Il Satiro “scandagliatore”
(Fig. 1) è una nota incisione di Agostino Carracci (Bologna, 1557 – Parma,
1602) eseguita probabilmente intorno al 1595, che in passato il Bodmer
includeva nella serie delle cosiddette Lascivie, le stampe di soggetto
biblico o mitologico a carattere erotico che il bolognese iniziò a pubblicare
forse a Venezia già a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del
Cinquecento.
Louis Dunand
notò invece come l'incisione in questione (insieme ad un'altra, più o meno
coeva, nota come Ogni cosa vince l'oro o Il Vecchio e la Cortigiana,
Fig. 2), fosse di formato maggiore (mm 201x134) e di soggetto diverso rispetto
alla serie, considerandola giustamente un'opera autonoma, il cui contenuto è
però rimasto a lungo senza una convincente interpretazione.
Solo recentemente infatti è stato
possibile rintracciare la principale fonte iconografica di Agostino, che derivò
l'oscuro soggetto da un'incisione moraleggiante stampata nel 1578 dall'olandese
Hieronymus Wierix (Antwerpen, 1553 – 1619) su invenzione di Willem van Haecht
(Antwerpen, 1525 circa – 1583) e disegno di Ambrosius Francken (Herenthals,
1544 – Antwerpen, 1618), intitolata “Vanitas Vanitatvm et Omnia Vanitas”,
conservata presso la Herzog August Bibliothek (Fig. 3), il cui tema è appunto
la vanità intesa come caducità dei piaceri terreni.
Al centro sta infatti Vanitas, una donna nuda distesa su un letto a
baldacchino, mentre su di lei si sporge un satiro, identificato da
un'iscrizione come Impudicitia, che con la mano sinistra solleva il
lenzuolo per scoprirla, e con la destra dirige un piombino (o scandaglio) sopra
il pube della giovane impassibile, come a misurare la profondità della sua
lussuria. Sotto i piedi della donna giacciono ormai dimenticati armi (una spada
e uno scudo) e libri, strumenti che alludono alla “vita attiva” e
“contemplativa”, entrambe abbandonate per seguire le passioni più sfrenate,
mentre da sotto il cuscino del letto scivolano via gli oggetti simbolo della
ricchezza e del potere terreni (Terrena Maiestas) che sprofondano in un
buco nel pavimento: corone reali, una tiara papale, una mitria vescovile, una
corona di alloro, denaro, coppe e suppellettili. A destra del gruppo sta una
donna seminuda con il capo ornato di spighe identificata come Caro,
personificazione del desiderio carnale, che con la mano destra indica la
scritta che sopra di lei recita «Omnis
Caro Fænum. Esa.
40.» (“Ogni
carne è come l'erba”, Isaia 40,6), e con la sinistra stringe una corda
collegata al chiavistello di una botola nel pavimento sulla quale si trova
ignaro l'Homo Mundanus all'estremità opposta della composizione,
minacciato così di precipitare nel vuoto da un momento all'altro. Egli infatti,
distratto e visibilmente eccitato dalla caduca Voluptas, che di spalle
lo ammalia suonando uno strumento a corde, e dalla Letitia transitoria
con i seni scoperti che gli offre un calice di vino dal banchetto imbandito
davanti a loro, non si accorge del pericolo che sta correndo (Milla Pericula).
Altre allusioni ai piaceri mondani e alle forme sessuali sono le roselline
selvatiche sparse sul pavimento della stanza e la coppa di turgidi frutti dalla
quale sporgono in particolare una pera e un grappolo d'uva, con un frutto
tagliato a metà.
Il titolo dell'illustrazione è una citazione
dall'Ecclesiaste del Vecchio Testamento, ed in particolare dal libro di Qohélet
che più volte nel testo ribadisce il celebre motto “Vanità delle Vanità, Tutto è Vanità”,
demolendo nelle sue riflessioni le pretese di eternità degli uomini e
riaffermando la fede in Dio come unica via di salvezza. Un'altra citazione
biblica, quasi un sottotitolo, compare al centro della composizione al di sopra
del baldacchino e recita “Meritrix Abissus Imus. / Pro. 23.”, riferendosi
al Proverbio 23:27 (“Una fossa profonda è la meretrice, e un pozzo stretto
la straniera”), rafforzando così il significato moraleggiante della scena,
non privo di una certa ironia ed evidentemente rivolto ad una ristretta cerchia
di pubblico di fede protestante. Infine il messaggio è ribadito nella
didascalia sottostante tradotta nelle tre lingue olandese, francese e tedesco
che suona come un ulteriore avvertimento:
“L'uomo non sondi mai il cuore
di una donna senza pudore;
Slealtà senza fede predilige
questa codarda,
Trasformando il saggio ed il
forte in un melanconico;
Invece dell'oro e dell'onore,
l'ira di Dio ci procura.
