Il degrado
attuale
In una regione come il Lazio, dove lo strapotere di Roma
domina su tutte le altre realtà pure importanti, che la regione offre, non è
difficile trovare episodi artistici lasciati in abbandono, considerati
sacrificabili ritenendosi troppo dispendioso il loro recupero e valorizzazione.
Spesso sono episodi minori legati
comunque alla storia, all'arte, alla politica della città del papa, ma che
hanno dovuto subire un triste destino, fatto di oblio e trascuratezza, dovuto
al fatto che si è, anche se inconsapevolmente, attuata una selezione tra beni
artistici, dettata dalle condizioni di conservazione dell'opera,
dall'importanza della committenza che la generò, dall'accessibilità e non
ultima dalla proprietà che la detiene. Queste e altre variabili alla fine hanno
portato a dimenticare opere di tutto rispetto che meriterebbero ben altra
sorte.
Non è un caso che anche nella campagna romana esistano
monumenti di valore quasi completamente sconosciuti. Questo disinteresse ha lasciato
spazio a tentativi di sfruttamento indiscriminato da parte di privati che, con
poco interesse per l'aspetto storico-artistico e con pochi scrupoli per ciò che
i loro progetti avrebbero potuto intaccare, hanno tentato di forzare i vincoli
artistici ai quali i beni sono sottoposti. Sono casi non così rari nel nostro
Paese e assolutamente inconcepibili per una nazione che possiede il più ampio
patrimonio storico artistico del mondo e ha il dovere di conservarlo.
Un caso del genere è rilevabile a poca distanza dalla
Capitale. Nel piccolo paese di Poli, 40 km a est di Roma, tra le ben note città di Tivoli e Palestrina, sorge una villa d'origine cinquecentesca: Villa Catena. Attualmente è di proprietà di un'azienda agricola, ma difficili risultano le visite del complesso. Negli anni precedenti
il monumento è stato interessato da tentativi di “recupero”, che prevedevano
secondo i progetti della proprietà, inizialmente avallati colpevolmente dal
Comune, la costruzione di nuova cubatura all'interno del territorio della
villa, mentre l'edificio principale avrebbe subito modifiche interne, così da
poter ospitare delle suites. Questi interventi avrebbero portato alla realizzazione di una struttura alberghiera di gran lusso, racchiusa dalle mura del complesso monumentale.
Concessa la realizzazione della nuova cubatura, la proprietà avrebbe pensato
alla restaurazione degli edifici storici presenti sul territorio. Naturalmente
il progetto fu fermato, in quanto il complesso è interessato da vincolo
artistico-ambientale. Essendo la ristrutturazione degli edifici antichi la condizione fondamentale per qualsiasi altro intervento, la proprietà provò ad aggirare l'ostacolo facendo leva sul preoccupante stato di conservazione degli edifici, vincolando il recupero di quest'ultimi alla realizzazione delle nuove costruzioni; in caso di mancata concessione, gli edifici avrebbero continuato a giacere nel loro stato di completo abbandono e di fatto condannati alla
distruzione. Il “ricatto” non fece muovere
nulla. A tutt'ora gli edifici storici sono in uno stato di deplorevole degrado.
Molti sono ormai privi delle coperture e le intemperie minano le strutture.
Molti muri sono crollati. Attualmente non si hanno notizie di campagne di restauro, recupero e neanche di convinti interventi di conservazione degli edifici esistenti: una fine disastrosa per un'opera che custodisce una storia piuttosto importante.
La storia
dell’edificio
L'origine del monumento si colloca all'inizio degli anni
sessanta del Cinquecento. La sua edificazione interessò direttamente la
famiglia Conti, famiglia dell'antica nobiltà baronale romana, detentrice di
ampi possedimenti nella Città Eterna, basti pensare alla torre dei Conti
collocata nell'area dei Fori Imperiali, e signori di Poli fin dal 1208. Il committente fu il duca
Torquato Conti (1519-1572), divenuto duca a seguito dell'elevazione del feudo
di Poli al rango di ducato, nel 1540, per volere di papa Paolo III Farnese, a
ricompensa della fedeltà dimostrata dall'antica famiglia romana. Quello con i
Farnese sarà un legame duraturo e fruttuoso per i Conti, suggellato dal
matrimonio, voluto dallo stesso papa, tra il duca Torquato e Violante Farnese,
nel 1548. La storia della villa è strettamente legata a quella del suo
committente e delle sue amicizie, tanto che per avere informazioni sull'opera,
bisogna necessariamente fare riferimento alla biografia del Conti e alle sue
vicende private. Torquato Conti fu
un valente uomo d'armi, con una brillante carriera militare svolta al servizio
dello Stato Pontificio, ricoprendo il ruolo di Generale delle Armi Pontificie
ed essendo impiegato da ben quattro papi per prestigiosi incarichi, a conferma del suo valore,
largamente riconosciuto nell'ambiente romano e non solo, Sperone Speroni lo
inserirà in uno dei suoi dialoghi, Dialogo
sopra il giudizio di Senofonte,
dove come
scrive il Caro «[...] sopra alcune dispute di guerra l'introduce a parlar come
uno de' più periti signori d'Italia [...]».
