Nel 1420, quando la sede papale
da Avignone venne trasferita nuovamente a Roma, per opera di papa Martino V, la
città versava in una situazione non facile dal punto di vista
socio-politico-economico e il popolo si trovava in una condizione di degrado e
arretratezza.
Si avvertì un forte bisogno di
ripristinare i modelli culturali dell’antichità classica concludendo, così,
l’era medievale e compiendo la grande trasformazione dell’Europa, cui si dà il
nome di Rinascimento. Ma considerare questa fresca corrente solo come una
rinascita dell’antico è una veduta non molto lungimirante, perché essa fu
l’integrale riforma della civiltà umana in Occidente.
Con la reintegrazione dei modelli
classici, rinvennero di conseguenza tutti miti e le culture pagane di cui gli stessi
riferimenti antichi erano pienamente intrisi, perciò, il Cristianesimo si trovò
di fronte ad una vasta schiera di letterati che scardinavano i dogmi delle fede
e mettevano in discussione le teorie filosofiche sulle origini del mondo,
sull’immortalità dell’anima e sulla natura che governa tutte le cose.
Al ciclone umanista partecipò
vivamente Giulio Pomponio Leto, il quale dopo la fondazione dell’Accademia
Romana cui prese parte il maggior numero dei letterati e filosofi del
Quattrocento, venne processato con l’accusa di aver mosso pesanti critiche nei
confronti della Chiesa.
La cultura umanistica, vera
rivoluzione del pensiero e dell’opinione, recava in sé elementi riformatori,
disprezzando i dogmi, distruggendo la fede nelle autorità, dissolvendo con la
sua critica le tradizioni e le invenzioni clericali del Medioevo. L’Umanesimo
volgeva le spalle all’ideale cristiano, cui opponeva il culto dell’uomo, con le
sue capacità e le sue risorse; era la prima affermazione aperta del libero
pensiero, emancipatosi dalla Chiesa, la prima aperta frattura nell’unità del
principio spirituale e della concezione cristiana del mondo.
Gli umanisti, d’altro canto, dopo
i numerosi ostacoli posti dalle autorità cristiane, accettarono una
condivisione del Cristianesimo a patto che essa assumesse le particolari
caratteristiche di quell’antichità classica in cui gli accademici romani
andavano rifugiandosi, con lo scopo di confutare e ripristinare, monumenti,
leggi e consuetudini propri dell’antica città di Roma.
Intanto la Chiesa affermava il
suo potere temporale sulla città promuovendo il rinnovamento degli edifici
pericolanti e ormai obsoleti all’interno dei quali si svolgeva la vita politica
economica e culturale e alcuni fra i più importanti umanisti ed artisti del
tempo, trasferitisi a Roma, avevano partecipato attivamente al programma di
ricostruzione promosso dai pontefici e dai loro cardinali.
Risulta
chiara quindi la benevolenza da parte di Sisto IV e Alessandro VI, che si
susseguirono nell’agevolare l’attività culturale degli accademici e nel
favorire il rinnovamento sociale e politico di Roma.
A Bernardino
di Betto venne commissionata da parte di papa Alessandro Borgia la decorazione
del suo Appartamento nel Palazzo Vaticano, e oggetto di interesse e studio, è
sicuramente la decorazione della Sala dei Santi, per i suoi contenuti iconografici
di matrice pagana, in cui il mito di Iside e Osiride si mescola alla
rappresentazione di alcuni Santi probabilmente cari al Papa stesso e all’
esaltazione dell’emblema borgiano.
Il nome di
questa sala è legato alle immagini dipinte nelle lunette, sebbene in verità
solo quattro di esse includano scene della vita dei Santi. Sono raffigurati
Santa Elisabetta, madre di Giovanni, ritratta nella scena delle Visitazione,
Susanna e i vecchioni – che raffigurano scene del Nuovo e del Vecchio
Testamento - Sant’Antonio e San Paolo , i due eremiti del deserto egiziano;
Santa Caterina d’Alessandria, Santa Barbara; San Sebastiano.
Le immagini
delle lunette presentano problemi iconografici legati alla scelta inusuale dei
soggetti e alla loro sequenza e anche per Saxl, la serie risultò insolita:
Susanna si trovava molto raramente nelle rappresentazioni artistiche e nessun
giorno degli altri Santi corrispondeva a qualche particolare data della vita
del papa.
La Cieri-Via
nota una descrizione da parte di Saxl, poco convincente riguardo il significato
dei Santi [1] .
La soluzione
ipotetica di Saxl, è che forse i Santi rappresentano le sette Virtù: la
Visitazione potrebbe rappresentare la Speranza , Sant’Antonio che sconfigge i
demoni la Fede, San Paolo che divide il pane la Carità, Santa Caterina che
sconfigge i filosofi la Prudenza, Santa Barbara e la sua torre la Fortezza,
Susanna assolta dalle false accuse la Giustizia, mentre san Sebastiano dovrebbe
rappresentare la Temperanza.
Se la
soluzione esatta è in questa direzione, il programma generale dell’Appartamento
Borgia rientrerebbe quasi completamente nella tradizione enciclopedica
medievale.
Eppure non
esiste nessun’altra opera in cui il paganesimo e l’orgoglio individuale abbiano
potuto manifestarsi con palese nettezza come nell’Appartamento Borgia, a
partire dalla constante, quasi “nauseante” presenza degli emblemi di Alessandro
VI.
I Borgia
erano una famiglia in cui attraverso un legame matrimoniale scorreva il sangue
dei re d’Aragona, per cui Alessandro adottò un emblema trecentesco della sua
famiglia, con le due corone d’Aragona, una rivolta verso l’alto e un’altra
rivolta verso il basso [2] .
Questa doppia
corona è abbastanza strana come emblema di un pontefice, incoronato con la
triplice corona di San Pietro. Ma Alessandro VI aggiunse all’emblema aragonese
un tratto nuovo: dei raggi emanano verso
il basso dalla corona inferiore, quasi a voler dire che il papa fosse figlio
del sole. Questo appunto è ribadito in un’altra immagine: il soffitto della
sala delle Sibille è decorato con le immagini di sette pianeti.
Le Sibille
avevano predetto l’ascesa e il declino di re e imperatori e prevista la venuta
di Cristo: in maniera diversa, ma analoga, gli astri preannunciano ai dotti e a
saggi il corso degli eventi futuri. I sette dipinti mostrano le divinità
planetarie e, sotto, gli esseri nati sotto il loro segno; sotto il carro del
sole è raffigurato il papa che impartisce la sua benedizione al mondo.
C’è un altro
elemento degno di nota: il carro di Venere era tradizionalmente trainato dalle
sue colombe; quel carro è tirato da tori che portano strane decorazioni in
testa. Il toro, è presente ovunque nelle decorazioni dei soffitti e compare
centinaia di volte. Amici e nemici chiamavano il papa, dai primi giorni del suo
pontificato, fino alla sua morte “il bue”.
