Delle attenzioni riservate allambiente romano da parte del cardinale Marco Barbo, lontano parente di Paolo II, si è già avuto modo di parlare[1], come anche degli ipotetici, ma verosimili, collegamenti dello stesso con lambiente prenestino.
Il cardinale infatti dal 1478 diviene vescovo della diocesi di Palestrina e negli anni successivi risiedette molto spesso proprio nella città. Lo testimoniano le numerose lettere rinvenute nel Codice Vaticano Latino 5641, conservato nella Biblioteca Vaticana, molte delle quali sono spedite proprio da Palestrina.
Questo aveva fatto già credere alla scrivente che vi fossero dei quasi certi, ma purtroppo ancora non documentati, collegamenti fra il cardinale Barbo e la famiglia Colonna, signori di Palestrina.
Come ulteriore prova, oltre quella della stessa residenza, vi erano una serie di conoscenze in comune fra il Barbo e i Colonna, come, ad esempio, il futuro papa Pio III, Francesco Tedeschini Piccolomini, che nel 1502 aveva acquistato il gruppo marmoreo delle Tre Grazie, ora nella Libreria Piccolomini, di proprietà almeno fino al 1489 della famiglia Colonna.
Questa presunta conoscenza del cardinal Barbo con la famiglia Colonna diviene ancora più interessante se la si inserisce allinterno di una questione a dir poco spinosa, quella della paternità dellHypnerotomachia Poliphili.
Non andando troppo a fondo nelle polemiche che da sempre hanno avvolto questo testo, la scrivente si inserisce in quel filone di pensiero, inaugurato da Calvesi[2], che riconosce ottime prove per identificare Francesco Colonna romano come lautore del Polifilo.
Se si presuppone che il Francesco Colonna del Polifilo sia quello romano, sappiamo che la sua formazione e la sua crescita politica e culturale avvenne a Palestrina e intorno allambiente romano, nonchè molto vicino ai Barbo. Sappiamo infatti, da una lettera messa in luce da Stefano Colonna[3], che Paolo II Barbo nel 1470 inviò 100 ducati a Stefano Colonna ˂˂ ad emendum libros pro filio suo ˃˃, presumibilmente proprio Francesco Colonna.
Questo renderebbe gli ipotetici legami fra il cardinal Barbo e la famiglia Colonna, in particolare con Francesco, ancora più plausibili.
Negli anni, i vari studi intorno a Francesco Colonna romano e alla sua sempre più supponibile paternità dellopera, hanno portato alla luce collegamenti anche con istituzioni che sembrerebbero lontane dalla figura del Colonna.
Vi è nel testo un significativo riferimento, molto raro nelle opere contemporanee, al personaggio mitologico di Vertunno, che nel Polifilo appare anche in una xilografia come divinità dellagricoltura e della fecondità nei campi.
Questo ha fatto sì che nellinteresse degli studiosi del Polifilo, e soprattutto nel recente Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento di Stefano Colonna [4], vi è stata lesigenza di collegare ed approfondire unaccademia che proprio alla stessa divinità era dedicata e cioè lAccademia dei Vertunni, fondata nel 1479 da Bartolomeo Averoldi.
In questo contesto così lontano dallambiente romano e prenestino, si reinserisce proprio la figura del cardinal Marco Barbo, che, se confermato da future ricerche in archivio, potrebbe essere proprio lanello mancante fra Francesco Colonna e lambiente umanistico Bresciano.
Si ha quindi in questarticolo lintenzione di introdurre e presentare lipotesi di studio.
Per fare questo si dovrà necessariamente parlare del motivo che avvicinò il cardinal Barbo allambiente Bergamasco Bresciano, attraverso un excursus spazio temporale che condurrà il lettore a trarre nel finale le proprie conclusioni.
