Introduzione
Il 1° giugno
1983 il gruppo rock inglese The Police rilascia l’album Synchronicity, che tra le altre canzoni contiene Every Breath You Take. Grazie
soprattutto a tale canzone, l'album rimane ai vertici delle classifiche di
vendita per oltre due mesi, consacrando
la fama del gruppo e facendo del disco uno dei più grandi successi della storia
della musica contemporanea. La struttura della canzone è quella classica del
rock: segue lo schema verso-coro-verso-coro-ponte-coro. Chitarra, basso e
batteria concorrono insieme a creare una melodia musicale molto solida, ma al
tempo stesso molto suadente e rilassante. Il cantante e autore del pezzo,
Gordon Sumner (in arte Sting), abbandona le sue linee vocali acute, che hanno
sempre contraddistinto le sonorità del gruppo, e interpreta il pezzo con una
voce molto più calda e bassa. Tutti questi elementi formali si sposano bene con
la tematica che sembrerebbe appartenere alle
liriche della canzone: l’amore. I fan del gruppo impazziscono ascoltando
questa composizione. Il pezzo musicale diventa strumento di dediche
romantiche e presto per il pubblico
finisce per essere la canzone d’amore
iconica della band inglese.
Nel 2009, Sting
rilascia una intervista al secondo
canale radio dell'emittente pubblica britannica BBC: «Penso che la canzone
abbia qualcosa di molto sinistro e orribile» afferma «e che la gente la abbia fraintesa, considerandola come una piccola e gentile
canzone d’amore» [2] . Ascoltando con attenzione la
canzone, ci si accorge che il testo cela
effettivamente qualcosa di sinistro e perverso.
Every
breath you take
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Ogni respiro che farai
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Every
move you make
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Ogni movimento che farai
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Every
bond you break
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Ogni
legame che spezzerai
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Every
step you take
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Ogni
passo che farai
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I'll be
watching you
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Io ti
starò osservando
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Every
single day
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Ogni
singolo giorno
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Every
word you say
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Ogni parola
che dirai
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Every
game you play
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Ogni
gioco che giocherai
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Every
night you stay
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Ogni
notte che tu rimarrai
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I'll be
watching you
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Io ti
starò osservando
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O can't
you see
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Non
riesci a vedere
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You
belong to me
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Che tu
appartieni a me
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How my poor heart aches with every step you
take
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Come piange il mio povero
cuore
con ogni passo che fai
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Le parole
utilizzate potrebbero essere considerate come atti di riguardo e di sicurezza
che un amante dedica all'amata, ma allo
stesso tempo potrebbero descrivere la fissazione ossessivo-complusiva
di un uomo nei confronti di una donna. Potrebbero esprimere tanto i
sentimenti di un tenero amante quanto i turbamenti di un
maniaco.
A giudicare
dall’intervista, la seconda lettura sembrerebbe essere quella pensata da Sting.
La canzone non tratterebbe quindi delle dolci attenzioni di un amante, bensì
della fissazione perversa e malata che un uomo ha nei confronti di una donna,
che lo porta addirittura a pensare che quest’ultima sia di sua proprietà (can’t
you see – you belong to me?). Alla luce di queste osservazioni come si dovrebbe
comportare l’ascoltatore ? Scoprendo quello che l’artista intendeva dire con la
canzone cosa succede ? Essa assume solamente quel significato? Le dediche
d’amore fatte con quella canzone sono di fatto
esautorate, e tutti gli innamorati
maschi si ritrovano a essere automaticamente maniaci e non più teneri
amanti ? Quest'ultima è ovviamente una provocazione, ma le altre domande sono
legittime e si riducono a un quesito cruciale: quale ruolo riveste l’intenzione dell’autore nell’interpretazione
dell’opera ?
Durante
l’intervista Sting adopera una parola chiave che rappresenta il punto focale
della nostra ricerca: parla di fraintesi.
In quanto creatore dell’opera d’arte in questione, egli è perfettamente
consapevole del messaggio che voleva veicolare e ne considera una misinterpretazione
qualsiasi significato diverso da quello che egli stesso ha pensato. Ma le cose
sono così semplici ? Non credo. L’esempio di Every Breath You Take presenta caratteristiche particolari che
spesso non si possono riscontrare in altre opere. Abbiamo in questo caso un
artista conscio della misinterpretazione che il pubblico ha avuto della sua
opera, che la vive in prima persona e cerca di correggerla, rendendo note a
tutti le sue intenzioni nel momento della creazione, appunto quello di parlare
dell’ossessione che un uomo ha per una donna.
Difficilmente
questo potrebbe accadere con un quadro di Leonardo o con un dramma di
Shakespeare: molte delle opere con le quali critici e pubblico si confrontano
tutt’oggi non sono di autori viventi. Non sono quindi in grado di manifestare
esplicitamente a pubblico e critica le loro intenzioni.
Che cosa accade
a questo punto ? Credo che quello di risalire all’intenzione dell’autore sia,
implicitamente, il parametro che il fruitore segue quando cerca di interpretare
un’opera d’arte, dove con la parola interpretare
s’intende “dare significato”, estrapolare da essa un messaggio. Si cerca di far
combaciare il significato che l’autore aveva pensato con quello che si ha
leggendo, osservando o ascoltando - e in generale interpretando - un’opera.
Questo meccanismo può probabilmente essere considerato il modo più comune per
dare consistenza alla propria interpretazione e per renderla il più plausibile
possibile. Ma è questa l’unica maniera con cui si può interpretare un’opera ?