Durante la sua ascesa fondamentale fu il legame con la
famiglia Farnese. Nel 1545 Torquato Conti fu chiamato da papa Paolo III Farnese come membro di a una commissione di esperti per le fortificazioni vaticane. Seguirà poi Orazio Farnese nelle Fiandre, dove nell'assedio di Hesdin cadde prigioniero insieme a Vicino Orsini, suo
compagno di battaglie e cognato. In quest'occasione molto si adoperò il cardinale Alessandro Farnese, col suo segretario Annibale Caro, per la
liberazione del duca di Poli. I legami con i Farnese non
furono importanti solo per la sua carriera.
Attraverso la frequentazione della corte farnesiana poté conoscere personaggi di primo calibro della cultura del tempo, basti solo ricordare l'amicizia del duca col Caro, lo stesso sentimento lo legava direttamente al “gran cardinale”. E' la frequentazione di questo ambiente, uno degli ingredienti
che portò all'ideazione del progetto della sua villa e all'interno di questa
cerchia che pure si sviluppò e trovò terreno, la disputa sul giardino,
dibattuta tra i signori romani.
Questa vicinanza alla famiglia Farnese, alla fine degli anni cinquanta del secolo, fu causa di un raffreddamento dei rapporti tra la Santa Sede e il duca Torquato, che coincise con un periodo di stallo della sua carriera. Infatti quando nel 1559 morì papa Paolo IV Carafa, appoggiato dai Farnese e dal Conti, «[...] ch'era l'anima et governo del cardinal Caraffa nelli suoi
trionfi [...]», il nuovo papa Pio IV, suo
avversario, s'adoperò per punire i seguaci del suo predecessore. Torquato Conti
finì nella “lista nera”, «[...] perché passa per farnesiano [...]» scriverà il Caro in una
lettera al duca polese. Per quattro anni il Torquato fu lontano da incarichi
ufficiali e dai campi di battaglia. Passerà questo tempo per lo più, nei suoi
possedimenti polesi.
Fu questo riposo forzato a consentire al Conti l'avvio di alcuni lavori di ristrutturazione del suo ducato. Interverrà in paese nella
trasformazione della rocca d'origine medievale in palazzo, progetto solo parzialmente
attuato, il cui risultato più alto è rappresentato dalla bellissima decorazione
dei suoi appartamenti al piano terra, opera di Prospero Fontana per le pitture
e di Giovanni Antonio Dosio per gli stucchi, che lavorò in più occasioni per il
Conti.
L’idea della
villa
Contemporaneamente prese corpo l'idea di una villa extraurbana, la Villa Catena, così chiamata per la caratteristiche naturali del luogo in cui sorge, collocata quattro chilometri fuori l'abitato di Poli. Il progetto del duca Torquato segue la moda assai diffusa all'epoca tra la nobiltà romana. Nei primi anni sessanta del secolo nascono
numerose ville extraurbane quali la villa Farnese a Caprarola, il Sacro Bosco
di Bomarzo di Vicino Orsini, la villa Gambara, poi Lante, a Bagnaia e la villa
d'Este a Tivoli solo per citare gli esempi più noti, fuori da Roma. La villa era un simbolo del potere acquisito, mostrato attraverso l'ampia profusione di lusso e arte. I lavori intrapresi dal Conti
puntavano proprio ad adeguare il suo ducato al nuovo rango conquistato e la villa
sarebbe stato il suo manifesto di potere. Ricostruire l'iter ideativo e
costruttivo della villa è parzialmente possibile solo attraverso fonti
indirette. Non esistono documenti o progetti ufficiali, è necessario quindi
affidarsi quasi completamente a delle lettere, ricevute e inviate dal duca.
La prima lettera che informa dell'esistenza della villa è
inviata il 9 Maggio 1563, al duca Conti dal letterato
Annibale Caro, già segretario di Pier Luigi Farnese e poi del gran cardinale
Alessandro, amico del duca Torquato e divenuto l'elaboratore ufficiale dei
programmi iconografici delle decorazioni delle dimore dei nobili romani. La missiva comunica l'arrivo alla villa del Caro assieme ad un frate. Evidentemente l'edificio principale già esisteva, collocando la data probabile di fondazione a qualche anno prima. E' comunque il primo chiaro riferimento all'esistenza della villa polese.
