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C'era una volta Joseph Cornell nel Paese delle Meraviglie  
Eleonora Rovida
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 8 Giugno 2013, n. 681
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Il teatro dell’immaginazione

Joseph Cornell è un artista mago, creatore di piccoli assemblages dove le immagini si accostano secondo l’alchimia del ricordo. Gli oggetti banali trovati nella Manhattan dei rigattieri vengono accumulati nelle Shadow Boxes, composizioni mnemoniche che espongono l’incanto del quotidiano. «Le scatole di Cornell sono come i miscugli di uno stregone. Contengono oggetti che hanno proprietà sacre e magiche» [1] .

La poesia che crea le opere è una questione tutta personale dell’artista che, nel tentativo di avvicinarsi alla vita, raccoglie i frammenti della storia e li ricompone guidato solo dalle sue consonanze interiori. Cornell crea piccoli capolavori a tre dimensioni trasformando l’enigma degli accostamenti scioccanti in arte: la scatola parifica tutti gli elementi e apre il sipario sul teatro dell’assurdo.

Il mondo delle Shadow Boxes è fatto di oggetti reali riassemblati secondo le sensazioni dell’artista che diventa il direttore d’orchestra di una sinfonia illogica dove gli oggetti-note si incontrano in una danza: non è importante che una pipa si accosti ad una mappa della luna o che un bicchiere contenga un uovo. Tutti gli elementi seguono un’unica musica, il ricordo.

Posare lo sguardo su una delle scatole è un rapimento magico: il potere del vetro che riflette lo spettatore proietta la sua immagine all’interno della composizione rendendolo, con un inganno surreale, protagonista di quell’incanto. La scatola è uno scambio di “sguardi”: «non sorprende che dalle scatole volti infantili ci fissino fino a confonderci, e che abbiano l’aria sognante dei bambini intenti al gioco» [2] .

Il fascino del mondo in miniatura è un’esperienza d’infanzia: è la dimensione delle piccole cose, dei giochi dei bambini, di quelle case di bambola e di quei trenini che, per piccoli giocatori, sono gli oggetti che permettono di stimolare la fantasia, di creare storie fantastiche nelle quali immergersi e fingersi.

Il tema del gioco è un filone ben noto a Dada e Surrealismo, movimenti molto amati da Cornell: l’artista ha la possibilità di conoscere i maggiori esponenti delle due correnti grazie ad una serie di incontri casuali [3] alla Galleria di Julien Levy, tappa frequente nelle sue scorribande newyorkesi. La galleria diventa un punto d’incontro con gli artisti europei sbarcati a New York favorendo la diffusione del linguaggio dada e surrealista nell’arte americana a partire dagli anni Trenta.

Il potere del gioco rende ogni oggetto uno strumento magico capace di costruire un personalissimo “Paese delle Meraviglie”: 

«la piccola scatola ricorda l’infanzia
è forse per via della sua nostalgia
Che piccola piccola di nuovo si fa?

 e adesso lì dentro ci sta per intero
il mondo ridotto in miniatura
è facile metterlo dentro una tasca
Lo perdi lo rubi così facilmente» [4]
 

La poetica delle piccole cose è un’eredità storica che popola il tanto mondo vittoriano prediletto da Cornell quanto la cultura romantico-simbolista degli “straccivendoli” Baudelaire e Rimbaud. L’occhio del bambino-artista è il portale attraverso cui creare il mondo dell’arte fantasticando sul banale e sul dettaglio che, coperto dalla polvere magica del sogno, diventa un’esperienza surreale.

Gli oggetti quotidiani si tingono di una valenza speciale trasformandosi in mirabilia da cabinet de curiosités. Allo stesso modo le scatole di Cornell diventano Wunderkammern che espongono il quotidiano riqualificando l’oggetto come rarità preziosa.

Sono veri e propri teatri dell’immaginazione pervasi da un nostalgico sentimento dechirichiano: «nella mia infanzia i negozi di giocattoli vendevano ancora teatri di cartone in miniatura. Lo scenario, gli attori, i musicisti e il resto degli arredi erano stampati su fogli di carta colorata venduti a parte. Si dovevano ritagliare le figure, incollarle sul cartone, e poi farle muovere sul palcoscenico attraverso scanalature praticate nel pavimento. C’era anche un sipario rosso che si apriva e si chiudeva» [5] .

Il procedimento che assembla gli elementi e crea questi capolavori per sognatori è un’evoluzione del collage. Negli anni Trenta Cornell passa dalla seconda alla terza dimensione per una sua personalissima ricerca poetica che insegue il reale con gli occhi di un bambino, ma conserva il gusto del ritaglio come madeleine evocativa. L’artista è un cercatore del frammento che riveli la memoria: è sempre a caccia di immagini.

La scatola è il frutto della sperimentazione artistica di Cornell: è un metodo che riunisce il fascino del frammento del collage (e del found footage cinematografico) alla forma della realtà e il gusto del vittoriano alla dimensione del sogno. La Shadow Box, infatti, sembra un’evoluzione dei teatrini ottocenteschi: «ho letto che Goethe, Hans Christian Andersen e Lewis Carroll dirigevano i loro teatri in miniatura. Devono esserci stati molti teatrini di questo tipo nel mondo. Studiamo la storia e la letteratura di un’epoca, ma non sappiamo nulla di quei drammi che venivano rappresentati per un pubblico fatto di un solo spettatore» [6] .