Si può parlare con sicurezza di intenzioni ? Se un artista muore senza lasciare
diari, scritti o filmati nei quali parla delle proprie
produzioni, l’unico elemento di analisi che ci rimane sono le opere stesse.
Attraverso quest’ultime si può arrivare con certezza al messaggio che l’artista
voleva trasmettere?
Infine – ed è
il quesito più interessante - quanto è importante
quest’ultimo aspetto, il “messaggio” pensato dall'artista?
Durante
quest’analisi mi muoverò lungo un quesito di ricerca fondamentale: quali sono
il valore e l’importanza che possono o dovrebbero avere le intenzioni
dell’artista quando si analizza un’opera? Per quanto riguarda l’oggetto di
questo quesito mi sono ispirato a un passaggio tratto da La filosofia e le arti di Stefano Velotti il quale, parlando della
questione riguardante le intenzioni dell’autore, dice: «Nel dibattito
sull’interpretazione e le intenzioni (...) troviamo posizioni decisamente
anti-intenzionaliste, che negano ogni rilievo alle (presunte) intenzioni
dell’autore per una corretta interpretazione dell’opera: perché ciò che conta è
solo la configurazione formale dell’opera, perché le intenzioni dell’autore
sono inaccessibili e imperscrutabili (...) Sul versante opposto troviamo
posizioni intenzionaliste come quella di Danto, secondo cui, non solo un’opera
è costituita nella sua identità da una determinata interpretazione(...), ma
l’unica interpretazione corretta è quella che corrisponde alle intenzioni
dell’autore» [3] .
Vediamo come la
questione dell’intenzionalità dell’autore arrivi a riflessioni completamente
opposte. Prenderemo in esame, per meglio approfondire quest’aspetto del
problema, due critici americani con posizioni molto diverse l’una dall’altra:
Arthur C. Danto e Monroe Beardsley. Danto si può classificare come
intenzionalista e Beardsley può essere considerato un anti-intenzionalista. Il
primo cerca di risalire alle intenzioni dell’autore per trovare il suo
parametro di correttezza interpretativa e il secondo le considera totalmente
irrilevanti, vedendo nell’opera stessa l’autosufficienza per l’attività
ermeneutica.
Commentando
l’analisi effettuata da Geoffrey Hartman su una poesia di Wordsworth intitolata
Lucy’s Poem, Umberto Eco spiega:
«Certamente Hartman non sta insinuando che Wordsworth volesse produrre quelle
associazioni, né rientrerebbe nella sua poetica critica questo andare alla
ricerca delle intenzioni dell’autore. Vuole semplicemente dire che un lettore
sensibile è autorizzato a trovarle, perché il testo, sia pur potenzialmente, le
contiene o le suscita, e perché il poeta può aver (magari inconsciamente)
creato degli ʻarmoniciʼ al tema principale» [4] .
Le associazioni menzionate da Eco sarebbero i richiami che Hartman, in alcune
parole della poesia, avrebbe trovato alla tematica della poesia stessa: la
morte di una fanciulla. Per fare un esempio, Hartman considera l’utilizzo della
parola «diurnal» (diurno), parola che
poco si associa con la morte, al sesto verso come un richiamo alle parole «die» (morire) e «urn» (urna), evocando così implicitamente il campo semantico della
morte. Queste associazioni di Hartman sono definite “armonici” da Eco. Questa è
una tipologia interpretativa che tenta di coniugare il lavoro di autore e il testo,
presi come entità distinte. È un tentativo di armonizzazione tra i due assi di
ricerca che ci siamo prefissati, anche se, come vedremo, il confine tra
“intenzionalità inconscia” e intenzione del testo è molto labile.
Proveremo a
vedere, per tornare all’esempio introduttivo, quale sia (se effettivamente
esiste) il significato di Every Breath
You Take, se solamente quello pensato da Sting o se possa valere anche
quello utilizzato dagli amanti per manifestare il loro amore a chi ne è ispiratore/ispiratrice. E vedremo se, all’interno
del testo stesso, Sting non abbia potuto inserire/immettere
dei significati dei quali non era egli stesso consapevole.
La Linea e il
tricheco
Non esiste
niente di più semplice e allo stesso tempo di più costitutivo della linea. Un
postulato che non può avere dimostrazioni, ma che ha una sua evidente verità
empirica. Fisicamente così labile e fatua, tende a scomparire e a nascondersi
quando la utilizziamo. Eppure la sua presenza è determinante, basti pensare
alle linee di un semplice quaderno. In architettura la linea può essere matrice ed elemento di partenza di
studi e progetti, determinare il piano su cui lavoriamo, indicare le direzioni. La linea ritorna in
diversi aspetti, riveste i significati più vari:
da quella che una squadra di calcio deve tenere quando difende, alla linea
vocale che un cantante deve seguire quando canta. Linee immaginarie, come
quelle che dividono i continenti, assumono un significato immenso: le frontiere
che non esistono in natura sono linee create dall'esperienza umana. La linea ha
la capacità di essere presente anche quando
non la possiamo vedere; di rimandarci ad un qualcosa di fisicamente assente ma
che noi sappiamo esistere nel nostro intelletto e nella nostra mente. Il
concetto di linea è tanto contingente e vicino che a volte ne dimentichiamo
l'esistenza.
Un campo nel
quale la linea dà il suo apporto indiscutibile è quello della pittura. La linea
può essere la preparazione a un'opera. Pensiamo a uno schizzo preparatorio:
esso è lo scheletro che “dà il là” alla
composizione, la base sulla quale si crea il resto. Ma non è solo questo. La
linea in pittura è poliedrica, è necessaria in diversi campi e trova sempre un
posto quando l’artista dipinge. Qualcuno la ha nascosta, altri la hanno
valorizzata con tutto il suo potenziale, non solo formale, ma anche
concettuale.
