culto di Osiride, Iside e Serapide in Egitto e a Roma.

I dictata si presentano in minuscola corsiva e in latino, per cui attraverso un lavoro paleografico si tenta di collegare alcuni passi del manoscritto ad un’ interpretazione iconografica del soffitto della Sala dei Santi.

Natura naturans: questo fu il latente processo relativo al divenire universale ravvisato nell’opera virgiliana [21] , un processo che il Leto, soprattutto nei dictata in questione, considerò particolarmente, in quanto studioso attento, nel suo evidente tentativo di conciliare fides cristiana e doctrina epicurea, dei presocratici, oltre che cantore dell’infinità cosmica e del materialismo panteistico:

«Eraclito dice il fuoco il principio delle cose: non senza ragione, ché i “nostri” aspettano il sorgere d’un tempo ove tutto sarà divorato dalle fiamme. […] Il mondo arderà, dopo distrutta l’umidità non rimarrà più nulla, fuorchè il fuoco dal quale rinascerà un nuovo cosmo» [22] ed ancora: «Talete scrisse che l’acqua fu madre di tutte le cose? Egli è d’accordo con Omero e Virgilio […] La ragione di ciò ? Dalle acque nascono i venti, da questi l’aria, dalla purità dell’atmosfera il fuoco detto talvolta etere. Il sole, unito all’umidità, dicono, genera ogni cosa» [23] .

Considerando che nel periodo umanistico era ancora viva tra i cristiani l’opinione secondo cui al diluvio delle acque, testimoniato dallo stesso racconto biblico, sarebbe seguito quello del fuoco, risulta evidente dai passi del Varrone un’erudizione letiana a metà strada tra la formazione spirituale chiaramente cristiana e pienamente intrisa di reminiscenze bibliche e una dottrina filosofica che nel naturalismo scientifico, in modo particolare, sembra ritrovare il suo elemento centrale.

Il Bonincontri [24] , contemporaneo di Pomponio, prendendo anch’egli le mosse dai libri sacri e dal racconto biblico, trattò della creazione e della distruzione del cosmo alla luce di una tradizione filosofica che, pur mantenendosi cristiana, risultava comunque intrisa di elementi platonici e aristotelici.

Sono evidenti, dunque, soprattutto nei commenti a Varrone e a Virgilio i richiami continui da parte del Leto, alle teorie e ai principi filosofici propri dei presocratici.

A sostegno di ciò soccorrono le ulteriori glosse che Pomponio, anche se con la scorta di Cicerone [25] , riportò nel suo commento a Varrone.

Il discorso relativo ai quattuor aeterna genitalia corpora e alla lotta dei contrari all’interno dell’universo, offrì all’umanista lo spunto per citare Eraclito e porre, sulle orme del sapiente di Efeso, come principio assoluto del cosmo, il fuoco: «Dal calore nasce l’anima, dall’umore il corpo. Dice Cleante che il sole è fiamma, la quale si pasce dell’umore, perché nessun fuoco può rimanere senza alimento: egli si sbaglia; il fuoco, come elemento, tutto dona e nulla toglie alla natura: la forza della mente umana viene tutta dal cielo» [26] .

Fuoco, dunque, per il Leto, assurgeva a substantia prima del cosmo, mentre la natura ne era la potenza generatrice. Fuoco è energia e, quindi, metamorfosi della stessa negli elementi di un universo in continuo divenire: fuoco, aria, acqua e terra; fuoco, in ultimo, per Pomponio era natura, ovvero radice segreta di tutto ciò che nasce e perisce.

L’umanista di Teggiano, perciò, esaminò attentamente il De lingua latina e, probabilmente ebbe tra le mani altre opere varroniane; dai commenti a Varrone e Ovidio, trasse lo spunto per spiegare la filosofia presocratica, confermando la tesi relativa al dualismo caelum (anima) – terra (corpus) e guardando al cielo quale primo elemento universale che presiedeva alla formazione e alla cura delle anime e ad una terra che, nel continuo movimento e nella contesa dei contrari, assurge a principale generatrice e distruttrice dei corpi: «L’anima è Cielo, nato fuoco, quindi è calore e siccità; il Corpo, è terra gelida e umida. Per ciò più pura è l’aria, più acuti sono gl’ingegni» [27] .