La versione personale ed intima di questi piccoli palcoscenici risponde al culto vernacolare di Cornell che impara ad apprezzarne il fascino dai collages di Max Ernst, vera fonte di ispirazione per i suoi primi passi nell’arte.

Il mondo vittoriano sembra essere il serbatoio ideale per le composizioni cornelliane: il gusto per l’accumulo, gli oggetti, le chincaglierie filtrate dalla nostalgia del passato e le cartes-de-visite, come souvenirs visivi di Paesi lontani, sono protagonisti delle sue composizioni.

 

 

La favola vittoriana

I creatori dei teatri in miniatura nell’epoca vittoriana sono scrittori di favole. Il racconto per bambini (di tutte le età) con toni semplici e giocosi, capaci di stimolare la fantasia, è una delle grandi passioni di Cornell. Non è raro trovare ritagli dei personaggi o richiami al mondo favolistico nelle sue composizioni: basti vedere il celebre Swiss Shoot- the- Chutes (1941) dove compare Cappuccetto Rosso con il lupo o Setting for a fairy tale (1942), teatrino ideale per ambientare i Nouveaux Contes des Fées (1948), una specie di archivio del sogno che custodisce i nuovi racconti delle fate.

Cornell è molto affascinato da quell’universo immaginario in cui tutto è possibile tanto da realizzare uno scenario per il Theatre of Christian Andersen [7] : l'opera è pensata come raccolta di illustrazioni tratte dai racconti del favolista. La passione dell’artista per la rappresentazione scenica rende l’opera un omaggio teatrale: lo scenario, infatti, è concepito come un balletto che si snoda attraverso piccoli teatri in miniatura.

Le immagini in sequenza tradiscono il filone filmico che è alla base della composizione: «The images are mounted in identical frames, or theatres, resembling Andersen’s original paper cutouts, reproduced throughout the issue of the magazine» [8] . Il gusto per il frammento esprime la passione cinematografica dell’artista che realizza con gli scenari prototipi di film creati dalla mente. Opere come questa o come Monsieur Phot, cioè, sono pensate per essere immaginate più che realizzate proprio per l’anima che le crea: sono trasposizioni del sogno chiaramente influenzate dalla filmografia francese di Méliès. Le typed pages funzionano proprio come le cartes-de-visite: aprono il sipario sul mondo dei sognatori.

Se il culto del vittoriano e la passione per la favola animano i magici teatrini di Cornell è possibile che l’artista sia stato influenzato da qualche scrittore ottocentesco: nell’arte del timido “cacciatore di immagini” si nascondono elementi che rimandano alla favola vittoriana.

Il più conosciuto tra i favolisti dell’epoca ottocentesca è Lewis Carroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, autore di opere per bambini di tutte le età. I suoi scritti hanno influenzato intere generazioni di artisti grazie ai tratti innovativi e psicologici delle sue idee: Carroll è l’ispiratore di pensatori come James Joyce e Jorge Louis Borges.

La componente fantastica delle sue opere si mischia alle associazioni scioccanti delle immagini in un nonsense che è già presurrealista fatto di giochi di parole e indovinelli che irretiscono il lettore.

Le avventure di Alice circolano come immagini grazie alle illustrazioni di John Tenniel: sono piccoli capolavori della grafica ottocentesca che presentano i personaggi bizzarri della favola e rispondono a quel vernacolare tanto amato da Ernst. Gli abitanti del Paese delle Meraviglie sono veri mirabilia creati dal genio di Carroll: i personaggi non hanno nulla da invidiare alle invenzioni surreali di Une semaine de bonté.

Nel 1933 Tony Goldschmidt pubblica un'analisi psicologica della favola di Alice come metafora sessuale: «The fall down the rabbit hole was a symbol of sexual penetration, the doors surrounding the hallway represented female genitalia. In selecting the little door in preference to the big, Alice (or rather Dodgson in the guise of Alice), was choosing to copulate with a female child instead of an adult woman» [9] .

Sono temi che si avvicinano molto agli interessi dei Surrealisti: tra gli anni Quaranta e Sessanta la favola di Alice diventa protagonista proprio delle loro opere. Breton, che per primo aveva apprezzato Carroll inserendolo nell’Antologie de l’humor noir del 1939, realizza con i Surrealisti presenti a Marsiglia una serie di carte magiche: è la cartomanzia dell'opera The game of Marseille (1940-1941) dove Alice rappresenta la Siren of Stars: il gruppo Stars è di colore nero e identifica i sogni. Anche Ernst, nel 1949, si appassiona alle avventure di Alice creando una serie di litografie che illustrano gli episodi del testo. Lo stesso Dalì, negli anni Sessanta, si cimenta in un gruppo di illustrazioni per la favola di Carroll.