Il Cardinal Barbo a Pontida
Accade molto spesso che le sorti di un bene artistico siano affidate alle cure di un benefattore imprevisto e imprevedibile, che inizia ad interessarsi del caso in maniera fortuita, come è stato per il Priorato di Pontida, che alla fine del Quindicesimo secolo vide il suo destino affiancato a quello del cardinale veneziano Marco Barbo.
Per apprezzarne meglio i risultati e lapporto vantaggioso del Barbo, sarà meglio approfondire la storia del priorato e le cause che lo portarono alle rovinose condizioni in cui il cardinale lo trovò.
Cenni storici sul Priorato di Pontida
La fondazione del monastero risale agli inizi dell XI secolo, quando nel mezzo della lotta fra Papato e Impero, lazione dei monaci, e in particolare quelli di Cluny, si faceva portatrice di rinnovazione morale, ecclesiastica e civile. Fra i nobili che fecero donazioni alla congregazione religiosa francese, Alberto da Prezzate l'8 novembre del 1076 donò tutti i suoi possedimenti posti fra lAdda e il Brembo, nella valle di Pontida, fra i quali vi era una piccola Chiesa dedicata a S. Maria e S. Giacomo, che per volontà del donatore doveva essere rinnovata dai monaci, dotata di un monastero e di uno ospizio per i pellegrini.
Il 6 aprile del 1095, poco prima di morire, Alberto da Prezzate riuscì a vedere la nuova Chiesa romanica consacrata.
Da questo nucleo, il priorato di San Giacomo si ampliò e acquisì negli anni a venire una rilevanza sempre maggiore, tanto che il suo patrimonio diventò uno dei più importanti tra quelli dei monasteri della zona lombarda [5].
La crisi che caratterizzò il basso Medioevo sembrava ancora lontana dal priorato e dai suoi possedimenti e anche la pratica della commenda [6] inizialmente non sembrò recare alcun danno al complesso monastico: nel 1295 infatti, Guglielmo de Longhi di Adrara viene affidato da Bonifacio VIII allamministrazione dei benefici del priorato, ma la situazione, temporanea e non gravosa, portò addirittura delle migliorie a questultimo.
Le cose cominciarono a cambiare a partire dal 1330, quando Giovanni Visconti, vescovo di Novara, cominciò ad assegnare stabilmente commendatari vari al complesso monastico; il punto di non ritorno per le sorti del monastero fu lautunno del 1373 quando Bernabò Visconti, nel suo tentativo di espansione e creazione del grande stato Visconteo, comandò al suo esercito di distruggere Pontida.
Da questo evento la situazione peggiorò sempre più e il priorato fu coinvolto progressivamente in tutti gli aspetti della crisi di fine Medioevo: dalle lotte fra guelfi e ghibellini che non smettevano di martorizzare le terre della Val di San Martino, al terribile Scisma dOccidente, che oltre ad aver separato in due la cristianità tutta, divideva anche la religiosità del monastero. Infatti, in un periodo storico in cui si arrivò ad avere anche tre papi contemporaneamente, ogni pontefice pretendeva di affidare al monastero un proprio commendatario.
Gli ultimi anni del Trecento e i primi del Quattrocento per il monastero furono quindi segnati dalla desolazione e dallabbandono: la pratica della commenda si fece sempre più prepotente e si succedettero numerosi commendatari.
Nel 1426, inoltre, cominciò ad interessarsi del priorato anche Venezia, che estendeva il suo dominio fino alla Val di San Martino.
Soltanto dopo la pace di Ferrara del 1428, cominciò un periodo di maggiore tranquillità che però non potrò fruttuosi miglioramenti.
Numerosi furono infatti i nomi dei commendatari che si susseguirono nella gestione del priorato, ma uno nello specifico destò particolare attenzione, sia ai fini di questa trattazione sia per le future sorti di Pontida: Pietro Barbo, nobile veneziano a cui Niccolò V decise di conferire la commenda pontidese.