Penso ai grandi
pittori francesi del primo ‘800 e al loro rapporto con la linea. In particolar
modo penso ad Ingres e David. La loro linea è
così definita e chiara da portare alla luce la loro poetica. Una linea che
delimita le figure e ne ingabbia i colori nettamente. Una linea che è
insieme il prodotto finale della loro
arte e la matrice della perfezione delle loro opere.
Tra gli artisti
che hanno catturato in toto la grande forza e importanza della linea c'è Paul Klee. Il
pittore svizzero ha trovato in essa il mezzo per manifestare la sua poetica e
la sua concezione di arte. Nato a Münchenbuchsee
nel dicembre del 1879 e cresciuto in una famiglia di musicisti, Klee vive il
suo periodo di formazione scolastica galleggiando tra lo studio del violino e
la coltivazione della sua grande passione: il disegno. Questo parallelo tra
arte e musica sarà sempre vivo nella sua poetica. Lo dice egli stesso nei suoi diari: «Sempre
mi sono spinto a fare dei paralleli fra musica e arte figurativa. Ma non mi
riesce alcuna analisi. Certo è che ambedue sono arti nel tempo, come si
potrebbe facilmente dimostrare» [5] .
Le due forme d’arte, come le concepisce il pittore svizzero, presentano infatti
affinità strutturali e concettuali. Entrambe si cimentano nel tentativo di
evocare e non di rappresentare e condividono la medesima dimensione temporale:
«il suo disegno è di tipo non spaziale bensì temporale e musicale: gli elementi
devono essere colti in ordine di successione e tuttavia simultaneamente» [6] .
Questo parallelo regge particolarmente se si applica alla pittura dello stesso
Klee. Il fine ultimo del pittore svizzero, infatti, non è quello di raffigurare
bensì di “rendere visibile”: «nell’arte non è tanto essenziale il vedere quanto
il rendere visibile» [7] .
La sua arte tenta di portare alla luce quel campo del guardare umano che oscilla tra il visibile e l’invisibile,
di dare spazio a quella parte della visione che in noi lavora prima ancora di
rilevare e classificare le figure che si vedono. Un lavoro che cerca di mettere
a nudo le nostre sensazioni e i nostri istinti, che si rapporta al mondo
visibile in maniera particolare. L’occhio, secondo
Klee, è “vagabondo”: gira, si sofferma, si stanca, ma poi ritorna sulle
cose. La visione incapsula ogni volta qualcosa di nuovo, anche se ci si ferma
su un’immagine. Questo è l’invisibile di cui parla Klee, quel qualcosa che
rende la visione sempre nuova anche se l’abbiamo già vista, quella componente
che accompagna fedelmente il visibile,
ma che non si rivela mai e proprio per il suo mistero rende la visione
stessa affascinante.
Klee, come i
grandi compositori di musica ai quali era particolarmente affezionato, non
vuole mostrare la realtà attraverso la
sua mera riproduzione, bensì mettere su tela una parte della realtà che si
percepisce prima ancora di vederla: vuole raccontare la genesi della visione.
Come la musica riesca a comunicare qualcosa
con strumenti non rappresentativi - le note - Klee cerca di operare la stessa
composizione a livello grafico. E proprio come le note in uno spartito vanno
recepite individualmente e complessivamente allo stesso tempo per fruire
l’opera, lo stesso si può dire dell’arte del pittore. E le note che Klee
utilizza per comporre i suoi quadri-spartiti sono appunto le linee. Attraverso
la linea Klee prova a fermare il vagabondare dell’occhio. In una lettera datata
1904 il pittore utilizza una metafora molta poetica e esemplificativa: parla
delle “passeggiate” che la sua matita fa sul foglio. Passeggiate che formano
dei ponti, dei ponti che cercano di congiungere la sfera del visibile e
dell’invisibile, che cercano di armonizzare e sintetizzare questi due volti di
un'unica e complessa realtà. L’arte di Klee si potrebbe quasi definire un
gioco, dove gli interpreti sono la realtà che ci circonda e il suo rapporto con
le mani e l’inconscio dell’artista: «L’operazione artistica , per Klee, è
simile a quella del ricercatore che grazie a strumenti, ricorrendo a certi
mezzi tecnici, rende visibili (ma non rappresenta) i microrganismi che
certamente ci sono, ma non sarebbero altrimenti visibili. Klee opera sui
microrganismi che popolano le regioni profonde della memoria inconscia; ed essi
cominciano a esistere , come fenomeni, solo nell’istante in cui vengono
rivelati» [8] .
Tirare fuori qualcosa che esiste, estrapolare da noi stessi qualcosa che a noi
stessi sfugge e sfuggirà sempre se non viene rivelato, è il compito dell’artista,
la “ludica sfida” che deve intraprendere.
Per affrontare
questa sfida, saranno due i mezzi che accompagneranno il pittore: la linea e il
colore: «tale capacità della linea, e successivamente del colore, di ri-velare,
nel senso di svelare e allo stesso tempo di velare, l’invisibile che è ad esse
interno, costituisce il fulcro dell’intera elaborazione teorica e artistica di
Klee» [9] ,
scrive Di Giacomo. E continua: «la linea
ci mostra quell’irrappresentabile nella rappresentazione che rende possibili
rappresentazioni sempre nuove e diverse, senza
che nessuna di esse sia unica e definitiva, in grado cioè di togliere
l’invisibile, rendendolo totalmente visibile; c’è rappresentazione proprio
perché qualcosa resta irrappresentabile all’interno della rappresentazione
stessa». Linea e colori sono i ponti attraverso i quali si cerca di rendere
manifesto il non visibile.