Diffida dunque mondano di cieca
persona,
(Anche se la carne così forte a
lei ti attira)
Altrimenti a mille pericoli il
tuo corpo abbandoni;
E per poco piacere in grande
disgrazia cadi.”
Tuttavia ciò che ci interessa maggiormente e che è rimasto
per molto tempo di difficile interpretazione è in particolare la presenza ed il
fine del piombino (o “scandaglio”) utilizzato dal satiro, che Agostino Carracci
riprese nell'incisione di cui ci stiamo occupando.
In proposito mi sembra utile citare un passo dall'Antico
Testamento, che abbiamo già visto essere il testo fondamentale per la
comprensione della scena allegorica ideata da van Haecht, ed in particolare dal
profeta Amos che così descrive una delle sue visioni: «Ecco ciò che mi fece
vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un
piombino in mano. Il Signore mi disse: “Che cosa vedi Amos?”. Io risposi: “Un
piombino”. Il Signore mi disse: “Io pongo un piombino in mezzo al mio popolo,
Israele; non gli perdonerò più. Saranno demolite le alture di Isacco e i
santuari d'Israele saranno ridotti in rovine, quando io mi leverò con la spada
contro la casa di Geroboàmo”» (Amos 7, 7-9). Dunque il piombino, strumento
impiegato fin dall'antichità per verificare la verticalità di una costruzione,
diventa qui simbolo di un giudizio irrevocabile che valuta la rettitudine del
popolo d'Israele.
L'uso simbolico di questo strumento matematico in arte ci
può forse essere chiarito meglio dalla lettura del Mondo Simbolico
dell'abate Filippo Picinelli del 1635, un repertorio enciclopedico compilato a
quasi un secolo di distanza dalle opere che stiamo qui esaminando, ma che
certamente attinge ad un bagaglio di nozioni e credenze consolidate da molto
più tempo. Alle voce “piombino”, nel capitolo dedicato agli strumenti
matematici nel XXI libro, lo studioso individua ben quattro significati
simbolici del piccolo oggetto: quello di esame di coscienza, “strumento
efficace d'ogni nostra rettitudine”; di travaglio utile (“quando a piombino sta
pendente dal filo, così il travaglio quando reca al nostro spirito qualche po
poco d'aggravio, ci dispone all'acquisto dell'interna rettitudine, e della
vera, ed esatta posizione.”); di timor di Dio (“Il timor d'Iddio, col suo peso
serve all'edificio spirituale delle virtù, non permettendo obliquità veruna”);
ed infine di prudenza (“Quando nel più alto dei mari si trovano i naviganti,
col piombino calato giù nel profondo dell'onde, conoscono, così la qualità,
come la distanza del fondo, al quale nell'atto d'immergersi nel pelago, fù chi
diede”). Conclude infine il Picinelli, “Così l'uomo sapiente, e versato nelle
sacre scritture, arriva ad attingere la profondità degli arcani divini, ed ivi
trova, e conosce i reconditi segreti della predestinazione, della reprovazione,
del giudizio finale”.
Certamente van Haecht aveva presente le parole del profeta
Amos, e raffigurando il piombino nelle mani della lussuriosa creatura intendeva
alludere alla ricerca di giudizio e rettitudine nella condotta degli uomini,
che è poi il significato ultimo della complessa allegoria incisa da Wierix.
Agostino Carracci, i cui debiti nei confronti delle fonti
fiamminghe sono ben noti,
deve aver conosciuto questa stampa e vi trovò certamente ispirazione per la sua
incisione del Satiro “scandagliatore”, in cui ripropone soltanto il
gruppo centrale escludendo tutti gli altri personaggi ed apportando diverse
modifiche alla scena. La composizione si sviluppa ora in senso verticale e le
figure sono invertite rispetto all'originale olandese: a destra un satiro ritto
sulle zampe caprine è intento a calare un piombino sul pube scoperto di una
giovane completamente nuda e languidamente distesa su di un talamo, mentre
dietro i due un amorino scosta la pesante tenda del baldacchino per assistere
alla scena con grande interesse. Con un braccio la donna solleva un lenzuolo
dal quale sbuca sotto il letto un gatto dormiente (noto simbolo di pigrizia e
cupidigia) ed in alto a destra si apre una finestra con delle suppellettili e
una gabbietta per uccelli.