Grazie al cardinal Pietro Barbo, che nel 1464 diventerà Papa con il nome di Paolo II, il priorato subì un cambiamento nella gestione dei propri beni: se infatti fino ad allora erano divisi fra la repubblica di Venezia e il ducato di Milano, nel 1454 si giunse ad unintesa con il duca Francesco Sforza che riconobbe i diritti del Barbo sui beni pontidesi nel territorio milanese [7].
Successivamente al Barbo e fino al 1485 si susseguirono tre commendatari, che non lasciarono altrettante importanti tracce di sé: il famoso cardinal Bessarione, il cardinal Pietro Riario e il frate francescano ministro generale dellordine, fra Zanetto da Udine, chiamato molto spesso Giovanni Dacre o dAcri [8].
E proprio durante gli anni di questultimo commendatario che vi fu il primo contatto fra il priorato di Pontida e il cardinale veneziano che ne divenne benefattore, Marco Barbo.
Il cardinale veneziano Marco Barbo
Il cardinal Marco Barbo infatti, dopo la morte del pontefice suo vicino parente, Paolo II, avvenuta nel 1471, venne spedito da Sisto IV in Germania per una legazione. A ritorno da questultima nel 1474, passando attraverso il cantone dei Grigioni, sostò nel priorato.
In questa permanenza, il cardinal Barbo si rese conto delle gravose condizioni in cui il priorato versava e probabilmente fu proprio in questa circostanza che decise che spettava a lui stesso il compito di migliorarne le sorti, così come qualche anno prima aveva fatto, in parte minore, lillustre Barbo suo predecessore.
Dell'interesse del cardinale per questo sito si ha una considerevole testimonianza in una lettera da lui scritta ed indirizzata ad uno dei suoi più importanti corrispondenti: Giovanni Lorenzi [9].
Nella lettera, datata 17 ottobre 1482, scritta da Torre san Severo, il Barbo, riferendosi anche alle parole spese dal Lorenzi nella missiva precedente a questa [10], testimonia in modo pratico la generosità da lui esibita per il rinnovamento del priorato di Pontida.
Particolarmente interessante per i nostri fini, è la prima parte della lettera che si riporta di seguito:
De pluriuso cetior factus tuis litteris per palafrenarium R.mi d.i Agrien[11]. missis, placuit admodum diligentia tua. Si disponente Deo prioratus ille vacaret, nihil intemptatum delinque, quad cum Deo et honestate liceat, ut nobis conferatur. Dabis litteras in eo casu crediticias et pontifici et quibus tibi visum fuerit, uterisque verbis accomodatis non tamen alienis a mea vel professione, vel senili humore et istituto. Quod pensione preterita quantum debeatur, quia ecpectare opus fuit annis duocedim, quantunque exponendum fuerit in reparatione ecclesie et vasti ambitus muro rum, ac ruentium ac collapsarum officina rum, que propriis oculis conspexisti, ac onerum consueto rum illius Dominii, situsque in fronte bello rum et omnium pertubationum Lombardie etc. Cum oratore omni dexteritate incedendum, cui sat esse debet reservatio illa qua nosti; non enim dux veneto rum, excepta dignitate, de rebuspublicis dispnit, ut pontifex noscit. Si puero illi cedendum fuerit, saltem imponatur pensio quingentorum, accipienda ex proventi bus prioratus prout fit de prioratu Urbis.
Cuius si bullas continua expedire, sis memor clausularum quod non intelligatur pensio cessare etc.; quod si pro tertia parte, vel dimidia diffalcanda foret et a me dimittenda, transeat cum De benedictione; quia forsam episcopus nolanus[12] se prioris nunc pro re pecuniaria lavorantis pro papa in Germania importunus posset aliquid temptare, et si eo teste locupletissimo semper fuerit dictum de provisione in terris eclesie, tamen placet de quota supradicta, quam non esprima nisi pro tertia ait dimidia ut supra dixi; quia est incerta, aliquando ad 500 et sexcentorum pro temporum qualitate escendens; que omnia premonisse ad cautelam (ut aiunt) abundantem volui; cetera Deus pro sua bonitate disponat.(
)
In questa prima sezione del testo, il Cardinal Barbo, in uno stile confidenziale, familiare che sfocia in un latino non certo perfetto ed erudito, esprime al Lorenzi, forse per la prima volta, le proprie intenzioni sul priorato bergamasco.