Proprio sulle considerazioni espresse riguardo la contesa dei contrari e la tesi relativa al fuoco come forza generatrice, è giusto soffermarsi.

Si è già parlato della difficoltà di dare un’interpretazione chiara alla rappresentazione dei Santi, nell’Appartamento affrescato dal Pinturicchio.

Come già esposto in precedenza, la Cieri Via, nota una descrizione da parte di Saxl, poco convincente riguardo al significato dei Santi, d'altronde, anche lo studioso ritiene la scelta dei soggetti alquanto insolita.

La soluzione ipotetica di Saxl, è che forse i Santi rappresentano le sette Virtù, ma i dubbi sono numerosi.

Probabilmente, anche i Santi, sono stati scelti in relazione alla tesi del dualismo, della filosofia presocratica, dell’acqua e il fuoco.

I sette santi rappresentati nella stanza, possono essere correlati ai due elementi presi in questione.

Sant’Elisabetta, è rappresentata nella scena della Visitazione.

La Chiesa della Visitazione si trova ad Ain Karem, un quartiere di Gerusalemme situato a 8 km dalla città vecchia e risale all’Età del Bronzo come dimostrano gli scavi archeologici. Secondo un’antica tradizione, è il luogo dove vivevano Elisabetta e suo marito Zaccaria.

Ai piedi della scala della Chiesa della Visitazione si trovava una sorgente, tuttora esistente ma inquinata dalle acque della città,  e sarebbe il luogo esatto dell’incontro della Santa con sua cugina Maria e della nascita di San Giovanni Battista. Il nome di Ain Karem deriva dai giardini e orti (Karm) resi fertili da una sorgente perenne (Ain). La sorgente è chiamata Ain Sitti Mariam ("La fontana di Maria").

Acqua, fonte, nascita di San Giovanni Battista che battezzò Gesù Cristo nelle acque del Giordano e quindi nascita della Fede, ecco il significato importante che nella scena dovrebbe evincersi.

È il fuoco invece, presente, nell’iconografia tradizionale di Sant’Antonio Abate.

Sant'Antonio Abate chiamato anche Sant'Antonio il GrandeSant'Antonio d'EgittoSant'Antonio del FuocoSant'Antonio del Deserto o Sant'Antonio l'Anacoreta (251?-356), eremita egiziano, è considerato l'iniziatore del Monachesimo cristiano e il primo degli Abati.

Conosciamo la vita di Sant'Antonio abate soprattutto attraverso la Vita Antonii pubblicata nel 357, opera agiografica attribuita a Sant'Anastasio, vescovo di Alessandria che conobbe Antonio e fu da lui coadiuvato nella lotta contro la eresia ariana.

Molto spesso, nelle arti figurative Sant’Antonio viene affiancato dal fuoco, sul libro che reca in mano oppure ai suoi piedi, e molti sono i riferimenti a questo elemento nella vita e nelle leggende del Santo.

I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa i suoi scritti, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, S. Antonio scrisse ai suoi: «Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato» [28] .

Inoltre, Sant’Antonio è anche ricordato come il guaritore di un morbo, conosciuto fin dall’antichità come ‘ignis sacer’, ovvero ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.

San Paolo è noto come il principale missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani. Secondo la narrazione biblica Paolo si convertì al Cristianesimo mentre, recandosi da Gerusalemme a Damasco per organizzare la repressione dei cristiani della città. Fu fatto imprigionare dagli Ebrei a Gerusalemme con l'accusa di turbare l'ordine pubblico. Morì vittima della persecuzione di Nerone, decapitato probabilmente tra il 64 e il 67.