Una seconda lettera del Caro, del 6 Giugno 1563, si occupa dei giardini, ai quali il poeta doveva trovare sistemazione, fornendo una descrizione piuttosto dettagliata degli elementi che li componevano:
«Vi prometto, Signore che vi sto tuttavia legato col pensiero, e che a tutte l'ore vi vo immaginando nuove delizie e nuove bellezze. Di grazia V. S. faccia sollecitar quell'acquidotto. Che fino a tanto che l'acqua non ci sia, non mi risolvo a ghiribizzarvi sopra. Le fontane, il lago, le polle, le cadute, i bollori che vi si sono pensati; e le caccie, i parchi, le conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini, che vi si sono già inviati, sono cose ordinarie a
quelle che ci si possono fare. Bisogna che ci sieno stravaganze da dar la stretta al Boschetto del Signor Vicino. Quel molino a vento non mi dispiace. Quel moto perpetuo de' sacchi bagnati per far fresco, mi tocca l'ugola. Quello scoglio in mezzo al lago, ha forte delle Antoniane. Quella musica di vettine farà strabiliar più la gente, che la bella Franceschina che suonano in Fiandra le campane. Sopra tutto quella Colonia mi va ogni di più per la fantasia. Ma mi par necessario che Mastro Teodoro dia dentro in quel lapis: che così mi rincorerei di far tanti
gentiluomini politici, che faremo un Borgo di ville da Poli a Roma».
Qui accanto a cose più «ordinarie» appaiono soluzioni di maggior effetto, definite «stravaganze», «per dar la stretta al Boschetto del Signor Vicino» . Il riferimento all'Orsini rimanda a una competizione col Sacro Bosco di Bomarzo, del cognato e amico Vicino, col quale condivideva la tendenza al «grottesco» del suo giardino e col quale aspirava a rivaleggiare. Tali elementi
fanno parte di quel colto dibattito sul giardino, al quale partecipavano molti
dei signori romani dell'epoca. Coloro, che come il Conti si accingevano ad
edificare una villa, non potevano escludere dalla progettazione l'elemento
giardino. Anzi in essi venivano realizzati percorsi ideali, disegni che
rimandavano alla mitologia classica o che sottintendevano significati
allegorici, riferiti al committente o alla sua famiglia. Temi che trovavano
spazio all'interno delle dimore attraverso le pitture di grandi artisti,
parallelamente all'esterno potevano dipanarsi per l'intero giardino.
Frequentemente si alludeva alle mitiche età del mondo, al percorso dell'acqua e al passaggio dal dominio della natura, risalente a un'età primitiva del mondo, a quello dell'uomo, efficacemente esplicitato dal passaggio da un giardino spontaneo o parco, dove la vegetazione non appariva organizzata, al giardino geometrico simbolo dell'egemonia umana. Ad abbellire i giardini, oltre all'ars topiaria, che in questo periodo ricevette grande impulso,
immancabili erano le fontane e la presenza d'acqua in generale, indispensabile
per la vitalità di grandi concentrazioni di vegetazione. L'idraulica raggiunge
in questo secolo e nel successivo uno dei punti più alti; i giardini vengono
puntellati di innumerevoli fontane, da semplici catene d'acqua a grandi
apparati scenici, da ninfei fino ad arrivare a laghi artificiali. In
In quest'ambito la rivalità fra nobili condusse a capolavori ancora oggi apprezzati.
Il Conti volle misurarsi con quest'ambiente scegliendo di
stupire col suo giardino, dando spazio al «grottesco», di cui il Sacro Bosco
dell'Orsini sarebbe divenuto l'esempio più alto. La competenza del Conti su
tali temi e la sua completa adesione a questa visione del giardino, è
testimoniata ancora da una lettera.
Questa volta il mittente è il cardinale Farnese, che nel Luglio del 1569 invitò il duca di Poli a recarsi a Caprarola, dove aveva intrapreso i lavori per il suo parco, affinché dice possa «[...] aiutarmi col suo consiglio et giudizio me ne farà singol.mo piacere», informandolo inoltre che a Caprarola troverà l'amico Vicino Orsini «et buona compagnia». Il Conti oberato di impegni, risponde che comunque sarà a
Caprarola, rallegrandosi della presenza del cognato e scorgendo un'occasione
per convincere il Farnese a «dare un poco di loco al grottesco».