Un distico
recita: «Vive diu bos, vive diu celebrande per annos inter pontificum gloria
prima choros» [3] .
Così anche i
nemici erano solito chiamarlo; Pasquino in un poemetto ammonitorio gli si
rivolge: «bue che sei!» [4] quindi tutti consideravano
il bue come il simbolo dei Borgia e perciò era inevitabile che i soffitti del
palazzo si decorassero con la storie e la mitologia del bue.
La sede
destinata a questa decorazione fu il soffitto della Sala dei Santi.
Pinturicchio offrì magistralmente la descrizione della storia introducendo
lentamente lo spettatore verso il centro del tema.
Un arco
divide il soffitto in due parti all’interno del quale sono inseriti degli
ottagoni. Proprio in questi ottagoni e nelle vele del soffitto è narrata la
vita della principessa greca Io, che, secondo Ovidio [5],
da essere umano fu trasformata in vacca, e da vacca a dea.
Le scene sono
ben note: Giove è attratto dalla bellezza della figlia di Inaco, ma Giunone
scopre ben presto l’infedeltà del consorte, il quale non trova di meglio che
trasformare Io in una vacca. Giunone chiede in regalo la vacca; Giove pensa di
non poter rifiutare questo regalo alla sua sposa, la quale affida la vacca alla
guardia di Argo. Giove manda Mercurio a uccidere Argo, al che Giunone invia a
sua volte le Furie a tormentare Io. Alla fine costei arriva in Egitto, dove,
ritrovate le sembianze umane, viene fatta regina col nome di Iside. Questa
Io-Iside insegnò agli Egizi l’uso dei geroglifici, proprio come Mosè inventò la
scrittura ebraica
Il ciclo
muove dal centro verso destra per poi continuare a sinistra. Nell’ottagono
centrale è raffigurato Giove che insegue la giovane Io, sulla destra Giunone
gelosa che la trasforma in una vacca, nella scena che segue, è raffigurato
Mercurio inviato da giove che addormenta Argo posto a guardia di Io da Giunone.
La narrazione segue a destra dell’ottagono centrale con la scena di Mercurio
che uccide Argo.
La storia di
Ovidio finisce con la fuga di Io sui lidi egizi, una scena non rappresentata
dal Pinturicchio nel quinto ottagono dove il pittore invece raffigurò
l’immagine di Io, che ritrovate le sembianze umane in Egitto, siede in trono
tra Mosè ed Ermete Trismegisto.
Questa scena
ha funzione di trait-d’union tra la
storia mitologica ovidiana di Io e la leggenda egiziana di Iside, narrata da
Apuleio e Diodoro Siculo, che si sviluppa nelle quattro vele del soffitto verso
la finestra e continua in quelle nella seconda metà della stanza.
Vediamo
dapprima la bellissima Io-Iside sposata ad Osiride e da questo momento Osiride
diviene la figura principale della rappresentazione e tutte le scene che
precedono non sono altro che un preludio il quale spiega come la storia del
genere umano fosse iniziata in Grecia e proseguita in Egitto.
Osiride è il
grande benefattore del genere umano. Salito al trono, egli aveva insegnato al
suo popolo l’uso dell’aratro, ed era considerato una divinità. Aveva insegnato
anche a coltivare la vite e a raccogliere il frutto [6] .
Osiride qui è ritratto come il pacifico sovrano degli albori dell’umanità.
Le immagini
sull’altra volta illustrano il tragico seguito di questa storia. Osiride è
ucciso dal suo cattivo fratello Tifone e il suo corpo fatto a pezzi dagli
assassini che ne disperdono le varie parti per tutto l’Egitto. Iside,
peregrinando da un luogo all’altro, riesce a trovare tutte le parti del corpo
del marito, sulla cui tomba fa erigere una piramide.
Nel quadro
successivo si vede ancora la tomba, accanto alla quale compare un toro con
tutti i paramenti: si tratta di Api, l’immagine vivente del dio scomparso.
Con la
comparsa del toro Api si giunge al punto essenziale della storia.
In Egitto,
all’inizio della civiltà umana, il divino re e maestro, dopo essere stato
ucciso, riapparve sotto le sembianze d’un animale che gli Egiziani veneravano
come un dio. Api veniva tenuto in un tempio e gli si forniva ogni tipo di cibo;
quando invecchiava si metteva nella stalla un nuovo Api, e così Osiride
continuava a vivere attraverso generazioni di tori. La religione del toro
eterno sostituisce la figura umana di Osiride.
Il culto
dell’animale vivo confina nel mondo sotterraneo il dio umano, la cui esistenza
sulla terra continua sotto le spoglie del suo animale [7] .
L’ultima
scena ci porta alla conclusione della storia: i sacerdoti sollevano il toro
poggiato su un dado ed è protetto da un’edicola con due bastoni, portati a
spalla da due devoti, per mostrarlo ai fedeli prima di dare inizio ai riti
sacri, mentre in testa alla processione un bambino suona un corno che reca il
simbolo del papa Borgia, la doppia corona.
Un corteo
liturgico molto simile è raffigurato nel mosaico di Palestrina, anche se i vari
elementi sono mostrati diversamente [8] , ma ricorrono le figure dei
fedeli con i bastoni processionali sulle spalle, l’edicola, i musicanti,
l’animale sacro (un cane) poggiato su un dado.
Questo
tentativo di legare genealogicamente la storia della famiglia Borgia a quelle
delle divinità pagane non è di per sé sacrilego. Alessandro VI, in una serie di
rilievi nel fregio sottostante le figure dei santi, chiarì che il contenuto
doveva essere interpretato in maniera strettamente cristiana.
Nella
raffigurazione dei Santi, al di sotto di Santa Caterina i tori sono in venerazione di un’immagine della Vergine; sotto
l’affresco di Sant’Antonio gli animali s’inginocchiano davanti alla Croce;
sotto Santa Susanna appaiono inginocchiati davanti al papa.
Tutti questi
tori, che sono rappresentati con l’addobbo sacrificale, chiariscono che qui il
toro non va inteso come il bue Borgia, ma come il bue Api, perciò simbolo del
paganesimo che si piega ad adorare la Croce e il vicario di Cristo assiso sul
trono di San Pietro [9] .
Quindi per
Saxl, il toro Api di Alessandro VI è un animale cristianizzato; tuttavia con la
rinascita del toro Api, rinascevano alcuni elementi pagani primitivi.
Il punto
principale, perciò, di questa analisi, non è tanto il fatto che Alessandro VI
aveva fatto decorare il suo appartamento con una mescolanza di soggetti pagani
e cristiani, quanto di aver scelto dal patrimonio classico il simbolo del toro
associandolo alla genealogia della sua famiglia, che egli cercava costantemente
di rendere sempre più potente e di aver collegato il toro pagano e l’animale
del suo stemma con un procedimento che fa ricorso alle idee religiose dei clan
primitivi.