Come si è detto, il Lorenzi aveva avvisato il Barbo di tali condizioni e la pronta risposta del cardinale non lascia dubbi sullazione che vuole promuovere.
Il Barbo infatti sollecita il Lorenzi di attivarsi, perché se il priorato fosse vagante, non dovrà tardarsi a scrivere missive sia al pontefice che a coloro che sarà opportuno avvisare, non estranei né al suo ufficio (alienis a mea professione), né alla sua solita disposizione (alienis senil humore et istituto).
Immediatamente dopo il Barbo riporta tutti i lavori che sarà necessario effettuare con la pensione che gli verrà corrisposta [13]: la riparazione della chiesa (reparatione ecclesie) e della cinta muraria rovinata (vasti ambitus murorum), i fabbricati che stanno per cedere e quelli già crollati (ac ruentium ac collapsarum officinarum).
Come testimonia questa lettera, il Barbo aveva puntato gli occhi sul priorato già dal 1482, sancendo quasi una prenotazione sul successivo passaggio di commenda.
Come si evince dalle parole del Barbo, la cosa non doveva però esser affatto semplice.
Infatti già da tempo la repubblica di Venezia aveva pensato di reincorporare nuovamente labbazia ai propri possedimenti.
Si ricorda infatti che nel 1472, quando il cardinal Pietro Riario, nipote del regnante Sisto IV e di conseguenza ligure, successe nella reggenza del monastero al cardinal Bressarione, la repubblica di Venezia scese a compromessi con questultimo che rinunciando al beneficio della commenda di SantEgidio di Fontanella, potè tenere per sé almeno la commenda di Pontida.
A malincuore la repubblica di Venezia cedette questa fruttuosa commenda e i 1200 fiorini di rendita del priorato di San Giacomo di certo facevano gola.
Di questa cifra ci parla anche il Cardinal Barbo nella sua lettera quando dice Quod si opinatus valor mille et duecento rum nimius videtur, meminerint de pensione preterita quantum debeatur, quia ecpectare opus fuit annis duodecim
. Di quale pensione non corrisposta il Barbo parli, non lo sappiamo con sicurezza.
Fatto sta che, dal 1485, anno in cui il priorato rimase vacante dopo la morte di fra Zanetto da Udine, cominciò una lunga trattiva fra Roma e Venezia per disporre liberamente della commenda di Pontida.
La faccenda si risolse il 16 febbraio del 1487 quando il Barbo ottenne la disponibilità del priorato e
vi si recò di persona in occasione della festa del santo patrono di quello anno, portando con sé il dono di unindulgenza plenaria, concessa proprio da Innocenzo VIII a tutti coloro che avessero visitato la chiesa di San Giacomo il 25 luglio di quellanno [14]
Ovviamente la maggiore preoccupazione del Barbo era quella di migliorare le condizioni del monastero.
Nella lettera del 1482 al Lorenzi, si fa riferimento anche al priorato romano dei Cavalieri di Rodi, quando dice saltem imponatur pensio quingentorum, accipienda ex proventi bus prioratus prout fit de prioratu Urbis, di cui il Barbo dal 1467 al 1470 aveva amministrato i beni e aveva, inoltre, portato avanti una grande operazione di renovatio architettonica.
Il Barbo quindi si auspicava già nel 1482 che, se avesse dovuto prevalere lautorità della repubblica di Venezia, almeno gli fosse concessa la pensione per restaurare il priorato, come fu fatto il 13 novembre del 1471 con quello Romano, quando decise di dimettersi dalla carica che aveva fino ad allora rivestito.