Il luogo della decapitazione del Santo è riconosciuto in una chiesa di Roma, oggi chiamata Chiesa di San Paolo alle Tre Fontane. La chiesa sorge presso le Aquæ Salviæ, dove San Paolo, subì il martirio: la leggenda racconta che la sua testa, una volta tagliata, abbia rimbalzato tre volte sul terreno, facendo scaturire ad ogni balzo una sorgente d’acqua, una calda, una tiepida ed una fredda; da qui il nome del toponimo delle tre fontane.

Non uguale, ma analoga, possiamo considerare la storia di Santa Caterina d’Alessandria, senza soffermarsi sulla vita della Santa, bensì sul suo martirio.

A dimostrazione della fede cristiana, Santa Caterina venne sottoposta ad una disputa con cinquanta filosofi pagani, i quali,  ascoltate le dottrine si convertirono al Cristianesimo. L’imperatore li fece immediatamente bruciare nel fuoco, mentre la Santa, rifiutando di diventare sposa dell’imperatore, venne torturata con una ruota dentata.

Un’antica leggenda narrava che dopo il supplizio, la ruota prendesse fuoco colpita da un fulmine e che essendosi salvata dalle torture della ruota, Santa Caterina venne decapitata, facendo sgorgare, al posto del sangue, latte bianco.

Legata ai fulmini, e di conseguenza alla forza del fuoco è Santa Barbara.

Benché non vi siano dati certi sulla sua vita, la sua figura divenne leggendaria grazie alla Legenda Aurea e il suo culto molto popolare per il fatto di essere considerata protettrice contro i fulmini e il fuoco.

Il padre di Barbara, Dioscuro, fece costruire una torre per rinchiudervi la bellissima figlia richiesta in sposa da moltissimi pretendenti. Ella, però, non aveva intenzione di sposarsi, ma di consacrarsi a Dio. Prima di entrare nella torre, non essendo ancora battezzata e volendo ricevere il sacramento della rigenerazione, si recò in una piscina d’acqua vicino alla torre e vi si immerse tre volte dicendo: «Battezzasi Barbara nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Per ordine del padre, la torre avrebbe dovuto avere due finestre, ma Barbara ne volle tre in onore della Trinità.

Il padre, pagano, venuto a conoscenza della professione cristiana della figlia, la condusse davanti al magistrato, affinché fosse tormentata e uccisa crudelmente. Il prefetto Marciano cercò di convincere Barbara a recedere dal suo proposito; poi, visti inutili i tentativi, ordinò di tormentarla. Durante la notte, Barbara ebbe una visione e fu completamente risanata.

Il giorno seguente il prefetto la sottomise a nuove e più crudeli torture: sulle sue carni nuovamente dilaniate fece porre piastre di ferro rovente. Una certa Giuliana, presente al supplizio, avendo manifestato sentimenti cristiani, venne associata al martirio: le fiamme, accese ai loro fianchi per tormentarle, si spensero quasi subito. Barbara, portata ignuda per la città, ritornò miracolosamente vestita e sana, nonostante l’ordine di flagellazione. Finalmente, il prefetto la condannò al taglio della testa; fu il padre stesso che eseguì la sentenza. Subito dopo, un fuoco discese dal cielo e bruciò completamente il crudele padre, di cui non rimasero nemmeno le ceneri. 

Veniamo alla rappresentazione di Susanna e i vecchioni.

Susanna, bella e pia ragazza, viene notata da due vecchi che frequentano la casa di suo marito mentre fa il bagno nel suo giardino. Costoro sono appena stati nominati giudici e, infiammati di lussuria, si fanno sotto con proposte infami, minacciando di accusarla presso il marito di averla sorpresa con un giovane amante se non si concede a loro. Al rifiuto di Susanna l'accusano pubblicamente di adulterio. Portata davanti al tribunale viene riconosciuta colpevole e condannata a morte mediante lapidazione.

Nelle scene che raffigurano la Santa, di consueto è sempre presente, come anche nel caso degli affreschi borgiani, una fontana.

Susanna in questo caso personifica la Chiesa perseguitata e il bagno è l’acqua di battesimo che rigenera la Chiesa stessa [29] .

L’ultimo santo in questione è San Sebastiano, raffigurato secondo la tradizionale iconografia.