Il mito carrolliano cresce soprattutto tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento grazie alle versioni cinematografiche del racconto. Dopo i primi esperimenti del cinema muto [10] , come perfetta realizzazione del sogno di Wonderland, gli anni Trenta vedono un intensificasi della produzione di film ispirati ad Alice fino alla più conosciuta versione Disney del 1951.

L'attenzione allo scrittore vittoriano viene amplificata dalla scoperta di Helmut Gernsheim del 1949: nel corso delle sue ricerche su Julia Margaret Cameron, trova un album con centoquindici fotografie di un dilettante vittoriano, Lewis Carroll, svelando i segretissimi scatti dello scrittore.

I presupposti per la conoscenza del mondo di Carroll da parte di Cornell esistono e sembrano trovare conferma in un paio di scatole realizzate negli anni Quaranta: A Pantry Ballet (for Jacques Offenbach) del 1942, dedicato al padre dell’operetta, e Zizi Jean Marie Lobster Ballet Box del 1949, omaggio alla ballerina. Entrambe le scatole sono una celebrazione del balletto, ma attraverso personaggi del tutto inediti: le aragoste. La danza o meglio “la quadriglia dell’aragosta” è una poesia-canto di Alice’s Adventures in Wonderland. Cornell conosceva sicuramente la Lobster Quadrille perché compare nel Dance Index [11] del 1946.

L’aragosta naturalmente riporta alla mente Gérard de Nerval [12] , poeta amatissimo da Cornell, e il telefono di Dalì, ma la scelta di inscenare la danza con questi personaggi è una citazione diretta. La conferma dell'influenza del favolista sull'artista è data da Robert Wernick [13] in un articolo sullo Smithsonian Magazine del 1980: «A Cornell box can be quite light-hearted. Witness A Poetry Ballet (for Jacques Offenbach) in which the composer of the cancan melodies of Orpheus in the Underworld is celebrated by a lobster quadrille inspired by Alice in Wonderland: plastic lobsters with bead necklaces and tulle skirts hanging from strings beneath a miscellany of spoons and forks» [14] .

Le opere di Dodgson appartengono a quello sconfinato serbatoio di idee a cui attinge il “cacciatore di immagini”. Credo che Cornell abbia ereditato molti elementi dall'arte carrolliana.

 

 

Alice’s Adventures in Wonderland (1865)

La favola più conosciuta del mondo anglosassone è un viaggio nell’immaginazione nato dalla curiosità di Alice che, per inseguire il Bianconiglio, precipita sottoterra e si trova in un percorso fantastico alla Shoot-the-Chutes: la protagonista scivola come per incanto in una slot machine onirica. Il Paese delle Meraviglie è la versione infantile del mondo vittoriano: è visto attraverso gli occhi della protagonista che, con la fantasia di bimba, crea un suo mondo ideale.

Gli incontri di Alice si susseguono come immagini illuminate in un percorso spezzato: gli episodi vengono presentati come frammenti di una vecchia pellicola cinematografica. Le scene, cioè, sono gli elementi che compongono l’avventura come se fossero parti di un sogno: ogni incontro-episodio è un teatrino dell’immaginazione.

Tutta colpa del Bianconiglio che stimola la curiosità della bambina che, per inseguirlo, si trova in mezzo a creature da favola che mettono a dura prova la sua raffinatissima educazione vittoriana. La figura del coniglio, identificata come un alter ego adulto di Alice, è la chiave del viaggio, il navigatore che traccia il percorso da seguire.

Il tema dell'inseguimento ricorda L’uomo della folla di Edgar Allan Poe di cui Cornell sembra essere la personificazione perfetta.  Il bianco è il simbolo della rivelazione: il sogno è il mezzo per la vera conoscenza.

Sarà un caso ma Robert, il fratello di Cornell, è un appassionato di conigli. L’archivista visionario realizza Untitled (American Rabbit) tra il 1945-46: al centro della composizione c’è proprio un coniglietto. Nei ritratti di Cornell scattati intorno al 1970 da Duane Michals a Utopia Parkway, il “cacciatore di immagini” mostra orgoglioso un gruppo di conigli da giardino [15] .

Un collage di Cornell degli anni Sessanta, Untitled (Rabbit), rappresenta un coniglietto in mezzo a due braccia chiaramente regali in un giardino di rose: ci sono tutti gli elementi per associare quest'opera al coniglio della favola di Alice, l'araldo della Regina di Cuori.

Il Bianconiglio della favola di Alice è celebre per il suo “Ė tardi! Ė tardi!”, espressione quanto mai assurda in un mondo in cui il tempo non conta, si festeggiano non-compleanni e si parla secondo il nonsense. La consequenzialità è un miraggio e il tempo è un orologio sonnecchiante e deformato proprio come nelle opere dei Surrealisti.

L’inseguimento del Bianconiglio, che corre contro l’orologio che ticchetta, guida Alice in una corsa frenetica che la porta ad imbattersi nel Bruco o Brucaliffo: il colore che lo contraddistingue è il blu che echeggia di immaterialità, simbolo di un percorso infinito. Il bruco, in inglese, si traduce come Caterpillar: questo termine è il titolo di un cortometraggio del 1973 di Rudy Buckhardt, fotografo e cineasta che ha collaborato con Cornell.