È evidente come l'impianto allegorico progettato da van
Haecht per dissuadere gli uomini dal cedere alle tentazioni della carne abbia
perso, nell'interpretazione di Agostino, ogni intento moraleggiante, e come
anzi, l'iconografia sia stata sfruttata per dare vita ad un'insolita scena
dalla forte connotazione erotica: il satiro conserva il ghigno grottesco che
sempre lo caratterizza, ma il grembiule che indossa per cercare di nascondere
il proprio animalesco desiderio tradisce le sue intenzioni. Anche la fanciulla,
che nel prototipo olandese giaceva impassibile e disinteressata come la
personificazione di un concetto astratto, qui è invece molto concreta e
partecipa con lo sguardo al gioco sessuale in cui la coinvolge la vigorosa
creatura mitologica. Inoltre la presenza dell'amorino, introdotto liberamente
da Agostino come osservatore esterno e passivo, sembrerebbe accentuare quel
carattere voyeuristico che avrebbe fatto sentire il fruitore della stampa più
coinvolto in una scena tanto intima. È certo infatti che questo tipo di
materiale fosse destinato ad un tipo di collezionismo molto privato, e che
dovette godere di grande successo e vastissima diffusione anche in epoca di
Controriforma nonostante siano pochissimi gli originale pervenuti fino a noi,
specialmente per scene così esplicite.
Se fin qui ci siamo occupati delle fonti iconografiche
utilizzate da Agostino, ci sarà utile, per meglio comprendere la sua opera,
prendere in considerazioni anche le fonti stilistiche alle quali evidentemente
egli si ispirò.
Già Marzia Faietti ha rilevato come l'incisione dell'Ogni
cosa vince l'oro presupponga ad esempio la conoscenza dell'Amore che
fabbrica l'arco del Parmigianino, o degli Ignudi michelangioleschi,
modelli che il colto bolognese non doveva necessariamente aver visto di persona
ma che certamente circolavano all'epoca sotto forma di stampe o riproduzioni.
Nel caso del Satiro “scandagliatore” il confronto più convincente mi
sembra sia quello con alcune scene incise da Gian Giacomo Caraglio (Verona,
1500 circa – Parma, 1565) sulla base dei disegni di Perin del Vaga (Firenze,
1501 – Roma. 1547) e Rosso Fiorentino (Firenze, 1494 – Parigi, 1540), raccolte
nella fortunata serie nota come gli Amori degli dei, commissionata
nel 1527 dallo stampatore Baviero de' Carocci detto il Baviera. Le venti
incisioni fin'ora note illustrano episodi tratti dalle Metamorfosi di
Ovidio, tuttavia la loro vera natura è evidentemente quella di scene erotiche
che hanno per protagonisti non più uomini ma soltanto dèi, nel tentativo di
evitare così la terribile censura alla quale non erano invece sfuggiti i Modi
di Marcantonio Raimondi (opera conosciuta anche come Le sedici posizioni),
pubblicati nel 1524 e subito fatti bruciare per ordine di papa Clemente VII.
In particolare nella scena di Giove e Io (Fig. 4) la
figura femminile è nella stessa posa della nostra fanciulla, con l'unica
differenza che quella del Caraglio è vista frontalmente e ha la testa reclinata
all'indietro, mentre quella di Agostino è raffigurata lateralmente e guarda in
avanti per seguire le operazioni del satiro. Questa posizione della
protagonista femminile, con il braccio sinistro portato dietro la testa e la
gamba sinistra sollevata a cui fanno riscontro il braccio e la gamba destri
abbandonati verso il basso, è riecheggiata anche in un altro gruppo della
stessa serie, quello con Mercurio ed Erse (Fig. 5), ma era stata già
utilizzata dal Raimondi nei sopracitati Modi (Fig. 6) ed era
evidentemente molto apprezzata nella raffigurazione di incontri amorosi tanto
da essere ripresa a più anni di distanza. Anche l'ambientazione, che rievoca le
alcove dove si svolgevano gli incontri con le cortigiane, è comune alle precedenti
raffigurazioni del Caraglio e del Raimondi, con letti a baldacchino avvolti da
ampi tendaggi, lenzuola disfatte e morbidi cuscini con le nappe. Il fatto che
Agostino abbia quindi tratto ispirazione da una scena allegorica nata con
intenti moraleggianti, e l'abbia poi spogliata dei suoi attributi simbolici e
calata in un linguaggio che era quello utilizzato con successo dagli incisori
di immagini pornografiche, mi pare abbastanza eloquente sullo scopo che questa
stampa, come il resto delle Lascivie, doveva avere.
All'incisione di cui ci siamo appena occupati si collega
pure una delle poche opere a noi note uscite dal pennello del maggiore dei
fratelli Carracci: si tratta di un piccolo dipinto ovale (olio su tavola, cm.