Il problema
che rimane costante è quello di conoscere l’ispiratore iconografico e
iconologico del programma decorativo del soffitto; introducendo un rapporto
diretto fra le scene di Api e le immagini dei Santi, si andò oltre l’intreccio
dei simboli pagani e cristiani ammesso certamente nel Quattrocento.
Sotto la
scena che rappresenta l’uccisione di Osiride è raffigurata la Disputa di Santa
Caterina che si svolse ad Alessandria d’Egitto. L’imperatore pagano che ascolta
attentamente i ragionamenti della Santa e che rimane tanto impressionato da
volerla come sua sposa, siede su un trono decorato con una testa di toro.
L’imperatore, in questo modo, è rappresentato come il successore di Osiride-Api
sul trono d’Egitto. Il toro appare una seconda volta nel quadro, sopra l’Arco
trionfale con il motto «PACIS CULTORI».
Nonostante il
rilievo che ha nel quadro, quest’arco di trionfo è un’aggiunta che non ha molto
a che fare con la leggenda di Santa Caterina; forse lo si può considerare un
elemento di sfondo per indicare l’Alessandria romana in cui ebbe luogo il
dibattito.
Ma l’arco
trionfale evidentemente ha anche un’altra ragione d’essere.
Alla sua
incoronazione il papa era stato acclamato «PACIS PATER»; non ci può essere
dubbio di chi sia il trionfo che l’arco è destinato a celebrare: il toro e il
motto lo confermano [10] .
A questo
punto è necessario analizzare e possibilmente chiarire quale intreccio intercorre
tra il mito dell’Egitto, la cultura classica pagana e la cultura cristiana.
Bernardino di
Betto ha dimostrato, negli affreschi del soffitto della Sala dei Santi, di quanto
l’ambiente apostolico fosse intriso dell’interesse nei confronti dei soggetti
scelti da Alessandro VI. Come già detto nella scena finale del ciclo dei
soffitti, il sacro bue è portato trionfalmente in processione entro un’edicola
sormontata dalla figura di Ercole: è Ercole Libico, figlio di Iside e Osiride.
Di lui ci
parla diffusamente Annio da Viterbo nella sua Viterbiae Historiae Epitoma (1491 circa) narrando una leggenda
intenta a collegare a Ercole Libico e di conseguenza a Iside e Osiride,
fondatori della civiltà, le origini degli Etruschi e degli Italici.
Annio da
Viterbo, era maestro di palazzo di Alessandro VI, e fu quasi certamente fra i
suggeritori del ciclo degli affreschi, come è stato da tempo confermato dalla
critica.
Per altro,
nelle sue Antiquitates e nella sua Epitoma, Annio tratta di Iside, di Osiride
e del bue Api con parole che trovano spesso riscontro nelle scritte
didascaliche che Pinturicchio incorporò agli affreschi della Sala dei Santi per
illustrare i soggetti rappresentati. [11]
Ma un altro
suggeritore delle iconografie egizie dell’appartamento, probabilmente potè
essere lo stesso Francesco Colonna, signore di Palestrina e protonotario
apostolico, autore dell’Hypnerotomachia
Poliphili.
Ai Colonna si
attribuiva la stessa discendenza mitica da Ercole Libico, l’Ercole egizio, che nobilitava
Alessandro VI e i Farnese.
Testi
seicenteschi tramandavano il leggendario racconto dell’eroe «Hercole Libico,
over Egitio» che venuto in Italia si fermò a Palestrina «portando per impresa
la Colonna» (con riferimento alle Colonne d’Ercole) generando così i primi
Colonna. E in omaggio al mito di questa discendenza che, evidentemente,
Francesco Colonna arricchì il suo romanzo del 1499 di riferimenti egiziaci.
Riferimenti che trovano una puntuale e singolare riscontro con gli affreschi
della Sala dei Santi e con le teorie di Annio da Viterbo.
Sono noti gli
«hieraglyphi aegypti» che il Colonna inventò nel Sogno del Polifilo, e se si
escludono i veri e propri geroglifici riprodotti nell’obelisco che sormonta un
elefante, tutti gli altri pubblicati nel romanzo, sono composti di figure
tratte dai fregi romani o ad essi ispirati. Del resto le colonie italiche,
secondo Annio da Viterbo, come già detto, furono fondate da Ercole Libico.
Il più noto
dei geroglifici prodotto dal Colonna è quello scolpito alla base dell’elefante.
Si compone di tre bande di segni, la prima delle quali è chiaramente derivata
da un fregio dell’Arco degli Argentari, con qualche modifica.
La
spiegazione è :« Ex labore deo naturae sacrifica liberaliter. Paulatim reduces
animum dei subiectun. Firmam custodiam vitae tuae misericorditer gubernando
tenebit incolumenque servabit». Ovvero: con il lavoro (dei campi) sacrifica
generosamente al dio della natura. A poco a poco ridurrai il tuo animo soggetto
al dio. Egli governando misericordiosamente custodirà la tua vita e la
conserverà incolume. E Iside era proprio la dea della natura e del lavoro
agricolo, che nel geroglifico è rappresentata con la testa di un bue sorretta
da due zappe; il bue, inoltre, richiama Api-Osiride.
Per Francesco
Colonna che cita tutte queste divinità nel suo romanzo, Iside e Osiride formano
una sola unità con Serapide, associato nel culto a Osiride e al bue Api.
Il dio della
natura cui sacrificare, è secondo il geroglifico letto da Polifilo
Osiride-Iside, perciò Serapide.
Ma un’altra
indicazione ci viene dal versante di Annio e dal Marmo Osiriano del museo di Viterbo,
celebre e divertente che l’umanista truccò, inserendo una lunetta forse creduta
antica, in realtà del XII-XIII secolo, in un riquadro marmoreo eseguito
probabilmente per l’occasione, con due teste a rilievo, l’una maschile della di
Osiride e l’altra femminile della di Iside. Annio sostenne che il tutto era un
geroglifico egiziano e interpretò a suo modo anche la lunetta, dove è scolpito
un albero sormontato da un nido di uccelli.
L’episodio è
quasi incredibile per l’astrusità della lettura non meno che per la sfacciata
natura del falso, inteso a “provare” la presenza di Osiride a Viterbo. Ma ciò
riporta al clima di quell’archeologia fantastica, di cui proprio l’Hypnerotomachia è l’espressione più
rigogliosa [12] .
Nei rami
intrecciati intorno al nido, Annio lesse dunque la forma di un occhio e,
basandosi su un passo di Macrobio, considerò l’occhio come geroglifico di
Osiride. Nei due volatili che si trovano alla base dell’albero, visti come
sparvieri, lesse poi il simbolo di Ercole e, ancora, di Osiride, che come
sparvieri mossero i loro eserciti contro i Giganti.
Annio vedeva
poi nella lunetta una serie di simboli, che permetteva di decifrare il seguente
messaggio: «sono Osiride, che insegnò agli Italici l’arte di arare, seminare,
potare, coltivare le vigne, vendemmiare e fare il vino» [13] ;
«Docuit egiptiacos arare», si legge di Osiride in uno degli affreschi di
Pinturicchio.