L’indifferenza del Brucaliffo è quella dei dotti: il bruco siede sul suo fungo mentre fuma il narghilè. Ė strano, ma nelle opere surrealiste, da Magritte a Cornell, ci sono tante pipe: dal celebre Ce n’est pas une pipe al Soap Bubble Set, senza dimenticare l’illustrazione di Cornell per il frontespizio del catalogo del 1932, dedicato alla prima esposizione surrealista alla Julien Levy Gallery di New York. “Narghilè”, in inglese, ha varie traduzioni, ma una di queste richiama proprio le bolle: Hubble Bubble.

Il Bruco diventa farfalla e, nell'arte del “cacciatore di immagini”, non mancano riferimenti a questo splendido insetto: è un ephemera che popola i Butterfly Habitats cornelliani.

Come in ogni viaggio non può mancare una sosta dissetante: la Lepre Marzolina (o Leprotto Bisestile) e il Cappellaio Matto invitano Alice a prendere un tè. Lo stesso Cornell, che vive praticamente di tè e dolci, non avrebbe potuto rifiutare l’invito davanti ad una Stainless Steel Pot. La teiera è protagonista di un collage cornelliano dal titolo Teapot: sulla teiera si vede una bambina che gioca.

Duane Michals, fotografo molto vicino ai Surrealisti, ritrae Magritte con strane sovrapposizioni tra la sua figura e il cappello: non sarebbe strano pensare all’artista come ad un “Cappellaio Matto”! Il cilindro, inoltre, è uno degli oggetti più cari ai maghi e agli illusionisti: viene usato come contenitore magico da cui estrarre proprio un coniglio bianco.

L’illusionismo è una delle grandi passioni di Cornell che, affascinato da Houdini, è sempre stato rapito dai trucchi magici. La magia ha stregato anche Michals: nel suo celebre Dr. Duanus' Famous Magic Act ritrae se stesso mentre estrae dal cilindro la testa di un ragazzo. C'è una somiglianza fonetica tra l'atto magico (act) e il cappello (hat) e Michals, nei giochi linguistici, è un mago.

Per i Surrealisti il trucco illusionistico per eccellenza è dato dal vetro, capace di riflettere le immagini grazie alla sua somiglianza con lo specchio. Nelle opere di Cornell il fascino per gli specchi emerge in quasi tutte le sue scatole che, racchiuse da un vetro ingannevole, hanno il potere di riflettere lo spettatore.

Nella favola di Alice il potere deformante è sempre attribuito al vetro: l’inganno è proprio all’interno di una boccetta o di una scatola trasparente. Nel racconto, infatti, Alice ha bisogno di adattare di volta in volta le sue dimensioni alle situazioni: così beve da boccette che la invitano con bigliettini come “drink me!” o dalle scatole (sempre in vetro) con biscotti che chiedono solo “eat me!”.

Sarebbe bello poter mettere delle etichette anche alle boccette della Pharmacy di Cornell!

Il contenuto è la pozione magica che cambia la forma di Alice: è un trucco da stregoni. La bambina passa così dagli otto centimetri, che reputa una misura ridicola, ad essere un gigante rispetto alle guardie della Regina di Cuori: finalmente può trattare quei personaggi per la dimensione che hanno. Sono solo un mazzo di carte animate che Alice, dopo il ritorno alla statura normale, rivede come oggetti del gioco. Sarà casuale, ma Cornell crea per il fratello Robert Hanky Panky Card Tricks: «In it the royal cards come to life: the Jack performs acrobatics, the King and the Queen dance» [16] .

Tutti i personaggi nella favola di Alice sembrano sogni-illusioni, ma il principe di questa sensazione impalpabile è lo Stregatto o Gatto del Cheshire, un gatto magico che compare, scompare e riappare continuamente. Nelle illustrazioni di Tenniel è rappresentato con un ghigno inquietante: spesso, infatti, lo Stregatto è tradotto come Ghignagatto. Carroll si è ispirato al gatto che compare sulle confezioni ottocentesche del formaggio. La smorfia ironica del personaggio è una metafora della follia-fantasia inafferrabile di Alice, la vera creatrice di Wonderland: «The Cat is the only creature to make explicit the identification between Alice and the madness of Wonderland» [17] .

La natura vaporosa del personaggio richiama l'inganno visivo fotografico: rappresenta l'immagine che appare sulle lastre fotografiche, ma anche l'effetto impalpabile e romantico del calotipo, diffusissimo in ambito anglosassone.

Cornell, in un collage del 1967 alla Galleria Castelli, mostra un gatto bianco in un'atmosfera flou: l'opera si intitola The Sylph. Il silfo, nella mitologia nordica, è una specie di genietto che vive nell'aria e ha il potere di causare l'infermità. Anche i cabalisti usano questo termine per indicare i geni dell'aria. Al femminile queste creature sono le silfidi, spiriti del vento. La Sylphide è la prima opera in balletto sulle punte in scena all'Opéra di Parigi nel 1832. La ballerina è Maria Taglioni, diva amatissima da Cornell proprio come Fanny Cerrito che interpreta la Sylphide nella versione italiana.