Ritornerò più
avanti su questo argomento che si rapporta bene con la mia analisi, ma adesso vorrei concentrarmi sul quesito
particolare: il rapporto tra opera e fruitore. Questo rapporto, come vedremo, presenta aspetti molto
interessanti nell’ambito che stiamo trattando. Qual è infatti il peso o
l’importanza che il fruitore nella sua interpretazione dell’opera deve dare
all’intenzione dell’artista? E prima ancora di rispondere a questa domanda
bisogna chiedersi se è possibile risalire all’intenzione vera dell’artista
stesso. Su questo tema si è fermata
l'analisi di due critici americani del secondo dopoguerra: Arthur C. Danto e
Monroe C.Beardsley. Per comodità ho deciso di concentrarmi sulle opere di
questi due studiosi, arrivati a conclusioni e a “linee” di pensiero
diametralmente opposte e che quindi ci permettono di vedere i due poli più
distanti della questione. L’unico aspetto che accomuna le due “linee” di questi
critici è la loro focalizzazione nell’analisi sull’asse opera-fruitore. Questo
non implica necessariamente, come vedremo, che l’intenzione o l’intenzionalità
dell’autore non verrà mai chiamata in causa, ma semplicemente che tutti e due
gli studi hanno come corpo d’indagine primario non il rapporto artista-opera,
ma quello spettatore-opera.
È lecito
ammettere che tra un fruitore e un'opera d’arte (di qualsiasi tipo si tratti:
un quadro, una canzone, un libro, etc.) si crei un collegamento. Questo
collegamento, che può essere di vario tipo (emotivo, razionale, mnemonico...),
è il motivo che ci permette e ci spinge,
allo stesso tempo, di entrare in contatto, o rientrare in contatto più volte,
con un’opera d’arte. Guardo La Vergine e
Sant’Anna e rimango stupito, ascolto Every
Breath You Take dei Police cento volte e ogni volta mi emoziono in maniera
diversa: questi sono tutti collegamenti che instauro con l’opera d’arte, la
quale a seconda delle sue caratteristiche mi trasmette un’emozione o un
sentimento particolare. A questo punto si potrebbe aprire un enorme dibattito
sull’estetica, intesa nella sua accezione originale aisthesis, che si
traduce dal greco come percezione, ma questo esulerebbe, o meglio,
ingrandirebbe il campo di ricerca sul quale ci stiamo concentrando. Se
ammettiamo che si crea un collegamento tra opera e fruitore, quello che ci
interessa analizzare è quale ruolo
rivesta in questo collegamento l’intenzione dell’artista.
Nel 1964, Arthur
C. Danto partecipa a una mostra di Andy Warhol tenuta presso la Stable Gallery
di New York. In questa occasione si trova davanti alle famose Brillo Boxes dell’artista statunitense.
Queste ultime erano pressoché identiche alle scatole “Brillo”
che contenevano spugnette abrasive in vendita nei supermercati al tempo.
L’unica differenza tra le scatole in commercio e quelle esposte da Warhol erano
la dimensione e il materiale: quelle di Warhol erano leggermente più grandi ed
erano fatte di compensato, mentre quelle in vendita erano fatte di cartone.
Alla luce di questa osservazione Danto si chiede come mai una veniva
classificata come opera d’arte e l’altra no: «e la questione era perché mai le
scatole di Warhol costassero 300 dollari mentre i prodotti dell’altro artista
non valevano nemmeno 10 centesimi» [10] ,
scrive nella sua opera più importante, La Trasfigurazione del Banale. Da dove
traggono “l’artisticità” le Brillo di Warhol ? Se l’occhio non ci può dare
nessuna informazione utile, essendo i due oggetti percettivamente identici, il
motivo dell’artisticità di una dovrà essere colto in un qualcosa di invisibile
che esula dalla percezione, ragiona Danto. «Vedere qualcosa come arte esige
niente di meno che questo: un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza
della storia dell’arte» [11] ,
scrive il critico. Un’opera d’arte si separa dalla sua contro parte, l’oggetto
alla quale è identica, grazie al suo collegamento con questo «mondo dell’arte»,
(artworld) [12] .
Per tornare alla domanda iniziale, le Brillo
Box di Warhol guadagnano il loro status
di opera d’arte poiché si allacciano a questo mondo dell’arte.
Ma come avviene
questo collegamento? Descritta in questi termini la soluzione dettata da Danto
appare molto categorica e a tratti quasi religiosa: gli oggetti diventano opere
d’arte attraverso un collegamento quasi mistico a questo “mondo dell’arte” che non può essere colto dalla semplice
percezione del mondo sensibile e quotidiano.
Le cose non stanno così. Secondo Danto,
infatti, l’allacciarsi degli oggetti a questa
particolare “atmosfera” non avviene attraverso delle proprietà che hanno gli
oggetti in sé nel momento in cui vengono
prodotti, gli oggetti non nascono come opere d’arte. È invece l’osservatore, il
fruitore che nell’osservazione, ma
soprattutto nell’interpretazione
dell’oggetto permette loro di effettuare questo cambio di status: «... grazie al carattere costitutivo dell’interpretazione, l’oggetto non era un’opera finché
non è stato reso tale. Come procedura trasformativa, l’interpretazione è uguale
a un battesimo, non nel senso del conferimento di un nome, ma di una nuova
identità, di una partecipazione a una comunità di eletti» [13] .
Il fruitore gioca un ruolo fondamentale, è lui che stabilisce il collegamento
tra l’oggetto e il regno dell’arte.