Anche il
Colonna doveva ben conoscere l’interpretazione di Annio, secondo cui, dunque,
l’occhio e il rapace sono segni di Osiride, come pure quella dell’Alberti, che
considerava l’occhio un segno di dio e l’avvoltoio un segno della natura. [14] .
La frase «deo
naturae sacrifica» è resa nel suo geroglifico “egizio” con un’ara sacrificale
che contiene proprio le figure di un occhio e un avvoltoio. Il sottinteso che
il dio della natura è Osiride (Osiride,Iside, ovvero Serapide) risultava
avvallata dalle indicazioni di Annio, ben note all’ambiente degli umanisti
romani. E rafforzato dalla vicinanza della testa di bue, che richiamava Api:
nonché, dall’altro lato, della patera, che nel geroglifico corrisponde alla
parola “liberaliter” (riccamente, generosamente).
Infatti, più
avanti il Colonna ricorda la patera aurea che i sacerdoti di Menfi immergevano
nel Nilo per officiare Api.
Nella pancia
dell’elefante, infine Polifilo incontra le due figure nere di un re e una
regina, eretti su due arche sepolcrali: sono evidentemente Osiride e Iside,
neri perché africani [15] .
Come un re e
una regina anche il Pinturicchio aveva raffigurato Osiride e Iside, legando la
figura del primo a immagine del lavoro agricolo. In tutta la decorazione
dell’Appartamento Borgia ricorre poi frequentemente il bucranio come simbolo di
Api e il sacro animale fa la sua apparizione in due affreschi della Sala dei
Santi: il parallelismo con la rappresentazione del Colonna è evidente [16] .
La stessa
immagine dell’elefante con l’obelisco, allegoria della Sapienza, richiama anche
nelle sue preziose bardature il bue Api di Pinturicchio che incrocia il proprio
sepolcro a forma di “meta”, forma che veniva assimilata a quella dell’obelisco.
E l’ara sacrificale che nell’affresco è collocata accanto ad Api, con la fiamma
ardente, è la stessa che nel geroglifico del Colonna è accostata alla testa di
bue.
Ma c’è anche
una rispondenza più intrinseca allo stesso stile pittorico del Pinturicchio.
L’elefante
viene descritto come «scintillato d’oro» mentre la gualdrappa è «di molti
sigilli ET culle ET historiette ET fictione probatamente ornata». Ugualmente
sono le “historiette” del Pinturicchio, con gli ornati a rilievo di “culle” e
“sigilli”. Lo scintillio del corpo dell’elefante, richiama i puntini d’oro che
l’artista inserì nei suoi affreschi, anche intorno alla figura del bue Api.
Insomma, uno sfarzo di ori che ben corrisponde al gusto, anche delle
architetture dipinte da Bernardino di Betto, come è eloquente, anche il
confronto con stoffe e vesti come quella del papa Borgia, nel ritratto eseguito
nel suo appartamento.
Tutto nuovo
fu l’influsso esercitato dal pittore perugino nel cruciale formarsi di uno
stile particolarissimo per la decorazione delle pareti dipinte in cui la chiave
della novità fu la capacità di formulare un linguaggio del tutto innovativo,
rielaborato dai prototipi della pittura di epoca classica.
Nella feconda
stagione romana, a contatto con un panorama culturale di amplissimo respiro,
stimolato dalle nuove scoperte archeologiche, a contatto con le potenti
personalità intellettuali ed artistiche del Quattrocento romano, nella cerchia
dei grandi che affrescavano la Cappella Sistina, Pinturicchio elaborò dunque un
linguaggio non ancora conosciuto, anticipando le volte di Raffaello e Peruzzi.
Dall’opera
dell’artista veniva contestualmente tratteggiato il quadro complesso della
cultura romana della fine del XV secolo dal quale traspariva il tessuto di una
società attraversata dal grande fenomeno umanistico propugnato dagli
intellettuali, ma fortemente controllata dalla Curia romana.
Inoltre gli
affreschi del Pinturicchio evidenziavano la precoce ispirazione del repertorio
figurativo degli intonaci parietali della riscoperta della Domus Aurea.
Il punto di
partenza che mi ha spinta ad approfondire lo studio sull’argomento, è stato
un’affermazione di due studiosi, Lovito e Cloulas, i quali condividono la tesi
che Pomponio Leto abbia scritto un commento sul soffitto della Sala dei Santi e
che la rappresentazione del mito di Iside e di Osiride non è altro che la
rappresentazione dell’immortalità dell’anima.
È proprio
questo ciclo decorativo a destare l’attenzione, dimostrando come esso debba
essere considerato un’opera fortemente innovativa, di valore quasi
rivoluzionario, in cui il pittore inserì tutte le novità del suo linguaggio
“all’antica”.
L’Appartamento
Borgia, segna l’apice dell’attività di Pinturicchio a Roma per la ricchezza
dell’apparato iconografico.
Analizzando a
fondo il periodo artistico e storico di Pinturicchio, dalla decorazione della
Cappella di San Girolamo nella chiesa di Santa Maria del Popolo, il Palazzo dei
Penitenzieri del Cardinale Della Rovere, la Cappella Bufalini nella chiesa di
Santa Maria in Aracoeli, al Casino del Belvedere e infine all’Appartamento
Borgia, conoscendo minuziosamente il pensiero umanistico di Pomponio Leto e
consultando testi antichi e manoscritti di notevole interesse conservati nella
Biblioteca Apostolica Vaticana, è stato vivo l’impegno per dare una risposta o
quantomeno una traccia di ricerca che possa essere di grande aiuto per
un’analisi approfondita del ciclo decorativo e di un commento che scagionasse
il suo contenuto fortemente pagano in un periodo in cui la Chiesa era
intenzionata a mostrare il suo potere spirituale e temporale.
Pomponio Leto
dedicò ventotto anni della sua vita all’insegnamento che egli esercitò alla
Sapienza [17] , circondato da una fitta
schiera di allievi.
L’umanista
ebbe un alto concetto della sua scuola; lo studio romano, angusto, alloggiato
alla meglio in casupole disuguali, dove gli uditori dovevano accalcarsi fin
dalla mezzanotte [18] .
«È così-
esclamava- che hanno ridotto l’Ateneo del Popolo Romano, anzi tutte le nazioni,
di tutte le genti, in questo teatro dell’Orbe» [19] .
Per lui
dunque, la missione dell’Antica Sapienza era molto alta e gli insegnanti di
essa dovevano essere degni di Roma e della sua grandezza.
L’insegnamento
universitario del Leto si divideva in tre periodi; il primo andò dal suo
ritorno alla cattedra verso il 1470 al viaggio in Oriente. I documenti che ci
rimangono di qualche decennio di attività scolastica, sono quasi tutti commenti
di testi poetici antichi, per lo più epici latini.