La corrispondenza del duca ha fornito informazioni interessanti anche riguardo al possibile architetto della villa polese. La lettera recuperata da Bruno Adorni nell'archivio farnesiano di Parma, datata 4 Dicembre 1561 e destinata al cardinale Alessandro Farnese, in quei giorni a Caprarola per i lavori della sua villa, informa del fatto che il Conti richiese l'invio del Vignola a Poli, per due giorni, avendo bisogno di un «suo giudicio sopra un mio disegno»
. La lettera è la più antica di
quelle conosciute che riguardi, secondo l'Adorni, la Catena. Attraverso di
essa, si sa che il Conti chiese ai Farnese il loro architetto di fiducia e
lascia pensare che il suo «disegno» si riferisca al progetto della villa, che
quindi potrebbe trovare in questi anni la sua fondazione. A questa lettera
sembra non ne seguano altre di risposta, nè si è a conoscenza di documenti
progettuali che attestino la presenza del Vignola a Poli. L'Adorni, però, vede
in questa missiva la possibilità di dare un autore al progetto polese. Tale
ipotesi è basata su un confronto stilistico tra la Catena e opere di accertata
matrice vignolesca, ravvisando elementi comuni. I confronti col casino Gambara
a Bagnaia, la villa Tuscolana a Frascati, il palazzo di Ottavio Farnese a
Piacenza rivelano, secondo lo studioso, caratteristiche comuni pure alla
Catena, quali l'altana e il corpo compatto, ad esempio.
La struttura e
tipologia della fabbrica originaria
L'ipotesi di Adorni crolla di fronte ad un errore di fondo.
Il suo raffronto è applicato sull'attuale aspetto della villa, che è ben
diverso da quello dell'originale villa di Torquato. Prova di questa diversità
si trova in un affresco nel Palazzo Conti di Poli, nella loggia che permette
l'accesso agli appartamenti del duca Lotario, figlio di Torquato, al primo
piano. Qui è riportata l'immagine della facciata est della palazzina, con di
fronte i giardini. L'aspetto è molto militaresco, simile ad una fortezza, con
portone d'entrata ad arco tra due bastioni angolari, torri ai quattro angoli,
qui solo due visibili, a contenere un corpo centrale.
Il rigore è mitigato da eleganti parapetti, che fanno supporre la presenza di terrazze.
L'affresco riporta la data 1598, periodo del governo di Lotario, committente della decorazione del primo piano del Palazzo Conti, che ospitava i suoi appartamenti. La data è particolarmente importante perché sappiamo da varie fonti che Lotario non intervenne sulla Villa Catena, quindi l'immagine riportata nel
dipinto doveva essere quella dell'originale villa di Torquato. La costruzione
aveva quattro torri e questa caratteristica era riportata anche nel nome dato
all'edificio, che univa tale peculiarità architettonica col nome del suo
committente: Torquattro. Questo è il nome riportato anche dal Dionigi, nella
sua Genealogia di Casa Conti del 1663, in riferimento alla Palazzina.
Lo stesso nome ritorna infine nella testimonianza di un mastro muratore, nell'ambito di un processo di metà '700 che coinvolse i Conti e i cittadini di Poli. In questa testimonianza s'afferma
che l'edificio principale «si chiamava Torquattro, ed il detto […] duca
Giuseppe Lotario rifondò e ristabilì i fondamenti delle quattro torri,
susseguentemente vi alzò sopra di esse maggior corpo di fabbrica come al
presente si vede ed ingrandì dette fabbriche con ornamenti di baluardi, e
muraglioni d'intorno [...]». Questa serie di prove confermano che l'edificio di Torquato era diverso dall'attuale e che assunse tale aspetto a seguito dell'ampliamento di fine Seicento.
Giovanni Antonio
Dosio
Ancora in merito all'architetto della villa abbiamo un'altra lettera che ci fornisce un ulteriore nome. La lettera è ancora di Annibale Caro,
datata 22 Luglio 1564, e parla di un «Giovanni Antonio Architetto», amico del poeta, che sarebbe
giunto presso il duca di Poli. Si allude al Dosio. Giovanni Antonio Dosio, d'origine toscana, si trasferì molto giovane a Roma dove divenne allievo di Raffaello da Montelupo. Nell'ambiente romano si
distinse come scultore, stuccatore, disegnatore di antichità classiche e come
architetto. La sua attenzione e fedeltà nella riproduzione dello stile classico
lo fecero molto apprezzare tra la nobiltà romana dell'epoca.
Quella del Caro, sembra una lettera di presentazione
dell'amico, ma quest'ultimo già aveva lavorato per i Conti, nel 1562 presso la
chiesa dei SS. Cosma e Damiano, nelle proprietà romane della famiglia. In quell'occasione, il Dosio si occupò del ritrovamento della Forma Urbis che il duca donò al cardinale Farnese, come testimonia Panvinio.