Se si ammette
questa teoria si corre però un grave rischio: riponendo, infatti, sul fruitore
la possibilità di decidere cosa è arte e cosa non lo è, traslando quindi i
criteri di definizione dell’arte dall’oggetto al soggetto, si rischia di
sfociare in un mare di interpretazioni. Mi potrei ritrovare a camminare per
strada e trovare in quel momento un lampione particolarmente bello e definirlo un’opera
d’arte. Oppure a fare un giro per l’Accademia di Firenze e interpretare il
David di Michelangelo come un omaggio ai trichechi dato la sua testa
leggermente sproporzionata al resto del corpo. Per ovviare a questo rischio
Danto chiama in causa l’intenzione dell’artista. Quest’ultima deve essere il
limite entro il quale ci dobbiamo muovere. È interessante notare come la
posizione di Danto sull’interpretazione cambi drasticamente. Se inizialmente
sembriamo infatti trovarci, da fruitori, in pieno possesso e in qualche maniera
in piena libertà davanti a un’opera, essendo addirittura noi stessi con la
nostra interpretazione a conferirgli lo status
di opera d’arte, scopriamo poi di essere
in realtà strettamente vincolati nella nostra operazione ermeneutica: «... è
difficile sapere che cosa governa il concetto di un’interpretazione corretta o
scorretta se non si fa riferimento a ciò che potrebbe o non potrebbe essere
stata l’intenzione dell’artista» [14] .
Dal rischio dell’universalismo ermeneutico si passa all’idea di interpretazione
corretta o scorretta. L'intenzione dell’artista nell’elaborazione di Danto
gioca un ruolo fondamentale: essa è il parametro, l’indice di correttezza che
valuta le interpretazioni. Tutte le interpretazioni sono ammesse, ma esse
possono essere giuste o sbagliate. Secondo Danto la “linea” che separa
l’interpretazione corretta o scorretta è molto netta, non è una linea che si
utilizza per un schizzo preparatorio, una linea guida e che può essere cambiata
in fieri, bensì è la linea di Ingres
e David, presente e corposa che ben definisce i campi dentro i quali si può
operare e che stabilisce la perfezione dell’opera, la correttezza
dell’interpretazione.
Nel 1954, dieci
anni prima che Danto vedesse le Brillo
Boxes di Warhol e cominciasse a ragionare sul problema dell’ontologia
dell’opera d’arte e dell’intenzione dell’autore, Monroe C. Beardsley e W.K.
Wimsatt pubblicano un saggio intitolato The
Intentional Fallacy [15] .
Ancora oggetto di questo saggio è la questione
dell’intenzione dell’autore nell’interpretazione dell’opera, ma il ragionamento
di Beardsley arriva ad un’angolazione sul problema molto diversa rispetto alle
conclusioni di Danto. Come quest'ultimo, anche Beardsley nella sua carriera si
è occupato di diverse problematiche nel campo dell’estetica, a partire dal
tentativo di definizione dell’arte stessa. A differenza di Danto, a Beardsley
non interessa il tema dell’ontologia dell’opera d’arte. Il critico americano
nei suoi lavori si guarda bene infatti dall’utilizzare il termine opera d’arte
e lo rimpiazza con la più vaga espressione «oggetto estetico» (aesthetic object). Mi sembra doveroso
sottolineare che il lavoro presentato da Beardsley è pensato prevalentemente
per le opere scritte, ma, come vedremo,
molte delle conclusioni alle quali il critico arriva possono essere applicate
al campo dell’arte figurativa ed il saggio sopra citato è quello che meglio si
pronuncia sulla problematica da noi qui trattata.
Uno dei
caratteri principali del saggio di Beardsley riguarda esattamente quello
spostamento di paradigma che abbiamo lasciato alla fine del capitolo
precedente: dal rapporto tra opera e artista a quello tra opera e fruitore. «La
poesia non appartiene né al critico né all’autore (si distacca da esso non
appena nasce, e va errando per il mondo senza che il suo creatore la possa
spiegare o controllare). La poesia appartiene al pubblico» , scrive Beardsley [16] .
Va comunque
precisato che il critico americano non sposta l'asse dell'analisi sul versante
del rapporto tra opera e singolo fruitore, ma su quello tra opera e più
generico concetto di pubblico. Parlando di pubblico, Beardsley è interessato a sottolineare il carattere
collettivo delle opere: il discorso portato avanti dal critico è consapevole in nuce che un’opera d’arte avrà diverse
interpretazioni proprio per il fatto che si confronterà con diverse persone,
arrivando a negarne la “proprietà” dell’artista e donandola invece al pubblico
che ne usufruirà. Lasciato a sé, questo discorso sulla “proprietà” dell’opera
potrebbe apparire inutile ai fini dell’interpretazione, ma invece si sposa bene
con la logica del saggio. Secondo Beardsley infatti un’opera «non esiste per
sbaglio», e «le parole escono fuori da una mente e non da una mazza» [17] . C’è, in altri termini, un intelletto creatore che
produce l’opera, ma questo intelletto, e soprattutto le sue intenzioni, non
sono il parametro, o lo “standard” come lo definisce Beardsley, attraverso il
quale bisogna interpretare l’opera. Utilizzando una metafora molto acuta e
ingegnosa Beardsley procede con il paragonare l’opera d’arte a una macchina:
«Giudicare un poesia è come giudicare una macchina. Si pretende che essa
funzioni. Una poesia non deve significare, ma essere. Una poesia può essere
attraverso il significato eppure esiste, semplicemente è, nel senso che non
abbiamo nessuna scusa per chiederci quale parte è intenzionale o intesa. La Poesia e’ un impresa di stile attraverso
la quale una serie di significati sono presi in considerazione tutti insieme» [18] .