Dopo il
ritorno dalla Russia la sua attività assunse un nuovo aspetto. Egli divenne
filologo e glottologo, scrisse varie volte in prosa e perfino in versi la sua “Ars Grammatica”, che pubblicò nel 1484,
fece dei lunghi studi intorno al “De
lingua latina” di Varrone.
Nel 1484 vide
la luce l’edizione principe del Terenzio, pubblicato a Parma.
Dopo il 1480
quindi, i lavori di grammatica e glottologia presero decisamente il
sopravvento. L’archeologia che primeggiava in tutti i documenti del primo
decennio d’insegnamento a scapito del commento filologico e della stessa
spiegazione del testo, lasciò spazio ad altri interessi.
Più tardi,
scemato l’interesse che lo spingeva verso la filologia, il Leto ritornò agli
studi sull’archeologia, dedicandosi però alla critica delle fonti storiche,
della Repubblica e dell’Impero.
Un influsso
sul Leto ebbe certamente l’opera del Platina, ad imitazione del quale compose
un lavoro storico dalle grandi linee: i “Cesari”.
Naturalmente
i singoli periodi che sono stati distinti negli ultimi trent’anni di vita
intellettuale di Pomponio, non sono rigidamente divisi da limiti fissi, ma vengono
quasi ad intersecarsi l’uno con l’altro.
All’infuori
di questi gruppi di documenti, è da notare poi una particolare tendenza per le
scienze naturali, come dimostrano gli studi sparsi un po’ ovunque sulla “Historia Naturalis” di Plinio e
sull’opera geografica di Strabone.
Altra
tendenza tipica dell’ingegno di Pomponio Leto è l’interesse per i testi
giuridici; ebbe infatti, un’acuta conoscenza del diritto romano, attinta alle
fonti primigenie.
I documenti
dell’insegnamento universitario dell’umanista si dividono in due gruppi: quello
dei chirografi e quello dei dictata.
Il chirografo
è il libro che il professore teneva sott’occhio durante la lezione. Esso è un
testo classico, commentato in margine dal Maestro. Le glosse occupano talvolta
tutto lo spazio disponibile in alto, in basso della pagina ed ai lati del
testo.
Il dictatum è il complesso di note che uno,
o più studenti raccoglievano dalla bocca del maestro, nell’aula stessa della
Sapienza. Salvo qualche accenno il testo manca sempre, i dictata, perciò, non poterono servire ad uso personale di Pomponio,
anche se qualcuno di essi fu da lui riveduto e corretto.
I Dictata portano poi segni evidenti della
loro provenienza scolastica: ripetizioni continue, spiegazioni di parole
latine, riprese di cose già dette etc. etc.
Non tutti i
chirografi sono autografi. Lo sono indubbiamente quelli dell’ultimo periodo,
mentre gli altri sono quasi sempre annotati da vari allievi, ma portano delle
correzioni della mano di Pomponio Leto.
Gli studi varroniani
rappresentano il momento culminante di tutta l’opera scientifica di Pomponio.
Il chirografo è andato smarrito, ma ci restano i Dictata, dovuti alla scolaresca della Sapienza.
I corsi universitari su Varrone
si collocano finora fra il 1480 e il 1484-85; in particolare, il Vat.
Lat. 3415 (V), contenente il commento ai libri V-VII del De lingua Latina, reca il titolo e la data: “Pomponii viri clarissimi in Varronem dictata. 1484”.
Il manoscritto ripercorre l’opera
varroniana, in cui oltre allo studio filologico e grammaticale dell’opera,
vengono trattati numerosi argomenti di natura astrologica e filosofica, e
proprio attraverso lo sviluppo di tali ragionamenti, è stato possibile
ricostruire nelle grandi linee il pensiero di Pomponio Leto e la sua cultura
dualistica e presocratica, il suo sincretismo riguardo l’istituzione del culto
di Osiride, Iside e Serapide in Egitto e a Roma.
I dictata si presentano in minuscola corsiva e in latino, per cui
attraverso un lavoro paleografico si tenta di collegare alcuni passi del
manoscritto ad un’ interpretazione iconografica del soffitto della Sala dei
Santi.
Natura naturans: questo fu il latente processo relativo al divenire
universale ravvisato nell’opera virgiliana, un processo che il Leto,
soprattutto nei dictata in questione,
considerò particolarmente, in quanto studioso attento, nel suo evidente
tentativo di conciliare fides
cristiana e doctrina epicurea, dei
presocratici, oltre che cantore dell’infinità cosmica e del materialismo
panteistico:
«Eraclito dice il fuoco il
principio delle cose: non senza ragione, ché i “nostri” aspettano il sorgere
d’un tempo ove tutto sarà divorato dalle fiamme. […] Il mondo arderà, dopo
distrutta l’umidità non rimarrà più nulla, fuorchè il fuoco dal quale rinascerà
un nuovo cosmo»
ed ancora: «Talete scrisse che l’acqua fu madre di tutte le cose? Egli è
d’accordo con Omero e Virgilio […] La ragione di ciò ? Dalle acque nascono i
venti, da questi l’aria, dalla purità dell’atmosfera il fuoco detto talvolta
etere. Il sole, unito all’umidità, dicono, genera ogni cosa».
Considerando che nel periodo
umanistico era ancora viva tra i cristiani l’opinione secondo cui al diluvio
delle acque, testimoniato dallo stesso racconto biblico, sarebbe seguito quello
del fuoco, risulta evidente dai passi del Varrone un’erudizione letiana a metà
strada tra la formazione spirituale chiaramente cristiana e pienamente intrisa
di reminiscenze bibliche e una dottrina filosofica che nel naturalismo
scientifico, in modo particolare, sembra ritrovare il suo elemento centrale.
Il Bonincontri, contemporaneo di
Pomponio, prendendo anch’egli le mosse dai libri sacri e dal racconto biblico,
trattò della creazione e della distruzione del cosmo alla luce di una
tradizione filosofica che, pur mantenendosi cristiana, risultava comunque
intrisa di elementi platonici e aristotelici.
Sono evidenti, dunque,
soprattutto nei commenti a Varrone e a Virgilio i richiami continui da parte
del Leto, alle teorie e ai principi filosofici propri dei presocratici.
A sostegno di ciò soccorrono le
ulteriori glosse che Pomponio, anche se con la scorta di Cicerone, riportò nel suo commento
a Varrone.
Il discorso relativo ai quattuor aeterna genitalia corpora e
alla lotta dei contrari all’interno dell’universo, offrì all’umanista lo spunto
per citare Eraclito e porre, sulle orme del sapiente di Efeso, come principio
assoluto del cosmo, il fuoco: «Dal calore nasce l’anima, dall’umore il corpo.
Dice Cleante che il sole è fiamma, la quale si pasce dell’umore, perché nessun
fuoco può rimanere senza alimento: egli si sbaglia; il fuoco, come elemento,
tutto dona e nulla toglie alla natura: la forza della mente umana viene tutta
dal cielo».