Sebastiano, che secondo s. Ambrogio era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia meridionale) e da madre milanese, era stato educato nella fede cristiana, si trasferì a Roma nel 270 e intraprese la carriera militare intorno al 283, fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma, stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte. Alla scoperta della sua fede cristiana, venne perseguitato e messo a morte dagli arcieri dell’imperatore Diocleziano.

Negli atti di San Sebastiano, si legge ad un certo punto di Zoe, sposa di Nicostrato, funzionario imperiale incaricato della custodia di San Sebastiano nel carcere, la quale, prima che il santo cavaliere venisse trafitto dalle frecce, fu condannata a morte dai persecutori pagani, poiché convertita al Cristianesimo dopo che il Santo le fece ritornare la parola essendo muta.

Ovviamente il testo non è del tutto affidabile, ma negli atti di San Sebastiano, Zoe, viene appesa per i capelli e fatta bruciare sotto un fuoco ardente. Il miracolo fu nel fatto che la donna non morì per il fuoco, ma per il fumo. Non è però per la morte affumicata che Santa Zoe – qualora ci affidassimo alla veridicità degli atti - è restata viva alla devozione popolare, piuttosto per il prodigio operato su di lei da San Sebastiano.

Questa probabile spiegazione potrebbe far luce sulla scelta dei soggetti rappresentati dal Pinturicchio.

Acqua e fuoco, quindi, dal punto di vista cristologico, rigenerano e danno nuova vita spirituale, proprio come Varrone, e di conseguenza Pomponio Leto con i suoi commenti al De lingua latina, consideravano l’acqua e il fuoco, la causa di due tipi di nascita:  Igitur causa nascendi duplex: ignis ET aqua” [30]

Inoltre la mia proposta di mettere a confronto gli affreschi dei Santi della sala con Varrone e i commenti pomponiani, potrebbe giustificare anche la scelta di tali personaggi, tuttavia, dal punto di vista geografico: le storie, le vite, le leggende, sono tutte avvenute, tranne che per San Sebastiano, nell’area egiziana e giudaica.

Le analogie tra i dictata del 1484 e gli affreschi non finiscono ancora.

Varrone, quasi anticipando Ovidio, relazionò sull’origo mundi e sulla contesa degli elementi  nel cosmo, illustrando le corrispondenze fra principes dei, gli egizi Serapide e Iside, Saturno e Opi, Terra e Caelum [31] .

Complementare all’interesse per la dottrina presocratica si rivelò lo studio attento di quelle figure mitologiche che il Leto adoperò continuamente per commentare e spiegare ulteriormente la teoria relativa all’origo mundi: «L’anima del mondo che abbraccia tutte le cose ebbe dagli antichi vari nomi: Saturno, Sole, Pan, Giove. Adottiamo quest’ultimo: Giove possiede la pienezza delle forze cosmiche: tutti gli dei e le dee non sono che diverse manifestazioni dell’onnipotenza di un solo nume» [32] . Ed ancora sul mito varroniano di Serapide: «Dall’egizio Saturno nacquero Osiride e Iside, noti anche sotto i nomi di Giove e Giunone, di Luna e Sole, di Bacco e di Cerere; da costoro nacque il secondo Osiride, detto anche Serapide, ed Oro. Questi accrebbe il suo regno, dedicò templi dorati ai genitori e li annoverò fra gli immortali; egli scoprì la musica e l’insegnò alle nove vergini Muse. Guidate da Apollo. Taluni dicono che Iside venne in Egitto dall’Etiopia, insegnò le lettere e le leggi; più tardi, nel regno di Faraone, Api, re degli Argivi, approdò anch’egli a quella terra; dopo la morte gli fu eretto un magnifico sepolcro, dal cui nome egli trasse quello di Serapide: ET appellant illam sororem Apis. Serapis enim quasi soror Apis» [33] .