Questo
ragionamento calza bene con l’idea iniziale della “proprietà”. Esulando infatti
dall’intenzione dell’autore come filtro interpretativo, questo lascia l’opera
d’arte svincolata. È possibile “impossessarsi” dell’opera, la quale come una
macchina è tenuta semplicemente a essere e a funzionare, e sono i suoi fruitori
ad avere le chiavi per attivarla, donandogli un significato. Alla luce di
questo ragionamento, si capisce molto meglio l’assunto iniziale del saggio:
«Stiamo dibattendo sul fatto che l’intenzione dell’artista non è né accessibile
né utile ai fini dell’interpretazione e la valutazione dell’opera» [19] .
In un’altra
opera intitolata The Possibility of
Criticism, Beardsley avanza tre tesi volte a svalorizzare il ruolo
dell’intenzionalità autoriale nel processo interpretativo. La prima prende in
analisi gli errori di stampa: può accadere infatti che delle opere vengano
interpretate anche se presentano delle parti non pensate o progettate dal suo
autore, date da errori di macchina o tipografici. L’attività ermeneutica continuerà il suo
corso non curante di questo aspetto. La seconda si occupa del cambiamento di
accezione che parole o frasi possono avere nel tempo. Una volta che un autore è
morto non può avere la possibilità di ovviare al cambiamento testuale che la
sua opera subirà con il passare del tempo. L’esempio riportato per descrivere
questa occorrenza è dato da una verso di una poesia del 1744 che recita: «alzò
il suo plastico braccio». Secondo
Beardsley il significato che dà l'autore al termine «plastic» sarà sicuramente
diverso da quello che potrà avere un lettore del ventesimo secolo. In una traduzione italiana di «plastic arm» potremmo, per esempio, trovare
«plastico braccio», ma anche «braccio di plastica».
Questi primi
due esempi, come detto pensati e applicati prevalentemente per le forme d’arte
scritte, presentano delle lacune. Entrambe le problematiche si confrontano
infatti con delle caratteristiche che potrebbero essere aggiustate con
un’adeguata ricerca filologica e testuale dell’opera. Più interessante, e anche
meglio applicabile all’ambito dell’arte figurativa che qui ci interessa, è la
terza tesi proposta da Beardsley, che ci è utile anche come con quanto
analizzato nel capitolo precedente. In questa terza argomentazione Beardsley si
interroga circa la possibilità di un’opera di avere significati del quale il
suo autore non è al corrente o che non ha minimamente previsto. Beardsley
sostiene che vi sia una profonda differenza tra il “significato autoriale” di
un’opera e il suo “significato testuale”. E da dove origina e dove sfocia il
“significato testuale” ? Naturalmente dal testo stesso il quale ha dentro di
sé, indipendentemente dalla volontà del
suo autore, tutti i suoi possibili significati che sono gli stessi fruitori a
tirare fuori. Mi sembra giusto notare che nello spiegare questo concetto
Beardsley adopera l’espressione «speech
act potential», la quale si
riferisce al potenziale utilizzo che si può effettuare di un’opera scritta. Ma
penso che l’esempio possa essere facilmente traslato anche nel campo figurativo
o musicale. Every Breathe You Take
contiene nel suo testo - ossia i suoi caratteri formali – l’interpretazione
iniziale adottata dal pubblico, che la vedeva come una semplice canzone d’amore.
Secondo Beardsley, questa e tutte le altre diverse chiavi di lettura risiedono
nell’opera stessa, non nell’intenzione di Sting.
Anche il
critico americano traccia una linea di pensiero: quest’ultima assomiglia però
più alla linea di uno schizzo preparatorio che a quella dei pittori francesi.
Beardsley ci prepara in qualche maniera all’atto interpretativo, restituisce
l’opera al pubblico come un oggetto dato, un oggetto estetico appunto, che deve
essere sviscerato e analizzato, ma non
necessariamente in funzione del pensiero originario dell’artista. Siamo noi, in
quanto fruitori, a disegnare sullo schizzo di preparazione il nostro quadro. Ci
riappropriamo della linea e disegniamo la nostra interpretazione non dovendo
fare necessariamente capo a nessun altro fattore.
Torniamo adesso
a Paul Klee. Nel 1918 il pittore dipinge un acquarello intitolato Una volta emerso dal grigio della notte...
(fig. 1). L’opera è composta da due
registri, uno superiore e uno inferiore, divisi da un grosso rettangolo marrone
e grigio in mezzo. All’interno di questi due registri troviamo una serie di
piccoli quadrati di diverso colore, tendenzialmente opachi. All’interno di
questi quadrati si possono intravedere una sequenza di lettere, le quali, lette
in sequenza, formano una poesia scritta dallo stesso Klee. Le lettere
utilizzate sono tutte maiuscole e sono disposte e disegnate in maniera tale da
nascondersi all’interno dei quadrati. L’effetto che si ottiene è quello di non
realizzare inizialmente di trovarsi davanti a lettere alfabetiche. Visto per la
prima volta il quadro infatti apparirebbe come una semplice serie di forme
geometriche - triangoli, cerchi e quadrati - disposte a caso. Solo dopo
un’analisi più attenta ci si rende conte che le forme geometriche inizialmente viste
sono il risultato dell’intreccio tra semplici quadrati e lettere alfabetiche.