Fuoco, dunque, per il Leto,
assurgeva a substantia prima del
cosmo, mentre la natura ne era la potenza generatrice. Fuoco è energia e,
quindi, metamorfosi della stessa negli elementi di un universo in continuo
divenire: fuoco, aria, acqua e terra; fuoco, in ultimo, per Pomponio era
natura, ovvero radice segreta di tutto ciò che nasce e perisce.
L’umanista di Teggiano, perciò,
esaminò attentamente il De lingua latina
e, probabilmente ebbe tra le mani altre opere varroniane; dai commenti a
Varrone e Ovidio, trasse lo spunto per spiegare la filosofia presocratica,
confermando la tesi relativa al dualismo caelum
(anima) – terra (corpus) e guardando al cielo quale primo elemento
universale che presiedeva alla formazione e alla cura delle anime e ad una
terra che, nel continuo movimento e nella contesa dei contrari, assurge a
principale generatrice e distruttrice dei corpi: «L’anima è Cielo, nato fuoco,
quindi è calore e siccità; il Corpo, è terra gelida e umida. Per ciò più pura è
l’aria, più acuti sono gl’ingegni».
Proprio sulle considerazioni
espresse riguardo la contesa dei contrari e la tesi relativa al fuoco come
forza generatrice, è giusto soffermarsi.
Si è già parlato della difficoltà
di dare un’interpretazione chiara alla rappresentazione dei Santi,
nell’Appartamento affrescato dal Pinturicchio.
Come già esposto in precedenza,
la Cieri Via, nota una descrizione da parte di Saxl, poco convincente riguardo
al significato dei Santi, d'altronde, anche lo studioso ritiene la scelta dei
soggetti alquanto insolita.
La soluzione ipotetica di Saxl, è
che forse i Santi rappresentano le sette Virtù, ma i dubbi sono numerosi.
Probabilmente, anche i Santi,
sono stati scelti in relazione alla tesi del dualismo, della filosofia
presocratica, dell’acqua e il fuoco.
I sette santi rappresentati nella
stanza, possono essere correlati ai due elementi presi in questione.
Sant’Elisabetta, è rappresentata
nella scena della Visitazione.
La Chiesa della Visitazione si
trova ad Ain Karem, un quartiere di Gerusalemme situato a 8 km dalla città
vecchia e risale all’Età del Bronzo come dimostrano gli scavi archeologici.
Secondo un’antica tradizione, è il luogo dove vivevano Elisabetta e suo marito
Zaccaria.
Ai piedi della scala della Chiesa
della Visitazione si trovava una sorgente, tuttora esistente ma inquinata dalle
acque della città, e sarebbe il luogo
esatto dell’incontro della Santa con sua cugina Maria e della nascita di San
Giovanni Battista. Il nome di Ain Karem deriva dai giardini e orti (Karm)
resi fertili da una sorgente perenne (Ain). La sorgente è chiamata Ain
Sitti Mariam ("La fontana di Maria").
Acqua, fonte, nascita di San Giovanni
Battista che battezzò Gesù Cristo nelle acque del Giordano e quindi nascita
della Fede, ecco il significato importante che nella scena dovrebbe evincersi.
È il fuoco invece, presente,
nell’iconografia tradizionale di Sant’Antonio Abate.
Sant'Antonio Abate chiamato anche Sant'Antonio il Grande, Sant'Antonio d'Egitto, Sant'Antonio del Fuoco, Sant'Antonio del Deserto o Sant'Antonio l'Anacoreta (251?-356),
eremita egiziano, è considerato l'iniziatore del Monachesimo cristiano e il
primo degli Abati.
Conosciamo la vita di
Sant'Antonio abate soprattutto attraverso la Vita Antonii pubblicata
nel 357, opera agiografica attribuita a Sant'Anastasio, vescovo di Alessandria
che conobbe Antonio e fu da lui coadiuvato nella lotta contro la eresia ariana.
Molto spesso, nelle arti
figurative Sant’Antonio viene affiancato dal fuoco, sul libro che reca in mano
oppure ai suoi piedi, e molti sono i riferimenti a questo elemento nella vita e
nelle leggende del Santo.
I suoi discepoli tramandarono
alla Chiesa i suoi scritti, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella
Lettera 8, S. Antonio scrisse ai suoi: «Chiedete con cuore sincero quel grande
Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato».
Inoltre, Sant’Antonio è anche
ricordato come il guaritore di un morbo, conosciuto fin dall’antichità come ‘ignis sacer’, ovvero ergotismo
canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata
per fare il pane.
San Paolo è noto come il
principale missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani.
Secondo la narrazione biblica Paolo si convertì al Cristianesimo mentre,
recandosi da Gerusalemme a Damasco per
organizzare la repressione dei cristiani della città. Fu fatto imprigionare
dagli Ebrei a Gerusalemme con
l'accusa di turbare l'ordine pubblico. Morì vittima della persecuzione di
Nerone, decapitato probabilmente tra il 64 e il 67.
Il luogo della decapitazione del Santo è riconosciuto in una
chiesa di Roma, oggi chiamata Chiesa di San Paolo alle Tre Fontane. La chiesa
sorge presso
le Aquæ Salviæ, dove San
Paolo, subì il martirio: la leggenda racconta che la sua testa,
una volta tagliata, abbia rimbalzato tre volte sul terreno, facendo scaturire
ad ogni balzo una sorgente d’acqua, una calda, una tiepida ed una fredda; da
qui il nome del toponimo delle tre
fontane.
Non uguale, ma analoga, possiamo
considerare la storia di Santa Caterina d’Alessandria, senza soffermarsi sulla
vita della Santa, bensì sul suo martirio.
A dimostrazione della fede
cristiana, Santa Caterina venne sottoposta ad una disputa con cinquanta filosofi
pagani, i quali, ascoltate le dottrine
si convertirono al Cristianesimo. L’imperatore li fece immediatamente bruciare
nel fuoco, mentre la Santa, rifiutando di diventare sposa dell’imperatore,
venne torturata con una ruota dentata.
Un’antica leggenda narrava che
dopo il supplizio, la ruota prendesse fuoco colpita da un fulmine e che
essendosi salvata dalle torture della ruota, Santa Caterina venne decapitata,
facendo sgorgare, al posto del sangue, latte bianco.
Legata ai fulmini, e di
conseguenza alla forza del fuoco è Santa Barbara.
Benché non vi siano dati certi
sulla sua vita, la sua figura divenne leggendaria grazie alla Legenda Aurea e il suo culto molto
popolare per il fatto di essere considerata protettrice contro i fulmini e il
fuoco.