Sarà impiegato poi al Palazzo Conti a Poli, dove «lavorò [...] molte cose di stucco e di marmo» racconta il Borghini e come ha dimostrato anche la Coliva, nel suo studio sulla decorazione del palazzo polese. Quando il Conti fu governatore di Anagni «servì a detto Signore come Architetto sopra la Fortezza d'Anagni [...] e fece arme di marmo e altri lavori per detta fortificazione».
Con tutta probabilità dunque lavorò pure alla Catena, ma non è chiaro quale fosse il suo ruolo e quanto peso abbia avuto nella realizzazione della villa. Tuttavia il solo riferimento al 1564 fa escludere da parte degli
studiosi, che il Dosio possa essere l'architetto della villa del duca di Poli.
Torquato Conti
come architetto della villa: un’ipotesi di lavoro
In questa incertezza potrebbe aprirsi la strada una terza
possibilità, quella che vede il duca Torquato Conti direttamente coinvolto
nella costruzione della sua villa.
Tutte le fonti parlano di un Torquato Conti esperto di architettura militare e anche civile; fu più volte chiamato in Vaticano proprio in virtù di questa perizia, per occuparsi insieme ad altri esperti delle fortificazioni in Borgo, la prima volta, nel 1545, fece parte della commissione convocata per dirimere la controversia nata tra Antonio da Sangallo e Michelangelo. S'occupò della fortificazione di Anagni, poi assediata dal duca d'Alba, nel 1557 ed infine sotto papa Pio V fu di nuovo impegnato nelle fortificazioni vaticane.
L'ambasciatore veneziano Navagero, in un dispaccio al senato
veneziano, del 1559, scrive in riferimento al Conti: «dicono ch'intende bene le
cose delle fortezze». A ciò bisogna aggiungere,
come afferma pure il Bredekamp, che all'epoca, non di rado i signori
attendessero alla costruzione delle loro dimore e un esempio molto vicino al
Conti, fu il cognato, amico e compagno di battaglie Vicino Orsini. Il Bredekamp
riporta che l'Orsini fu l'autore dell'ala del palazzo di Bomarzo che ospitava i
suoi appartamenti. Gli fa eco il Calvesi, anche
se ravvisa degli elementi che ricordano lo stile dell'Ammannati, ipotizzando
che alcuni progetti dell'architetto avessero potuto fungere da suggerimento per
sviluppare il suo progetto. L'Orsini poi pare nutrisse delle riserve nei
confronti degli architetti ritenendo di possedere le loro stesse capacità. Non a
caso il signore di Bomarzo, sembra rifiutò i consigli del Vignola.
Testimonianza del rifiuto fu la lettera del 1565 inviata al cardinale Farnese, dove scrive «giungendo al boschetto trovai la loggia delle mie fontane che va a terra, di modo che 'l Vignola è savio più che non credevo, poi ch'ha voluto le chiavi di ferro alla loggia di Caprarola».
La storia del Conti potrebbe non essere diversa, soprattutto
considerando la vicinanza tra i due personaggi, più volte citata e ricordando
le forme della Torquattro, che la rendevano simile a una fortezza.
Possiamo anche ipotizzare che il duca di Poli non rifiutasse, al contrario del cognato, i consigli di professionisti, dato che durante i lavori ad Anagni di cui il duca Torquato era governatore il Dosio si occupò non solo delle decorazioni, ma intervenne anche nelle opere di fortificazione.
. Certamente quelle fornite non sono prove schiaccianti, ma aprono a una possibile soluzione alla questione dell'architetto della Villa Catena, a tutt'oggi irrisolta, fornendo un'altra sfaccettatura della personalità del duca Torquato Conti.
L'ultima informazione sulla villa cinquecentesca deriva ancora dalla citata lettera del 1564, in cui è presentato il Dosio. A questa
data il duca Conti era tornato nelle grazie del papa, avendogli affidato vari
incarichi, tra cui quello di governatore di Anagni.
Il Caro in virtù di questi impegni, che tanto occupavano il duca, nella parte centrale della lettera, si mostra preoccupato delle sorti della villa, temendo che il Conti ne potesse trascurare il progetto.. Questo appunto ha lasciato
intendere che all'epoca della lettera, la villa non fosse ancora completata.
Non si ha notizia di quanto durarono ancora i lavori e se
questi giunsero mai a compimento. Il Cascioli, afferma che durante le assenze
del duca, i lavori rallentassero notevolmente, fino addirittura a fermarsi, in
alcuni casi. Potrebbe essere il segnale,
riallacciandosi all'ipotesi sopra proposta, che Torquato Conti fosse
direttamente coinvolto nei lavori di realizzazione dell'opera, tanto che senza
di lui questi avessero difficoltà a progredire.