Vedendo l’opera la prima volta, direi che questo è un gioco ottico, dove
l’artista vuole lavorare con la percezione del fruitore donandogli due modi di
vedere il quadro allo stesso tempo, quello dove si legge la poesia e quello che
ci appare come una semplice disposizione di figure geometriche colorate. Anche
l’idea di nascondere la poesia all’interno del quadro è interessante: la si
riesce a leggere solo se si presta molta attenzione all’opera, non appare
immediatamente. L’acquarello potrebbe apparire come un invito a vedere sempre
con molta attenzione e molta arguzia, mai soffermandosi solamente
sull’apparenza.
Non considero
quest’interpretazione univoca, ma penso non sarebbe un azzardo considerarla
quanto meno plausibile. Dopo la consultazione di alcuni libri e dei diarî
dell’artista stesso vengo a conoscenza del principio della sua poetica, da lui
stesso stabilita. Conscio di quello che abbiamo chiamato il tentativo di Klee di
“rendere visibile”, ma anche di dati biografici - l’acquarello in questione fu
creato durante il periodo di guerra che segnò molto la persona di Klee - mi
chiedo se la mia interpretazione vada rivista. Di Giacomo,
parlando dell’opera, la definisce come “una composizione poetica
tradotta in chiave pittorica” con “la consapevolezza che nella superficie
pittorica debbano darsi sia visibile che invisibile” [20] .
Sempre commentando quest’acquarello Foster e Krauss parlano invece di una
“tensione verso l’astrazione” dettata da un rigetto nei confronti del periodo
bellico [21] .
Vediamo insomma come le interpretazioni di studiosi, più qualificati e
informati di me, e le informazioni dettate dai diari di Klee stesso ci
forniscano dati importanti. L’acquarello sembrerebbe parlare di uno stato
d’animo molto angosciato che segnava in quel periodo l'artista e sembrerebbe riduttivo parlarne come di un’opera che richiami un semplice gioco
ottico e un invito a guardare le cose con attenzione. Alla
luce di queste informazioni mi chiedo se la mia interpretazione iniziale del
quadro debba essere cambiata.
Le divergenze
teoriche che intercorrono tra Danto e Beardsley sono molto accentuate. Ci
troviamo davanti a due linee nettamente distinte e divergenti. Danto,
all’interno dell’interpretazione, ha un fine verso il quale tendere, un
parametro di correttezza che è l’intenzione
dell’autore. La mia interpretazione del quadro di Klee sarebbe quindi
lecita, ma probabilmente scorretta,
poiché sarebbe più opportuno prendere in considerazione i fattori rivelati
dai suoi scritti e rapportarli il più plausibilmente possibile
all’opera. C’è da dire che per quanto acuta e brillante possa essere l'opera
principale di Danto, La Trasfigurazione
del Banale, essa non manca di pecche e
lacune interne. Prima di parlare del problema dell’intenzionalità, Danto scrive: «...l’interpretazione
appartiene analiticamente al concetto di opera d’arte. Vedere un’opera d’arte
senza sapere che si tratta di un’opera d’arte è paragonabile, in un certo
senso, all’esperienza che si ha delle lettere stampate prima di aver imparato a
leggere; e vederla come un’opera d’arte è allora come passare dal regno delle
mere cose a quello del significato» [22] ,
per poi contraddirsi e dire che siamo noi stessi ad attivare le opere con la
nostra interpretazione, come abbiamo visto in precedenza. Il critico insomma si
chiude in un circolo vizioso all’interno del quale ciò che si assume e ciò che
si vuole dimostrare si rincorrono vicendevolmente senza soluzione di
continuità. Oltre a questo rimarrebbe sempre il problema basilare dell’intenzione:
come faccio a parlare con sicurezza di intenzione per esempio un autore è morto
e non ha lasciato informazioni sulle proprie opere ?
Beardsley
è l’altra faccia della medaglia. Il
critico sembrerebbe non curarsi del legittimo problema che si pone Danto sulla
questione dell’interpretazione: il rischio dell’universalismo ermeneutico. Se
infatti Danto nella sua teoria mette in gioco idee molto ben definite come
quelle di interpretazioni corrette e incorrette, il lavoro di Beardsley sembra soffrire di assenza di
qualsiasi forma di restrizione. Forse l’esempio, sicuramente iperbolico,
fornito da me precedentemente sul David di
Michelangelo e sul suo esprimere una rappresentazione della figura del tricheco
è esagerato. Ma la domanda sorge spontanea: avendo come parametro d’indagine
solamente l’opera d’arte, di qualsiasi tipologia si tratti, e esprimendo un
giudizio in “buona fede”, ossia essendo fermamente conviti dell’interpretazione
che si sta dando, cosa mi potrebbe impedire di vedere un tricheco nella celebre
opera dello scultore rinascimentale se è quello che effettivamente vedo ?
Forse quella
che dobbiamo cercare non è una linea davidiana o la linea di uno schizzo
preparatorio. La linea di ricerca potrebbe assomigliare di più a quella pensata
e utilizzata da Paul Klee. Una linea flebile che cerca di raccontare
l’irraccontabile: la genesi della visione. Una linea che è consapevole di non
potersi mai compiere definitivamente, perche se lo riuscisse a fare non avrebbe
più motivo di esistere.
Quello
dell’intenzionalità è sicuramente un tema delicato: abbiamo preso in
considerazione, come ho stabilito all’inizio, due visioni molto radicali sulla
questione. Si potrebbe fare capo all’intenzione dell’artista come parametro, ma questo implicherebbe quasi un atto di fede
dogmatico, dove senza prove empiriche stabiliamo quale fosse l’intenzione
dell’autore. Si potrebbe esulare completamente invece da questa intenzione e
portare alla luce uno dei mille volti che può avere un’opera. Ma forse si
potrebbe anche cercare di trovare una via di mezzo: trovare una linea che
galleggia tra l’intenzione dell’autore e l’interpretazione del fruitore. Una
linea kleeiana che cerchi di far convivere visibile e invisibile, recezione del
fruitore e intenzione dell’autore. Una linea che cerchi far combaciare
l’interpretazione data da me su Una volta
emerso dal grigio della notte ... con quella dell’intenzione di Klee, una
linea che metta d’accordo il David michelangiolesco con i trichechi, se è
possibile.