Il padre di Barbara, Dioscuro,
fece costruire una torre per rinchiudervi la bellissima figlia richiesta in
sposa da moltissimi pretendenti. Ella, però, non aveva intenzione di sposarsi,
ma di consacrarsi a Dio. Prima di entrare nella torre, non essendo ancora battezzata
e volendo ricevere il sacramento della rigenerazione, si recò in una piscina
d’acqua vicino alla torre e vi si immerse tre volte dicendo: «Battezzasi
Barbara nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Per ordine del
padre, la torre avrebbe dovuto avere due finestre, ma Barbara ne volle tre in
onore della Trinità.
Il padre, pagano, venuto a
conoscenza della professione cristiana della figlia, la condusse davanti al
magistrato, affinché fosse tormentata e uccisa crudelmente. Il prefetto Marciano
cercò di convincere Barbara a recedere dal suo proposito; poi, visti inutili i
tentativi, ordinò di tormentarla. Durante la notte, Barbara ebbe una visione e
fu completamente risanata.
Il giorno seguente il prefetto la
sottomise a nuove e più crudeli torture: sulle sue carni nuovamente dilaniate
fece porre piastre di ferro rovente. Una certa Giuliana, presente al supplizio,
avendo manifestato sentimenti cristiani, venne associata al martirio: le
fiamme, accese ai loro fianchi per tormentarle, si spensero quasi subito.
Barbara, portata ignuda per la città, ritornò miracolosamente vestita e sana,
nonostante l’ordine di flagellazione. Finalmente, il prefetto la condannò al
taglio della testa; fu il padre stesso che eseguì la sentenza. Subito dopo, un fuoco
discese dal cielo e bruciò completamente il crudele padre, di cui non rimasero
nemmeno le ceneri.
Veniamo alla rappresentazione di
Susanna e i vecchioni.
Susanna, bella e pia ragazza,
viene notata da due vecchi che frequentano la casa di suo marito mentre fa il
bagno nel suo giardino. Costoro sono appena stati nominati giudici e,
infiammati di lussuria, si fanno sotto con proposte infami, minacciando di
accusarla presso il marito di averla sorpresa con un giovane amante se non si
concede a loro. Al rifiuto di Susanna l'accusano pubblicamente di adulterio.
Portata davanti al tribunale viene riconosciuta colpevole e condannata a morte
mediante lapidazione.
Nelle scene che raffigurano la
Santa, di consueto è sempre presente, come anche nel caso degli affreschi
borgiani, una fontana.
Susanna in questo caso
personifica la Chiesa perseguitata e il bagno è l’acqua di battesimo che
rigenera la Chiesa stessa.
L’ultimo santo in questione è San
Sebastiano, raffigurato secondo la tradizionale iconografia.
Sebastiano, che secondo s.
Ambrogio era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia
meridionale) e da madre milanese, era stato educato nella fede cristiana, si
trasferì a Roma nel 270 e intraprese la carriera militare intorno al 283, fino
a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma, stimato
per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che
non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani
incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e
nobili della corte. Alla scoperta della sua fede cristiana, venne perseguitato e
messo a morte dagli arcieri dell’imperatore Diocleziano.
Negli atti di San Sebastiano, si
legge ad un certo punto di Zoe, sposa di Nicostrato, funzionario imperiale
incaricato della custodia di San Sebastiano nel carcere, la quale, prima che il
santo cavaliere venisse trafitto dalle frecce, fu condannata a morte dai
persecutori pagani, poiché convertita al Cristianesimo dopo che il Santo le
fece ritornare la parola essendo muta.
Ovviamente il testo non è del
tutto affidabile, ma negli atti di San Sebastiano, Zoe, viene appesa per i
capelli e fatta bruciare sotto un fuoco ardente. Il miracolo fu nel fatto che
la donna non morì per il fuoco, ma per il fumo. Non
è però per la morte affumicata che Santa Zoe – qualora ci affidassimo alla
veridicità degli atti - è restata viva alla devozione popolare, piuttosto per
il prodigio operato su di lei da San Sebastiano.
Questa probabile spiegazione
potrebbe far luce sulla scelta dei soggetti rappresentati dal Pinturicchio.
Acqua e fuoco, quindi, dal punto
di vista cristologico, rigenerano e danno nuova vita spirituale, proprio come
Varrone, e di conseguenza Pomponio Leto con i suoi commenti al De lingua latina, consideravano l’acqua
e il fuoco, la causa di due tipi di nascita:
“Igitur causa nascendi duplex:
ignis ET aqua”
Inoltre la mia proposta di
mettere a confronto gli affreschi dei Santi della sala con Varrone e i commenti
pomponiani, potrebbe giustificare anche la scelta di tali personaggi, tuttavia,
dal punto di vista geografico: le storie, le vite, le leggende, sono tutte
avvenute, tranne che per San Sebastiano, nell’area egiziana e giudaica.
Le analogie tra i dictata del 1484 e gli affreschi non
finiscono ancora.
Varrone, quasi anticipando
Ovidio, relazionò sull’origo mundi e
sulla contesa degli elementi nel cosmo,
illustrando le corrispondenze fra principes
dei, gli egizi Serapide e Iside, Saturno e Opi, Terra e Caelum.
Complementare all’interesse per
la dottrina presocratica si rivelò lo studio attento di quelle figure
mitologiche che il Leto adoperò continuamente per commentare e spiegare
ulteriormente la teoria relativa all’origo
mundi: «L’anima del mondo che abbraccia tutte le cose ebbe dagli antichi
vari nomi: Saturno, Sole, Pan, Giove. Adottiamo quest’ultimo: Giove possiede la
pienezza delle forze cosmiche: tutti gli dei e le dee non sono che diverse
manifestazioni dell’onnipotenza di un solo nume». Ed ancora sul mito
varroniano di Serapide: «Dall’egizio Saturno nacquero Osiride e Iside, noti
anche sotto i nomi di Giove e Giunone, di Luna e Sole, di Bacco e di Cerere; da
costoro nacque il secondo Osiride, detto anche Serapide, ed Oro. Questi
accrebbe il suo regno, dedicò templi dorati ai genitori e li annoverò fra gli
immortali; egli scoprì la musica e l’insegnò alle nove vergini Muse. Guidate da
Apollo. Taluni dicono che Iside venne in Egitto dall’Etiopia, insegnò le
lettere e le leggi; più tardi, nel regno di Faraone, Api, re degli Argivi,
approdò anch’egli a quella terra; dopo la morte gli fu eretto un magnifico
sepolcro, dal cui nome egli trasse quello di Serapide: ET appellant illam sororem Apis. Serapis enim quasi soror Apis».
Anche il Pontano, nell’Urania e
nel De rebus coelestibus, sulle orme
di Arato e Ovidio, aveva tentato l’investigazione della natura e dei fenomeni
astrologici mediante il continuo ricorso alla mitologia classica, anche se
quella del poeta, si rivelò una semplice descrizione dei fenomeni
naturalistico-astrologici, priva di qualsiasi
intento speculativo e lontana da ogni forma d’indagine scientifica volta a
riproporre i principi cardini di quella tradizione filosofica presocratica che
il Leto, nei suoi studi sull’origine dell’anima, sul moto e sul senso
dell’armonia della stessa, pose, invece, alla base del suo interesse
scientifico.