 

 

Through the looking-glass and What Alice Found There (1871)

L’avventura di Alice prosegue attraverso lo specchio magico, un mondo parallelo, ma rovesciato rispetto alla realtà dove tutto è come non è o come non dovrebbe essere.

Il riflesso del quotidiano al rovescio causa non pochi problemi al lettore e alla stessa Alice: nemmeno lei riesce a leggere, a pensare e ad orientarsi in questa logica stravolta. Ė un gioco ancora più complicato del primo viaggio perché tutto funziona al contrario: la memoria non si volge al passato, ma al futuro in un’intricata rete di nonsense.

Il potere dello specchio è proprio l’illusione: «l’illusionismo è una tecnica che usa le immagini per ingannare. Pone il problema se la percezione possa darci una conoscenza veritiera e diretta del mondo. Gli psicologi hanno ideato una ‘stanza distorta’ in cui un adulto sembra avere le dimensioni di un bambino. Altri esempi sono il labirinto degli specchi al Luna Park e i giochi di destrezza dei prestigiatori» [18] .

Lo sfondo del racconto è un vero rompicapo: si tratta di una scacchiera dove le pedine prendono vita. In questa partita bisogna correre per rimanere nello stesso punto e raddoppiare la velocità per spostarsi. Le regole fanno capire da subito che quella scacchiera non ha proprio niente di ordinato e logico: è una confusione surreale.

Anche Carroll capisce che il lettore si trova in seria difficoltà e sistema un prefazione dell’autore all’inizio del libro: Alice muove e vince in undici mosse, ma la partita è molto più complicata di quello che sembra.

Certo il gioco degli scacchi richiede grande attenzione: lo sanno bene nel Dada e nel Surrealismo! «Come chiunque tenti di risolvere questi problemi, la chiave di tutto è la prima mossa, che di norma è una mossa improbabile» [19] . Ma spesso l’esercizio strategico è più importante del risultato finale: «Ogni tanto la necessità di trovare una soluzione era rimpiazzata dalla poesia del mio continuo fallimento. Ogniqualvolta chiudevo gli occhi, la regina bianca rimaneva là dove si trovava, nella casella nera, e così gli altri pezzi nelle loro posizioni originali, eternamente» [20] .

Se nel primo racconto Alice si trova in mezzo ad un mazzo di carte al servizio della Regina di Cuori, in questa seconda avventura la protagonista diventa la pedina di un gioco di scacchi. Il passaggio dal mondo bidimensionale a quello a tre dimensioni avvalora l’inganno proprio come succede nell’arte di Cornell quando passa dal collage alle Shadow Boxes.

La scacchiera-sfondo del viaggio è una metafora della realtà: lo si capisce da subito, dai due gattini che simboleggiano la Regina Bianca e La Regina Nera. Nelle opere di Cornell c’è la stessa corrispondenza: la sua scacchiera è la città, serbatoio creativo per la sua arte. «La città come una scacchiera sulla quale i pochi pezzi rimasti sono immobili e senza nome» [21] .

La scatola è lo specchio della scelta di oggetti trovati nella città di New York: la selezione degli elementi e il loro posizionamento all’interno dello spazio è frutto di una meditazione precisa da parte dell’artista. «Altre volte Cornell solleva l’oggetto, come si farebbe con un pezzo degli scacchi, e rimane a lungo immobile, perso in riflessioni complicate. Molte delle scatole mi fanno pensare a problemi scacchistici in cui rimangono in gioco non più di sei o sette pezzi» [22] .

C'è un collage di Cornell del 1965, What makes a Rainbow, dedicato a Jeanne Eagels dove una bambina gioca con le carte e una scacchiera, due chiari richiami ad Alice. Il gioco ha una sua logica: così come le avventure di Alice. Il mondo dello specchio ha regole proprie e un linguaggio che risponde al funzionamento di quel mondo. Il nonsense delle immagini segue quello della linguistico: il mondo rovesciato sconvolge il significato della lingua tradizionale trovandone uno personalissimo.

Il ritmo e il suono sono ingannevoli: Alice legge perplessa i versi del Jabberwocky tenendo il libro davanti allo specchio per vedere nel verso giusto lo scritto al contrario. Il suono le suggerisce qualcosa di familiare per la sua memoria, ma non riesce a decifrarlo. Ė il codice del sogno, del mondo attraverso lo specchio, ma anche dell’arte di Cornell che crea con mezzi tradizionali opere antitradizionali sulla scia della Metafisica di De Chirico, del gioco del Dada e del trucco surrealista.

Anche la parola, quindi, è parte del gioco e segue regole proprie. La personificazione di tutta questa assurdità è Humpy Dumpty, un uovo che parla per indovinelli convinto della sua logica: è il padrone del linguaggio perché ogni parola che pronuncia assume il significato che gli dona. Questa figura incontrata da Alice è la chiave di lettura di tutta l’opera di Carroll: «la parola è quello che io voglio farla significare, né più né meno» [23] .