Lavori alla Villa
successivi alla morte di Torquato Conti
Dopo la morte del duca Torquato Conti avvenuta nel 1572, si hanno solo notizie di lavori di manutenzione della villa Catena da parte dei suoi successori, nessun completamento.
Bisognerà attendere l'ultimo ventennio del secolo successivo, per ritrovare la Catena coinvolta in un imponente intervento di ampliamento, promosso dal duca Giuseppe Lotario Conti, tra la fine del '600 e l'inizio del '700. Il suo progetto modificherà la Palazzina di Torquato,
amplierà notevolmente l'area della tenuta e aggiungerà nuovi edifici, il tutto
cinto da un alto muro perimetrale. Di questi lavori si possiedono dettagliate
informazioni e documenti, grazie agli studi del professore Romanello Gordiani,
che ha recuperato degli inediti dall'archivio Conti.
Il nuovo progetto ebbe un iter assai lungo, contrariamente a
quanto riportavano alcune fonti antiche, pure importanti e poté prendere corpo
solo a seguito del vantaggioso matrimonio che il duca Giuseppe Lotario Conti
contrasse nel 1677, con Lucrezia Colonna, figlia del duca di Paliano e vedova
del duca Stefano Colonna di Bassanello. L'unione rimpinguò le casse della
famiglia polese, non proprio in ottime condizioni e diede impulso al progetto
di ampliamento.
In una fase iniziale si dovette provvedere al recupero dei
terreni intorno all'area dell'antica villa Catena e delle aree verso le quali
si sarebbe dovuto espandere il nuovo progetto. Molti erano appezzamenti dati
enfiteusi ai polesi, per altri si dovette procedere all'esproprio o
all'acquisto.
Queste operazioni richiesero ben 14 anni, durante le quali già si provvide ai primi interventi costruttivi, che riguardarono la Palazzina di Torquato e l'edificazione di due fabbricati gemelli posti al limite dell'area della Villa Catena cinquecentesca. In quest'occasione la Palazzina
assunse le forme attuali, ancora visibili percorrendo gli ultimi chilometri
della via Polense, che costeggia il muro di recinzione, sostituendo la
Torquattro. L'intervento, per quanto invasivo, mantenne come racchiuse alcune
caratteristiche della precedente costruzione, come le torri angolari, ancora
intuibili, ma in generale si distinse per un uso di forme di richiamo
cinquecentesco, tanto da trarre in inganno uno studioso del calibro dell'Adorni.
Il portale in bugnato richiama lo stile del XVI secolo, come l'altana di vignolesca memoria. Per accedere alla facciata est, verso il paese, si deve percorrere un breve ponte, a memoria forse di un piccolo fossato che divideva la villa dallo spazio antistante.
Di fronte alla facciata opposta un ampio cortile, dove venivano accolte le carrozze, s'affaccia dominante sul viale d'entrata. Da questo cortile, partiva la caduta d'acqua della fontana delle Cinque Bocche, anch'essa rimaneggiata in questi anni, che attraverso livelli successivi, veniva raccolta nell'ampio bacino alla fine del viale alberato, accogliendo gli ospiti della villa con un'immagine di grande effetto.
Contemporaneamente vennero edificate le Case Nuove, le prime costruzioni del nuovo disegno del duca Giuseppe Lotario, edifici gemelli marcatamente rettangolari, a due piani e posti perpendicolarmente al viale che dall'area della Palazzina, si inoltra nel nuovo parco. Ospitavano al piano
superiore degli alloggi, mentre al piano terra il tinello, il granaio e una
stalla. Le due costruzioni avevano una funzione essenzialmente pratica.
Nel progetto del duca era infatti compreso lo sfruttamento della tenuta, quale attività produttiva, un complesso capace di assolvere il ruolo di dimora di rappresentanza per la famiglia dei duchi di Poli, e che allo stesso tempo potesse anche auto-sostenersi, viste le finanze non proprio floride dei Conti, quasi da sempre alle prese con problemi economici. La tenuta quindi ospitava animali
d'allevamento, coltivazioni da frutto, un esteso vigneto e frumenti.
Dalle Case Nuove il viale continuava verso est, all'interno
del parco alla cui estremità si trovava un edificio dalla storia antica e che
assunse nel corso dei secoli varie denominazioni. Originariamente esso era
completamente indipendente dalla villa.