Quando nel 1487 era arrivato ad avere le possibilità di attuare queste modifiche, il cardinale veneziano, sotto autorizzazione papale, concesse i beni del priorato in affitto per poter usufruire in anticipo di una cospicua somma di denaro, a cui poi saggiunsero anche i versamenti di duecento ducati al mese stabiliti dallautorità veneziana per contribuire al restauro degli edifici e al recupero dei beni usurpati [15].
Commissionati i lavori il Barbo fece ritorno a Roma, ma la repubblica veneziana, avente fatto pressioni al pontefice, riuscì ad incorporare il priorato alla cappella ducale di San Marco l11 ottobre del 1487 [16].
Il Barbo però, tramite un abilissima opera diplomatica, riuscì ad uscire da questa situazione: intensificò, per prima cosa i rapporti con la congregazione di Santa Giustina di Padova, poiché il suo intento era quello di arrivare ad unaggregazione con il priorato di San Giacomo.
Dovette però giungere ad un compromesso: egli stesso aveva scritto al doge Agostino Barbarigo che sarebbe stato disposto a rinunciare alla commenda a patto che la Repubblica di Venezia avesse accettato lintroduzione della congregazione nel priorato [17].
Questunione avvenne finalmente il 5 giugno del 1490, anche grazie alle pressione che il papa faceva sulla repubblica veneziana.
Purtroppo la vicina morte del cardinale, non riuscì a fargli godere il meritato successo.
Il Barbo verrà però ricordato come un grande benefattore per il priorato di Pontida, interessato ad esso non di certo per lucrarne i profitti, come fino ad allora era stato fatto e come anche la repubblica di Venezia voleva fare, ma per utilizzarli e migliorarne le condizioni.
Un altro pratico esempio dellazione rinnovatrice del cardinale, che si era distinto anche in altre numerose sedi per la sua volontà di benefattore, è un suo stemma posto sulla facciata della chiesa di S. Giacomo, restaurata per suo volere, che lo ricorda nel priorato che tanto gli deve.
Il cardinal Barbo e Pietro Foscari
La presenza del cardinal Barbo nellambiente bergamasco lo ha fatto avvicinare a molte personalità spesso distanti da Roma; innanzitutto con i suoi predecessori nellamministrazione del priorato, uno fra tutti il famoso cardinal Bessarione.
Ma non si limitò a queste conoscenze: una delle sue più vicine amicizie fu con Pietro Foscari, anchesso cardinale veneziano molto legato allambiente umanistico bresciano.
Fu infatti intimo amico proprio del cardinale Bessarione e di allievi della sua accademia, tanto che fu anche presente a Roma il 26 giugno 1968 nellatto notarile in cui il Bessarione trasmetteva il possesso di tutta la sua biblioteca ai procuratori di San Marco. Il Foscari assistette quindi al primo passo per la fondazione della Biblioteca Marciana.
Proprio in questa ondata culturale che raccoglieva leredità del cardinal Bessarione fu creata da Bartolomeo Averoldi lAccademia dei Vertunni, nella quale gravitavano numerosi umanisti, fra i quali anche Pomponio Leto.
LAveroldi a sua volta era conoscenza ben nota al Foscari, poiché fu proprio a questultimo che Bartolomeo Averoldi cedette nel 1479 i proventi dellabbazia di Leno[18]
Il Barbo quindi essendo intimo amico del Foscari, poiché fu anche suo esecutore testamentale, risulterebbe ben introdotto in un ambiente umanistico che già per le sue partecipazioni si vede vicino alla Roma umanistica.
Inoltre è risaputo che il Barbo fu molto apprezzato nellambiente letterario, a tal punto che numerosi personaggi lo resero dedicatario di opere o giudice in contese letterarie [19].
Si lascia quindi porta aperta a nuovi studi che intendano giustificare la sensata ipotesi di un inserimento concreto del cardinale non solo nellambiente umanistico romano, come è già testimoniato, ma anche in quello bresciano, facente capo proprio allAccademia dei Vertunni, non così distante da quella romana di Pomponio Leto.
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