Nell’arte di Cornell la logica è data dalle consonanze interiori dell’artista che, secondo le sue regole, assembla le immagini in modo personalissimo: l’artista è l’Humpty Dumpty della sua creazione. La forma singolare del personaggio ricorda tante opere surrealiste: l’uovo compare spesso nelle creazioni di Cornell, ma anche nell’arte di Magritte. Il suo significato storico è legato alla vita, alla fertilità, alla resurrezione, un concetto che si sposa con l’arte dove l’uovo rappresenta il recipiente del processo alchemico.

Humpty Dumpty è l’unico ad avere la chiave (o meglio la soluzione) del mondo del nonsense di Carroll: è l’unico possibile traduttore del Jabberwocky. La filastrocca non resta una manciata di righe isolate, ma diventa fonte di ispirazione per un breve testo di Carroll, The Hunting of a Snark, pubblicato nel 1876. La caccia allo snark, fusione di shark (squalo) e snake (serpente), è un’avventura alla ricerca di un monstrum che è, allo stesso tempo, doppio e inafferrabile: è il non- rappresentabile che attraversa l’esistenza, linfa perfetta per il Surrealismo. Cornell sarebbe il capitano ideale di quella truppa di cacciatori-marinai che navigano nell’allucinazione, nel miraggio di un sogno che percorre la vita.

 

 

L’altra faccia dello specchio

Attraverso lo specchio o quel che Alice vi trovò è un’opera rivelatrice, un testo aperto alle più svariate interpretazioni grazie alle chiavi di accesso, seppur enigmatiche, lasciate dall’autore. L’opera, cioè, è una porta per entrare nel vero mondo di Carroll: la sua realtà interiore vissuta attraverso gli occhi del sogno. Lo specchio è il ponte che unisce due universi, Dodgson del mondo vittoriano con le sue regole e le sue ipocrisie e Carroll, saltimbanco nel suo Paese delle Meraviglie.

Lo specchio come metafora del doppio non allude solo al bisogno onirico dell’autore, ma alla sua realtà dietro uno vetro molto speciale: l’obiettivo. Dodgson non è solo un docente, un matematico e uno scrittore: è anche un fotografo. Più che una professione, la fotografia è una passione: affascinato dal miracolo moderno, Dodgson vede nella macchina un oggetto misterioso e seducente, capace di irretire e di liberare il suo personalissimo mondo interiore. Nel 1858 compone The Legend of Scotland, un divertissement in inglese medievale: Carroll finge di riferire un’antica leggenda scozzese del 1325 raccontando di una macchina meravigliosa, Chimera, con la quale “molte immagini vengono prese”. Chimera naturalmente rappresenta la macchina fotografica che, alla fine dell’Ottocento, è vista ancora come qualcosa di magico. Chimera e camera (macchina fotografica) in inglese si pronunciano nello stesso modo.

L’obiettivo, quindi, è identificabile con lo specchio di Alice, proprio per la sua capacità di diventare il filtro attraverso cui esprimere una realtà distorta, ma fortemente sentita e immaginata. L’inganno dell’obiettivo è uno strumento magico per esprimere il bisogno di gioco.

L’affinità strettissima tra il sogno e la fotografia nell’arte di Carroll è oggetto di uno scritto di Bressaï del 1970, Lewis Carroll o l’altra faccia dello specchio [24]. Bressaï sottolinea la corrispondenza tra i due mondi come naturalissima: «una grande affinità del resto legava il suo universo, popolato di trabocchetti, di giochi di specchi, di magiche trasformazioni, a quello della fotografia» [25] .

La macchina fotografica sembra essere il mezzo ideale per dar vita alla fantasia del fotografo: «Carroll si trovava perfettamente a suo agio nello spazio irreale della camera oscura, dove i raggi luminosi, fissandosi, ricreano le apparenze fuggevoli e impalpabili della realtà. Rivelare le immagini latenti, captarle, fissarle per sempre e materializzarle» [26] .

La macchina diventa la Chimera per dipingere il sogno, dargli forma, assemblarlo estrapolandolo dal  suo contesto e donandogli una nuova vita proprio come avviene nell’arte di Cornell: «La morte del soggetto, la sua resurrezione al di là del reale, l’arresto del tempo, la presenza di ciò che è presente, tutti questi paradossi Carroll li ha vissuti un’infinità di volte dietro il suo obiettivo» [27] .

Lo specchio come l’obiettivo non è solo un passaggio per il mondo in cui tutto è possibile, ma anche la barriera che definisce il reale. L’autore-fotografo si trova a guardare nello specchio-obiettivo per oltrepassare, con l’occhio della mente, la vita con le sue regole e le sue restrizioni. La sua posizione è quella del voyeur che ben si sposa con l’idea stessa della fotografia: «Noi fotografi siamo una genia di bricconi, di guardoni e di ladri. Ci troviamo ovunque non siamo desiderati; tradiamo segreti che nessuno ci confida; spiamo senza vergogna ciò che non ci riguarda e ci appropriamo di cose che non ci appartengono. E, a lungo andare, ci ritroviamo possessori delle ricchezze di un mondo che abbiamo depredato» [28] .

Il mondo della fotografia è, per Dodgson, la camera di compensazione della sua vita, frustrata dalle regole del mondo vittoriano che gli impedisce di vivere in piena libertà quel sogno. Attraverso l’obiettivo-specchio Dodgson conquista il suo spazio, dà forma alle sue passioni, genera il suo mondo ideale, popolato dall’immaginazione che tutto crea e plasma.