L'edificazione del nucleo primario risaliva al 1624, all'epoca del già citato duca Lotario, che donò ai certosini di S. Maria degli Angeli in Roma, un appezzamento di terreno in località colle Arnaro, con la possibilità di usare per la pesca un lago che si trovava nelle vicinanze, privilegio anticamente riservato solo ai signori di Poli. Su questo terreno,
già nello stesso anno i monaci eressero un convento. Da qui il primo nome
dell'edificio: Convento o Conventino, per le ridotte dimensioni. In seguito
l'edificio fu abbandonato e alla fine del '600, non senza qualche resistenza
dei monaci, che ancora reclamavano dei diritti sulla proprietà, fu inglobato
nella villa dei Conti assumendo il nome di Casino della Vigna, dovuto al
vicino vigneto.
Più tardi durante la ristrutturazione dell'edificio, precedente all'ampliamento, fu ritrovata la lapide che ne ricordava la prima fondazione, con la data 1624. Da questo momento sarà il fratello del duca Giuseppe Lotario, Michelangelo, che aveva intrapreso la carriera ecclesiastica, ad occuparsi della sua sistemazione; da lui deriveranno i successivi nomi dello stabile, Casino del Cardinale prima e in seguito alla sua elezione al soglio di Pietro nel 1721, assunse il nome di Casino del Papa. Qui infatti dimorò per otto giorni il nuovo papa Innocenzo XIII Conti, quando nel 1723 giunse in visita al suo paese natale, con un imponente corteo.
Dell'arrivo del papa alla villa, col suo seguito e della maestosa accoglienza che ricevette, vi era testimonianza in un quadro, anticamente conservato all'interno della Palazzina, opera di autore sconosciuto.
Legati in qualche modo alla figura di Innocenzo XIII, gli ultimi due edifici importanti dell'ampliamento, si collocano fuori dalla direttrice ovest-est sulla quale si trovano le precedenti costruzioni. Il Casino dei Cardinali è posto a nord del Casino del Papa e
durante la visita del Santo Padre ospitò il suo corposo seguito; più tardi assunse il nome di Casalina.
L'altro edificio è la chiesa di S. Croce. Anch'essa fatta realizzare dal papa, le cui
fondamenta furono gettate durante la sua visita. Sembra che facesse parte di
una serie di chiesette fatte realizzare all'interno della proprietà, a
riproduzione del percorso di indulgenza delle sette chiese di Roma.
La chiesa è a pianta circolare, di piccole dimensioni. Non fu mai portata a conclusione, ma è l'unica superstite delle sette chiesette che pare ornassero la tenuta.
Rispetto al progetto del suo avo, quello del duca Giuseppe
Lotario è piuttosto ben documentato, questo anche grazie al lavoro di Romanello
Gordiani, come già accennato. Si possiedono piante, prospetti di molti degli
edifici presenti, per alcuni anche delle successive modifiche e di soluzioni
poi non adottate. Tutte le costruzioni si distinguono per una certa sobrietà e
linearità.
L'architetto responsabile del progetto fu Giambattista Contini, affermato nell'ambiente romano, allievo del Bernini, collaborò con Carlo Fontana alla risistemazione del Belvedere. Fu uno degli esponenti dell'ultimo barocco, stile ravvisabile nel disegno di una scenografica scala a tenaglia, poi non realizzata, progettata per il Casino dei Cardinali.
Il suo nome ritorna più volte nei documenti di Sei-Settecento della famiglia Conti; lavorò a Palazzo Conti e alla Catena, come risulta da un ordine per alcuni lavori degli edifici della villa e per quelli del recinto murario, che riportano il suo nome. La precisione e la sicurezza della veridicità di ciò che si è affermato, riguardo ai lavori di questa fase della storia della villa, è assicurata dagli atti del processo svoltosi nel 1750, che vedeva contrapposti i Conti alla comunità polese che, dalla fine del Seicento, s'era rifiutata di fornire gli ammanimenti, ore di lavoro gratuite presso la villa Catena. I Conti, dal canto loro, si appellavano a un'antica convenzione che prevedeva la somministrazione di tali prestazioni da parte dei sudditi. Il processo produsse una serie di testimonianze, anche di operai che presero parte al progetto e che hanno consentito di trovare riscontro o meno, alle informazioni date da precedenti studiosi.
Le premesse del processo sono rintracciabili nei rapporti
non proprio idilliaci che pare intercorressero tra il duca e la popolazione e
che s'erano ulteriormente inaspriti con l'inizio dei lavori alla villa. Le
operazioni avviate per l'ampliamento provocarono non pochi disagi alla
popolazione polese. I terreni recuperati intorno all'area dell'antica villa
cinquecentesca e quelli espropriati per ampliare la proprietà, sottrassero a
una popolazione già povera, che viveva per lo più d'agricoltura, un'ampia
porzione di terreni coltivabili e fertili. Non a caso, gli interventi di
recupero e acquisizione dei terreni durarono a lungo, trovando la resistenza dei
contadini polesi.