46x33, Fig. 7) in cui già Andrea Emiliani ed Emilio Negro hanno riconosciuto lo
stile raffinato di Agostino, collocandolo però negli ultimi anni della sua
vita, quelli del soggiorno parmense presso la corte di Ranuccio Farnese tra il
luglio del 1600 e il febbraio del 1602 (anno della sua morte).
È difficile stabilire con sicurezza se il dipinto abbia
preceduto la stampa o viceversa, certo è che rispetto a questa esso presenta
alcune variazioni compositive, anche se il numero delle figure e l'uso dello
scandaglio sono rimasti invariati. Sono scomparsi invece sia la gabbietta con
le suppellettili sulla finestra sia il gatto dormiente sotto il letto, sebbene
la giovane donna compia ancora il gesto di sollevare il lenzuolo rosso
scoprendo una piccola piattaforma lignea rimasta vuota (le radiografie hanno
però rivelato la presenza di un disegno sottostante che testimonia forse un
ripensamento dell'artista). Il suo corpo morbido e delicato non può non
ricordarci gli incarnati levigatissimi delle dee affrescate sulla volta della
Galleria Farnese dal fratello Annibale (Fig. 8-9), a cui rimandano certamente
anche il tema dell'incontro amoroso e la presenza scherzosa di un amorino.
Anche il satiro è una figura ricorrente nella Galleria, e
nonostante conservi il suo aspetto animalesco il suo volto è molto diverso da
come ce l'aspetteremmo: se infatti il satiro dell'incisione è la creatura
grottesca e quasi caricaturale dal grosso naso e dal ghigno beffardo della
mitologia classica, qui esso ha un profilo più delicato, una barba lunga e
grigia, la fronte ampia e la testa canuta, come se nelle sue fattezze fosse
stato intenzionalmente ritratto un personaggio dell'epoca (forse un Farnese?).
L'ipotesi non deve sembrarci così irreale se consideriamo
che la fanciulla bionda qui raffigurata è la stessa modella che Agostino
utilizzò per tutte le scene delle Lascivie, e anche nell'Ogni cosa
vince l'oro, dove essa è stata identificata come Isabella, la cortigiana
veneziana che il Carracci portò con se a Roma e dalla quale ebbe un figlio,
Antonio, anch'egli pittore. Proprio in quest'ultima incisione le due figure in
secondo piano, quella maschile affacciata al balcone di spalle e il bambino nel
girello che si sporge verso la mela in terra, sono stati identificati come
Agostino ed il piccolo Antonio,
la cui discussa data di nascita è stata recentemente fissata da Negro tra il
1592-93.
Se così fosse troverebbe ulteriore conferma la proposta
della De Grazia di collocare l'incisione del Vecchio e la Cortigiana
intorno al 1595, quando il
bambino doveva avere due o tre anni, ma è chiaro che l'ambientazione non sarà
più Venezia, come si è sempre sostenuto, bensì Roma, dove Agostino raggiunse il
fratello Annibale chiamato dal cardinale Odoardo Farnese per decorare prima la
sua camera da letto ed in seguito la celebre Galleria. Ed è proprio dentro
Palazzo Farnese che sembra ambientato l'episodio della cortigiana conquistata
dalle ricchezze del vecchio, in una delle stanze che danno sull'ampio balcone
nel retro dell'edificio, dal quale si può scorgere infatti il campanile
romanico di Santa Maria in Trastevere e persino una piccola, simbolica porzione
di uno dei colli romani.
Altre ragioni, oltre a quelle stilistiche, ci fanno pensare
che anche il Satiro “scandagliatore” sia stato concepito negli anni a
ridosso dell'ideazione del programma della Galleria Farnese (tra il 1595 e il
1597), i cui disegni si devono per la maggior parte proprio ad invenzioni di
Agostino. Sappiamo infatti che il giovane Odoardo Farnese, committente del
ciclo, prediligeva i soggetti erotici e conduceva uno stile di vita in linea
con le sue attitudini: recenti studi hanno fatto luce sulla sua abitudine di
uscire per Roma di notte in abiti civili in cerca di avventure, e
sull'ammirazione che egli rivolse ad una nobildonna romana dalla proverbiale bellezza,
tale Laura Maccarani.
Ci sembra dunque che entrambe le incisioni e l'inedito dipinto si collochino
bene nel periodo del soggiorno romano di Agostino sia per il soggetto amoroso
molto esplicito, sia per il tono scherzoso e non privo di ironia legato alla
presenza del satiro e dell'amorino, temi dominanti anche nella splendida
Galleria voluta da Odoardo.
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