È chiaro il sincretismo che
Pomponio Leto spiegava ai suoi allievi, una filosofia che ben rispecchiava
quella della decorazione del soffitto, se il mito di Iside e Osiride non era
altro che la rappresentazione dell’immortalità dell’anima.
Il mito celava molteplici
significati, come l'esaltazione del ritmo naturale delle stagioni governate dal
binomio Sole (Osiride) e Luna (Iside). Il nome del Papa rimandava dopotutto
ad Alessandro Magno, che aveva aspirato a identificarsi proprio col
Sole-Osiride, inoltre il tema della morte e Resurrezione accomuna Osiride con
Cristo facendone il mezzo di un'allegoria cristiana.
Il ciclo va inoltre visto
all’interno di un più complesso sistema decorativo caratterizzato da un lato da
insoliti sincretismi religiosi di pretta matrice umanistica, dall’altro
all’esaltazione del Papa, inteso come figlio del Sole, e della famiglia Borgia.
La chiave di lettura delle
decorazioni della volta della sala dei Santi, che presentano sincreticamente
riferimenti alle storie di Iside e Osiride, a personaggi della mitologia
classica, a personaggi biblici, è suggerita dai rilievi dell' arcone della
finestra. In essi compaiono i medaglioni con i ritratti di Alessandro Magno ,
anch'egli fatto oggetto di un'apoteosi, o divinizzazione orientale, in rapporto
alla divinità astrale del Sole, e di Diana, che nella su triplice natura è
anche la Luna, nonché la figlia di Iside.
Su questi due principi formativi,
luna e sole, si strutturano temi e pittura: fertilità e rigenerazione
stagionale sono legati alla prima, dimensione ultraterrena, divinità al
secondo.
La narrazione del mito di Iside e
Osiride ha inizio dagli ottagoni del sottarco con la storia di Io, secondo il
racconto ovidiano: dopo essere stata infatti trasformata in giovenca essa
divenne Iside regina e dea degli Egizi, lasciando loro leggi e scrittura. Per
questo motivo compare nell'ultimo ottagono seduta fra Mercurio, l'uccisore di
Argo, ma anche, secondo Cicerone, Ermete Trismegisto, che portò anche lui agli
egiziani leggi e lettere, e Mosè il legislatore del popolo ebraico. In tal modo
si sottolineava il legame tra sapienza egizia e tradizione cristiana. Nelle vele
il ciclo si apre con il matrimonio tra Iside e Osiride, cioè tra il sole e la
luna e culmina con il Sacrificio di Osiride e la sua divinizzazione,
trasformato nel bue Api. Il nesso di tali storie con il mistero
dell'Incarnazione di Cristo e delle sua Resurrezione, proseguita dalla vita
eterna, sotteso a tutta la decorazione dell'appartamento, trova un probabile
riscontro con i dictata pomponiani,
in cui, Api, reincarnando Osiride, ovvero il Sole, vive eternamente.
Non bisogna dimenticare la
presenza, costante, dei richiami all’antichità classica: l’arco di trionfo
nella Disputa di Santa Caterina, la piramide Cestia nelle storie di Iside e
Osiride, e il Colosseo, che fa da sfondo al martirio di San Sebastiano.
Il continuo dibattersi, insomma,
tra la sintesi teologico-speculativa scolastica, da una parte, e i primi
tentativi di ricerca di un’autonomia razionalistica del sapere dell’altra, fece
sì che l’umanista si ponesse a metà strada tra una religiosità ancora intrisa
di teorie e idee proprie del pensiero tardo medioevale e quel complesso di
nuovi principî filosofici che nel naturalismo scientifico, in modo particolare,
ritrovarono il loro elemento centrale. Se è pur vero, inoltre, che il grande
accostamento al pensiero dei primi filosofi pagani rappresentò la causa
prioritaria del duro scontro con la Chiesa, ciò, tuttavia, non impedì al Leto
nel suo arduo tentativo, riscoprendo e rivalutando completamente le teorie
fondamentali dei presocratici e lasciando ai posteri un lavoro filologico, che,
per una serie di eventi storici ancora poco chiari, venne condannato all’oblio.
Intraprendendo il cammino
storico, socio-politico e religioso della fine del Quattrocento, ho cercato di
tessere una trama convincente, esaustiva e disposta ad offrire una traccia di
analisi possibile agli studiosi che vogliono avvicinarsi alla ricerca,
attraverso lo svisceramento e il successivo intreccio della vita e del pensiero
e dell’opera di tre grandi personaggi: Pinturicchio, Alessandro VI e Pomponio
Leto.
Già Maurizio Calvesi, nel suo
libro La pugna d’amore in sogno di
Francesco Colonna Romano, ha
fermamente sostenuto un sicuro legame tra i tre grandi personaggi, ribadito
ancora da Stefano Colonna, in Hypnerotomachia
Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento.
Ai fini dell’indagine, è
risultata di rilevante importanza il ritrovamento del manoscritto Vat. Lat.
3415, del 1484,
conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana e la lettura della monografia a
riguardo, curata da Maria Accame Lanzillotta, in <<Dictata>>
nella scuola di Pomponio Leto, in Studi medievali, 1993; in Le
annotazioni di Pomponio Leto ai libri VIII-X del De lingua latina di Varrone,
in Giornale italiano di filologia, 1998; in Pomponio Leto: vita e
insegnamento, in appendice II, lettere di Marcantonio Sabellico a
Marcantonio Morosini, a cura di Emy Dell'Oro, Tored, Tivoli 2008.
Pomponio Leto, riveste un ruolo
fondamentale in questa fioritura della cultura egiziaca e nel ponderoso studio
esegetico su Varrone, si evidenzia l’aspetto cosmico degli dèi egizi e dei suoi
misteri.
Durante il pontificato di
Alessandro VI, i Borgia furono in stretto contatto con l’Accademia Pomponiana –
da essa provenivano alcuni maestri di Cesare e Lucrezia – e quindi non stupisce
la condivisione dei simbolismi orientaleggianti proposti dal Leto, perciò
concludo supponendo che il Papa Borgia, abbia conosciuto a fondo il pensiero
dell’umanista per far sì che la Sala dei Santi diventasse uno “spazio attuale”
in cui culto cristiano e culto pagano si fondessero per dar luogo al sistema
intellettuale e culturale che aveva imperversato il Quattrocento e influenzato
inevitabilmente gli anni a venire, e che, il ciclo decorativo, non è da
considerare inopinato, ma semplicemente una celebrazione della Sapienza
dell’Umanesimo, con le sue allegorie, le sue dottrine filosofiche e soprattutto
la sua passione per l’antichità classica e magari, attraverso tale
rappresentazione, trovare un punto di conciliazione tra il Cristianesimo e la corrente
letteraria che aveva rivoluzionato i lumi del Quattrocento.
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