Anche il Pontano, nell’Urania e nel De rebus coelestibus, sulle orme di Arato e Ovidio, aveva tentato l’investigazione della natura e dei fenomeni astrologici mediante il continuo ricorso alla mitologia classica, anche se quella del poeta, si rivelò una semplice descrizione dei fenomeni naturalistico-astrologici [34] , priva di qualsiasi intento speculativo e lontana da ogni forma d’indagine scientifica volta a riproporre i principi cardini di quella tradizione filosofica presocratica che il Leto, nei suoi studi sull’origine dell’anima, sul moto e sul senso dell’armonia della stessa, pose, invece, alla base del suo interesse scientifico.

È chiaro il sincretismo che Pomponio Leto spiegava ai suoi allievi, una filosofia che ben rispecchiava quella della decorazione del soffitto, se il mito di Iside e Osiride non era altro che la rappresentazione dell’immortalità dell’anima.

Il mito celava molteplici significati, come l'esaltazione del ritmo naturale delle stagioni governate dal binomio Sole (Osiride) e Luna (Iside). Il nome del Papa rimandava dopotutto ad Alessandro Magno, che aveva aspirato a identificarsi proprio col Sole-Osiride, inoltre il tema della morte e Resurrezione accomuna Osiride con Cristo facendone il mezzo di un'allegoria cristiana.

Il ciclo va inoltre visto all’interno di un più complesso sistema decorativo caratterizzato da un lato da insoliti sincretismi religiosi di pretta matrice umanistica, dall’altro all’esaltazione del Papa, inteso come figlio del Sole, e della famiglia Borgia.

La chiave di lettura delle decorazioni della volta della sala dei Santi, che presentano sincreticamente riferimenti alle storie di Iside e Osiride, a personaggi della mitologia classica, a personaggi biblici, è suggerita dai rilievi dell' arcone della finestra. In essi compaiono i medaglioni con i ritratti di Alessandro Magno , anch'egli fatto oggetto di un'apoteosi, o divinizzazione orientale, in rapporto alla divinità astrale del Sole, e di Diana, che nella su triplice natura è anche la Luna, nonché la figlia di Iside.

Su questi due principi formativi, luna e sole, si strutturano temi e pittura: fertilità e rigenerazione stagionale sono legati alla prima, dimensione ultraterrena, divinità al secondo.

La narrazione del mito di Iside e Osiride ha inizio dagli ottagoni del sottarco con la storia di Io, secondo il racconto ovidiano: dopo essere stata infatti trasformata in giovenca essa divenne Iside regina e dea degli Egizi, lasciando loro leggi e scrittura. Per questo motivo compare nell'ultimo ottagono seduta fra Mercurio, l'uccisore di Argo, ma anche, secondo Cicerone, Ermete Trismegisto, che portò anche lui agli egiziani leggi e lettere, e Mosè il legislatore del popolo ebraico. In tal modo si sottolineava il legame tra sapienza egizia e tradizione cristiana. Nelle vele il ciclo si apre con il matrimonio tra Iside e Osiride, cioè tra il sole e la luna e culmina con il Sacrificio di Osiride e la sua divinizzazione, trasformato nel bue Api. Il nesso di tali storie con il mistero dell'Incarnazione di Cristo e delle sua Resurrezione, proseguita dalla vita eterna, sotteso a tutta la decorazione dell'appartamento, trova un probabile riscontro con i dictata pomponiani, in cui, Api, reincarnando Osiride, ovvero il Sole, vive eternamente.

Non bisogna dimenticare la presenza, costante, dei richiami all’antichità classica: l’arco di trionfo nella Disputa di Santa Caterina, la piramide Cestia nelle storie di Iside e Osiride, e il Colosseo, che fa da sfondo al martirio di San Sebastiano.