Altro fattore di tensione fu la deviazione, dovuta
all'ampliamento, della strada Poli-Roma, che anticamente passava all'interno
dell'odierno territorio della villa, al di sotto della Palazzina, con un
percorso rettilineo. Lo spostamento della strada fuori dal muro di cinta costrinse i polesi ad una tortuosa deviazione, allungandone il percorso.
A segnare una frattura quasi insanabile tra signori e popolazione fu la scelta di adottare la villa come residenza privilegiata della famiglia, lasciando la dimora borghigiana di Palazzo Conti. Con la presenza in paese dei duchi i rapporti con gli abitanti, seppur difficili, rimanevano stretti, il trasloco a quattro chilometri dal paese invece venne percepito come un segno di disprezzo nei confronti dei polesi. Furono queste le
premesse che portarono al processo di metà '700, che risulterà però utilissimo
per far luce su questa porzione di storia della Catena.
Dopo i Conti di
Poli
La famiglia dei Conti di Poli si estinse nel 1808, con la
morte presso il Palazzo Poli a Roma, dell'ultimo discendente Michelangelo
Conti. Il ducato e la villa passarono per un breve periodo in eredità agli
Sforza Cesarini, che vendettero il tutto ai Torlonia nel 1820.
I nuovi duchi mantennero in buono stato la villa, inserendo
pure edifici minori per la conduzione del fondo. Ristrutturarono la fontana
delle Cinque Bocche e il Casino del Papa, che assunse il nome dei nuovi
signori.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la villa venne
requisita e divenne sede di un comando militare, con i problemi che si possono
immaginare, dovuti alla poca attenzione per un bene artistico.
Un ultimo florido periodo fu quello della proprietà De Laurentiis.
Il produttore cinematografico acquistò la villa
dopo la guerra, intorno agli anni '50.
La tenuta versava in un pessimo stato di conservazione, De Laurentiis, che acquistò la villa su richiesta della moglie, che se ne era innamorata dopo averla visitata, dichiarò di aver speso un occhio della testa per rimetterla a posto. La villa fu
completamente risistemata, non senza qualche intervento piuttosto invasivo e
criticabile. Soprattutto la Palazzina subì importanti modifiche interne per l'adeguamento degli ambienti alle mutate esigenze.
Furono modificati bagni e stanze, fu realizzata una sala di registrazione. Divenne in quegli anni luogo di numerose feste mondane, punto d'incontro per le star del cinema nostrano e d'oltreoceano, che venivano ospitate in una cornice suggestiva. Questo nuovo periodo di splendore della villa non durò molto, il De Laurentiis si trasferì negli Stati Uniti, e il complesso fu abbandonato alla mercé di sciacalli che la depredarono. La proprietà De Laurentiis ridiede alla Villa Catena una parte
della fama che aveva conosciuto in passato, comparendo pure in numerose
pellicole prodotte dal cineasta italiano, alle quali parteciparono come
comparse molti cittadini polesi.
Dopo il produttore, la villa passerà attraverso varie proprietà
che ebbero in comune solo il disinteresse per il bene artistico, attirati forse
solo dalla possibilità di ottenervi profitto. Il degrado caratterizzò per lunghi anni il complesso,
permettendone la progressiva spoliazione di tutto ciò che fosse possibile
staccare e magari vendere.
Quello che segue è storia nota e dei giorni nostri. Il
complesso è ancora sospeso. Si è in attesa, ma non si sa di cosa. L'attuale
proprietà non pare interessata al recupero e valorizzazione del bene e nessuno
degli organi competenti sembra volersi occupare della questione.
Il timore è quello di vedere sparire le vestigia
cinquecentesche di un altro bene artistico del nostro paese, senza che nessuno
o quasi, abbia cercato di fare qualcosa. Il rammarico e lo sdegno che verranno mostrati quando ormai non ci sarà più nulla da fare, saranno colpevoli
come e quanto coloro che hanno per anni cercato di sfruttare indiscriminatamente questo monumento, lasciandolo poi in abbandono. Sarà un'altra pessima figura
agli occhi del mondo, che ci considererà sempre meno degni del patrimonio
storico, artistico e ambientale di cui siamo detentori.
L'educazione all'arte in generale e al rispetto del
paesaggio sono tappe ineludibili verso la realizzazione di un paese civile che
possa definirsi tale. Episodi come quello della Villa Catena lasciano intendere quanto il percorso sia ancora lungo.
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