 

 

Matto per le bambine [29]

Il mondo sognato da Carroll è senza tempo e senza restrizioni: il suo desiderio di vivere a contatto con i bambini è realtà nella sua fantasia. Il suo rapporto con le bambine è speciale e denota una grande avversione per il tempo, per l’età adulta. L’attimo è l’eternità del gioco in un labirinto infinito dove i trabocchetti sono il percorso dell’immaginazione.

Carroll aveva una predilezione per il mondo di quelle piccole fatine, protagoniste del sogno come dei suoi scatti. Le fotografie di Carroll portano alla luce molta della sua fantasia: le bambine, abbigliate di foglie e vestiti leggeri, sembrano ninfe dei boschi, compagne di pomeriggi passati a fantasticare, a raccontarsi storie e indovinelli. Ė difficile non pensare a Nymphlight di Cornell.

Il sogno di Carroll è difficile da realizzare nel mondo vittoriano: lo sguardo sospettoso dei suoi contemporanei e le perplessità della critica hanno distolto dalla freschezza del desiderio di circondarsi di bambini. Il Romanticismo che esalta il potere sognante degli occhi d’infanzia emerge nell’arte di Carroll, come in quella di Cornell, ma è un’eredità di cristiana memoria.

Anche Cornell aveva un grande amore per i bambini, ideali destinatari della sua arte: tutte le sue creazioni surreali sono un’evoluzione dei primi giocattoli per il fratello Robert. Nelle lettere conservate nell’archivio della Smithsonian Institution non mancano pagine di Children Correspondence. Lo sguardo di Cornell non esita a posarsi sui bambini, creature dotate di un’immaginazione molto simile alla sua, capaci di fantasticare a partire dagli oggetti banali perché tutto è gioco come nella più perfetta tradizione surrealista.

L’occhio di Cornell indaga la natura dell’infanzia e la meraviglia dei bambini: basti guardare la trilogia dei Found Footages montati da Larry Jordan negli anni Sessanta. Cotillion, The Midnight Party e The Children Party si compongono di fotogrammi popolati dalle figure dei bambini attraversati da un profondo sentimento nostalgico: «the trilogy celebrates the ephemerality of variety performances (acrobats, children, seales, and knife-throwers, etc., etc.), and the filming of live performance confronts what Doane Calls the problematic question of representability of the ephemeral, of the archiviability of presence» [30] . Sono gli stessi temi contenuti nel Dance Index.

La lettura corre tra i significati di presenza e assenza proprio come nelle scatole: «In this reading, part of the frisson produced by the films would be ‘the disjunctive of a presence relieved, a presence haunted by historicity’ that is the pathos of archival desire» [31] .

L’obiettivo, la cinepresa o il fotogramma catturano sempre un’immagine vista con sguardo sognante e voyeuristico tanto per Cornell quanto per Carroll, sublimazione di quell’occhio della mente che li contraddistingue e portale in cui liberare l’immaginazione.

«L’intera vita amorosa di Lewis Carroll fu mediata dalla fotografia, passò attraverso di essa. Era il suo paese delle meraviglie, l’altra faccia dello specchio» [32] .

 

L’arte della fotografia: scrigno di un segreto

Lewis Carroll è autore di una serie di scritti sulla fotografia. Uno in particolare può essere letto come la sua autobiografia fotografica, ovvero come insieme di quelle avventure e sensazioni nel trovarsi a guardare attraverso lo specchio o meglio l’obiettivo. Nel 1857 termina la realizzazione di The Legend of Hiawatha: «Ispirandosi all’eroe indiano della Song of Hiawatha (1855), del poeta romantico Longfellow, trasforma il protagonista in un fotografo, ossia in un suo alter ego» [33] .

L’idea di identificare il protagonista con un fotografo avvicina lo scritto alla sua realtà, quella di un artista affascinato da una scatola dai poteri magici, portale alchemico per la fantasia. Ogni singolo movimento che aziona gli ingranaggi è la tappa di un rituale che sa di stregoneria. Il fascino della fotografia è un’illusione reale, un gioco di sguardi, riflesso di un incanto che, prima, poteva solo essere pensato.

Anche Cornell, avvicinandosi alla cinematografia, si identifica con un fotografo: l’artista realizza l’inganno e la sua identificazione con Monsieur Phot, un fotografo che ha una percezione molto simile a quella di una macchina fotografica. Si tratta di una serie di typed pages, ideate per essere visualizzate attraverso lo stereoscopio. L'obiettivo-sguardo del fotografo cade casualmente su un gruppo di bambini che giocano per strada: uno di loro ricorda il fratello di Cornell, Robert. Non è un caso che, nella lingua inglese occhio e obiettivo si traducano con eye, filtro fantastico per l'indagine onirica.