Il continuo dibattersi, insomma, tra la sintesi teologico-speculativa scolastica, da una parte, e i primi tentativi di ricerca di un’autonomia razionalistica del sapere dell’altra, fece sì che l’umanista si ponesse a metà strada tra una religiosità ancora intrisa di teorie e idee proprie del pensiero tardo medioevale e quel complesso di nuovi principî filosofici che nel naturalismo scientifico, in modo particolare, ritrovarono il loro elemento centrale. Se è pur vero, inoltre, che il grande accostamento al pensiero dei primi filosofi pagani rappresentò la causa prioritaria del duro scontro con la Chiesa, ciò, tuttavia, non impedì al Leto nel suo arduo tentativo, riscoprendo e rivalutando completamente le teorie fondamentali dei presocratici e lasciando ai posteri un lavoro filologico, che, per una serie di eventi storici ancora poco chiari, venne condannato all’oblio.

Intraprendendo il cammino storico, socio-politico e religioso della fine del Quattrocento, ho cercato di tessere una trama convincente, esaustiva e disposta ad offrire una traccia di analisi possibile agli studiosi che vogliono avvicinarsi alla ricerca, attraverso lo svisceramento e il successivo intreccio della vita e del pensiero e dell’opera di tre grandi personaggi: Pinturicchio, Alessandro VI e Pomponio Leto.

Già Maurizio Calvesi, nel suo libro La pugna d’amore in sogno di Francesco Colonna Romano, ha fermamente sostenuto un sicuro legame tra i tre grandi personaggi, ribadito ancora da Stefano Colonna, in Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento.

Ai fini dell’indagine, è risultata di rilevante importanza il ritrovamento del manoscritto Vat. Lat. 3415,  del 1484, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana e la lettura della monografia a riguardo, curata da Maria Accame Lanzillotta, in <<Dictata>> nella scuola di Pomponio Leto, in Studi medievali, 1993; in Le annotazioni di Pomponio Leto ai libri VIII-X del De lingua latina di Varrone, in Giornale italiano di filologia, 1998; in Pomponio Leto: vita e insegnamento, in appendice II, lettere di Marcantonio Sabellico a Marcantonio Morosini, a cura di Emy Dell'Oro, Tored, Tivoli 2008.

Pomponio Leto, riveste un ruolo fondamentale in questa fioritura della cultura egiziaca e nel ponderoso studio esegetico su Varrone, si evidenzia l’aspetto cosmico degli dèi egizi e dei suoi misteri.

Durante il pontificato di Alessandro VI, i Borgia furono in stretto contatto con l’Accademia Pomponiana – da essa provenivano alcuni maestri di Cesare e Lucrezia – e quindi non stupisce la condivisione dei simbolismi orientaleggianti proposti dal Leto, perciò concludo supponendo che il Papa Borgia, abbia conosciuto a fondo il pensiero dell’umanista per far sì che la Sala dei Santi diventasse uno “spazio attuale” in cui culto cristiano e culto pagano si fondessero per dar luogo al sistema intellettuale e culturale che aveva imperversato il Quattrocento e influenzato inevitabilmente gli anni a venire, e che, il ciclo decorativo, non è da considerare inopinato, ma semplicemente una celebrazione della Sapienza dell’Umanesimo, con le sue allegorie, le sue dottrine filosofiche e soprattutto la sua passione per l’antichità classica e magari, attraverso tale rappresentazione, trovare un punto di conciliazione tra il Cristianesimo e la corrente letteraria che aveva rivoluzionato i lumi del Quattrocento.

 

NOTE

[1] CIERI-VIA, CIERI VIA, a cura di, Aspetti della tradizione classica nella cultura artistica fra Umanesimo e Rinascimento, corso di lezioni di storia dell'arte moderna I tenuto da Claudia Cieri Via, anno accademico 1985 -1986 / a cura di Anna Cavallaro. Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Facoltà di Lettere e Filosofie, I. Cattedra di Storia dell'Arte Moderne, Anno accademico 1985 - 86. – Roma : Il Bagatto, 1986, p.89.

[2] VAN DE PUT, The Double crown of Aragon, Londra 1910.

[3] GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia, Stoccarda 1911, p.48.

[4] GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, Libro XIII, cap. V.

[5] «quae bos ex nomine est, ex bove facta dea», Fasti, V, 620.

[6] L’iscrizione sul trono di Osiride è tratta da TIBULLO, I, VII, 32,  1912, p. 231.

[7] SAXL, Storia delle immagini, Laterza 1990, p.97.

[8] CALVESI, Il mito dell'Egitto nel Rinascimento, Art dossier, Giunti editore, 1988, p. 31.

[9] SAXL,  op. cit., p. 98.

[10] SAXL,  op. cit., p.101.

[11] CALVESI, 1988, op. cit., p. 35; CIERI-VIA, op. cit., p.85.

[12] CALVESI, 1988, op. cit., p. 38.

[13] «Sum Osiris, qui docuit Italicos arare, serere, putare, vinitare, vindemiare, et vinum conficere».

[14] CALVESI, 1988, op. cit., p. 39.

[15] Nel messale “egizio” di Pompeo Colonna, Iside è di color nero.

[16] CALVESI, 1988, op. cit. , p. 39.

[17] La cattedra di eloquenza gli fu conferita da Paolo II intorno al 1465 ; Vat. Lat. 2934, 307 r., in ZABUGHIN, op., cit., p, 25.

[18] ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto, saggio critico, libro I, La vita letteraria, Roma 1909, p. 147.

[19] CORTESIUS “de Card.” CIIIV, in ZABUGHIN, op. cit., p. 249.

[20] PINCELLI MARIA AGATA, (a cura di), In corruptores latinitatis, edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2000, p.41.

[21] PERRONI, Saggio sulla religiosità di Virgilio, Firenze 1927.

[22] POMPONII LAETI, in in Varronem Dictata, 1484, dal Vat. Lat. 3415, 22r.

[23] Ibidem.

[24] Lorenzo Bonincontri era nato a San Miniato, in Toscana nel 1410. della stessa epoca del Leto, fu soldato di ventura, filosofo e astrologo e, dopo alcuni anni trascorsi a Napoli, fra il 1475 e il 1478 commentò, presso lo Studio fiorentino l’Astronomicon di Manilio, curandone un’edizione che uscì nel 1484. Sotto il pontificato di papa Sisto IV, sulla scia del pensiero ficiniano, compose opere di grande valore filosofico e scientifico. Mori a Roma nel 1491.

[25] «Ricchissima è la messe di notizie, tolte a Cicerone, soprattutto al De natura Deorum, ove, come già nelle spigolature varroniane, viene rilevato con la massima cura il simbolismo mitologico degli stoici così caro al Leto», in ZABUGHIN, op. cit., p. 119.

[26] POMPONII LAETI, in in Varronem Dictata, 1484, dal Vat. Lat. 3415.

[27] POMPONII LAETI, in in Varronem Dictata, 1484, dal Vat. Lat. 3415.

[28] SANT’ANASTASIO, Vita di Antonio. Detti, lettere, Paoline Edizioni, 1995, p. 316.

[29] SCHAPIRO MEYER, Per una semiotica del linguaggio visivo, Mentelmi editore srl, Roma 2002, p. 121.

[30] VARRONE, De lingua latina, V, frr. 57-58-59-60-61.

[31] «Principes dei Caelum et Terra. Hi dei idem qui Aegypti Serapis et Isis, etsi Arpocrates digito significat, ut taceam. Idem principes in Latio Saturnus et Ops. Terra enim Caelum, ut Samothracum initia docent, sunt dei magni, et hi quos dixi multis nominibus, non quas Samothracia ante portas statuit duas virilis species aeneas dei magni […] Haec duo Caelum et Terra, quod anima et corpus. Humidum et frigidum terra, […] qui calor e caelo, quod huic innumerabile set immortales igne […]. Quibus iuncti Caelum et Terra omnia ex genuerunt, quod per his natura “frigori miscet calorem atque humori aritudinem” […]. Inde omne corpus, ubi nimius ardor aut humor, aut interit aut, si manet, sterile. Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardete t spica aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius ver expectat. Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua», in VARRONE, De lingua latina, V, frr. 57-58-59-60-61.

[32] Ibidem.

[33] Ibidem.

[34] TOFFANIN, G. Pontano. Fra l’uomo e la natura, Bologna 1938.







 

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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