La fotografia è un’operazione magica proprio come per Carroll: «gli obiettivi sempre più sofisticati, le pellicole sempre più sensibili, gli infiniti progressi tecnici non riescono a demistificare un atto che, dopo oltre un secolo, continua a sembrare una stregoneria. Pose interminabili, forzata immobilità, silenzio e respiro sospeso… fanno parte di un rituale quasi religioso e il fotografo, che estrae a profusione immagini dalla sua scatola misteriosa, pare un alchimista, un mago» [34] .

Ecco di nuovo Cornell mago, creatore di mirabilia d’incanto come readymades d’arte.

Con estrema semplicità dovuta alla fantasia infantile Cornell rende magico l’oggetto trovato: sollevando una roccia a Central Park riesce a mostrarci una fatina che, in proporzione, dovrebbe essere alta circa otto centimetri. E se quella fatina fosse Alice? Sarà un caso, ma, prima di trovare il titolo adatto per il suo capolavoro, Carroll aveva dato diversi nomi alla sua favola: tra questi c’è anche Alice tra le fate.

Nel parco newyorkese c'è proprio una statua dedicata ad Alice: Central Park è uno dei posti più frequentati da Cornell e quella statua è oggetto di un'opera di Yayoi Kusama, Alice in Wonderland Happening del 1968.

L'artista ha avuto una relazione proprio con il “cacciatore di immagini”.

Forse non è così strano pensare a Cornell come ad un Carroll novecentesco. Anche Robert Delford Brown, ricordando Cornell in un’intervista con Mark Bloch, ha avuto la stessa idea: «He was like the guy who wrote Alice in Wonderland» [35] .






Bibliografia

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NOTE

[1] C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph Cornell (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore  di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005², p. 75

[2] Ivi, p. 74

[3] R. COHEN, A Chance Meeting: Intertwined Lives of American Writers and Artists, 1854-1967 (tr. it. a cura di S.    Manferlotti, Un incontro casuale. Le vite intrecciate di scrittori e artisti americani, 1845-1967), Milano 2006.

[4] V. POPA, La piccola scatola cit. SIMIC 2005, p. 71

[5] SIMIC 2005, p. 85

[6] Ivi, p. 84

[7] Pubblicato nel 1945 in due pagine su Dance Index, ma scritto negli anni Trenta quasi contemporaneamente a Monsieur  Phot.

[8] P. ADAMS SITNEY, The cinematic gaze of Joseph Cornell, in  “Joseph Cornell”, Catalogo della mostra a cura di K.    McShine, Museum of Modern Art 1980, New York, 1996², p. 72.

[9] A. M. E. GOLDSCHMIDT, Alice in Wonderland Psychoanalyzed, “The New Oxford Outlook”, edited by Richard    Crossman, Gilbert Highet, and Derek Kahn. Basil Blackwell, 1933.

[10] Le precedenti prime cinematografiche della favola di Alice sono film muti:  C. Hepworth e P. Stow, Alice in  Wonderland (1903);  E. S. Porter, Alice's Adventures in Wonderland (1910); W. W. Young, Alice in Wonderland  (1915)

[11] Smithsonian Institution Archives, Joseph Cornell Papers: Source Material, Subject Source Files. Publishing         Projects, Dance Index, 1946. (Box 17, Folder 23) foglio 59.

[12] Era noto per girovagare per Parigi con un'aragosta al guinzaglio.

[13] R. Wernick ha scritto per Life, Harper's Bazaar, The Saturday Evening Post, The Kenyon Review, Readers' Digest,   Connoisseur, Vanity Fair, Smithsonian, Encounter, Sports Illustrated, The Times of Malta, Cahiers d'Hermeutique    postmoderne, The New Republic.

[14] R. WERNICK, The Lightfoot Boxer,  “Smithsonian Magazine”, New York 1980

[15] D. ASHTON, A Joseph Cornell Album, New York 1974, p. 46.

[16] Joseph Cornell 1996², p. 72

[17] N. AUERBACH, Alice in Wonderland: A Curious Child, in “Romantic Imprisonement”, New York 1986, p. 140

[18] SIMIC 2005, p. 69-70

[19] SIMIC 2005, pp. 77-78

[20] Ivi, p. 78

[21] Ivi, p. 113

[22] Ivi, p. 77

[23] Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio Magico, a cura di S. Vinci, Roma 2009, p.    221

[24] Bressaï, Lewis Carroll Photographe ou L’autre côté du miroir,  (trad ita. a cura di R. Rizzo, Lewis Carroll fotografo    o l'altra faccia dello specchio), in R. RIZZO,Lewis Carroll fotografo”, Milano 2009, p. 24.

[25] Ibidem

[26] Ibidem

[27] Ibidem

[28] Ibidem

[29] Lewis Carroll. Matto per le bambine. Lettere e ritratti, a cura di C. Muschio, Viterbo 2001

[30] J. NIELAND, Feeling Modern: The Eccentricities of Public Life, Champaign (IL), 2008, p. 182

[31] Ibidem

[32] Lewis Carroll fotografo 2009, p. 24

[33] Ivi, p. 12

[34] Ivi, p. 13

[35] M. BLOC, Interview with Robert Delford Brown, Whitehot Magazine, New York, Vol. 31, Num. I, Marzo 2008, <http://www.umbrellaeditions.com/issue.php?page=110&issue=10>






 

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