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Paul Klee, Una volta emerso dal grigio della notte ..., 1918, acquarello e penna, Berna, Kunstmuseum
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Conclusioni
Nell’introduzione
di Forme dell’intenzione, Baxandall
spiega: «...quanto si offre in una descrizione è la rappresentazione del
pensiero a proposito di un quadro piuttosto che la rappresentazione del quadro
stesso. E dire che spieghiamo un dipinto tramite una descrizione può essere
allora considerato come un altro modo di dire che spieghiamo innanzitutto i
pensieri che abbiamo avuto in riferimento al quadro, e solo in secondo luogo il
quadro» [23] .
Riprendiamo
l’esempio introduttivo di questo lavoro: Every
Breath You Take. Posso descriverla come una canzone d’amore, ma questo non
implica che effettivamente lo sia. Nel dare questa interpretazione, descrivo i
miei pensieri a proposito della canzone. Se poi vengo a scoprire che l’autore
aveva pensato il pezzo in maniera diversa dalla mia descrizione e mi venisse chiesto
di cosa parla la canzone, probabilmente risponderei dicendo quello che l’autore
ha detto su di essa, anche se la mia descrizione – o interpretazione – iniziale
era diversa. Senza dubbio l’autore mantiene un’aurea di auctoritas sulle proprie creazioni
e, se decide, o ha l’opportunità, di rendere manifeste le sue intenzioni,
plasma e influenza le interpretazioni dei fruitori delle sue opere.
Da questo punto
di vista si può essere d’accordo con Danto. Il pubblico, confrontandosi con un
campo aperto e in qualche misura irrazionale come l’arte, cerca di
auto-controllarsi e di dare un senso alle proprie affermazioni, e l’unità di
misura che appare più certa e sicura in questo caso è l’intenzione
dell’artista. Bisogna anche tener presente che sicuramente c’è un fattore di
narcisismo nella ricerca dell’intenzione autoriale. Se infatti
l’interpretazione che diamo di un’opera combacia con l’intenzione dell’autore
automaticamente ci riusciamo a porre intellettualmente al livello dell’artista
stesso. Sapere quello che voleva dire Sting, almeno consciamente, quando ha
scritto questo brano è indubbiamente appagante. Ci permette di entrare in una
parte della fruizione che esula dal percettivo e sfocia nel campo
intellettuale. La logica che governa questa forma di narcisismo è molto simile
a quella che ci fa gustare le citazioni o i richiami intertestuali, i quali
sono tendenzialmente intenzionali.
Il fumetto
italiano Dylan Dog è un esempio lampante di questa dinamica. Il suo
creatore, Tiziano Sclavi, ha sempre ammesso in prima persona di avere
un debole per le citazioni e gli omaggi. Nel primo albo della serie il
protagonista (che di “mestiere” fa “l'indagatore dell'incubo”) si presenta alla
sua prima cliente con la frase «Mi chiamo Dog, Dylan Dog». Nell’intuire l’omaggio
che Sclavi ha voluto fare a 007, il celebre personaggio di Ian Fleming, che si
presenta dicendo «mi chiamo Bond, James Bond», il lettore del fumetto rimarrà
quanto meno piacevolmente sorpreso e solo per aver capito la citazione si
sentirà più appagato nell’avere letto l’albo.
È forse proprio
questo sentimento di soddisfazione e di narcisismo che spinge i fruitori a
cercare l’intenzione dell’artista ?
Un’opera ha
vari livelli di fruizione: posso vedere un quadro di Klee e godere solamente
nel vedere le caratteristiche formali. Ma se poi mi vado a leggere i suoi diarî
e i saggi critici sulle sue opere sarò sicuramente più conscio delle sue
possibili intenzioni e della sua poetica; questo mi permetterà di fruire della
sua arte sia sensibilmente sia intellettualmente. Ma per godere
intellettualmente di un’opera è necessario risalire alle intenzioni degli
autori ? Le cose, come abbiamo visto, si complicano ancora di più se ammettiamo
l’ipotesi dell’intenzionalità inconscia. «Del resto possiamo sapere qual è l’occasione
comunicativa per cui un quadro è stato dipinto, non l’intenzione dell’artista.
Come si fa a conoscerla, se l’intenzione è precisamente celata in lui, e
talvolta anche a lui stesso, e l’unica cosa che possiamo giudicare è il
prodotto che ne è venuto fuori ?» [24] ,
scrive il filosofo Emilio Garroni. Se le intenzioni sono celate anche
all’autore stesso è allora ammissibile dire che vi possano essere anche delle
intenzioni inconsce, che possono variare da influenze culturali - ciò che Riegl
chiama kunstwollen
- a influenze che arrivano dal profondo dell’inconscio dell’artista.
In
un’intervista del 1993, precedente quindi a quella citata nell’introduzione,
Sting racconta la genesi di Every Breath
You Take: «Mi svegliai nel mezzo della notte con quella frase in mente
(ogni respiro che farai), mi misi a suonare il
pianoforte e in mezz’ora la canzone era scritta. Il pezzo è di per sé generico, un aggregato di altre centinaia di
canzoni, ma le parole sono interessanti. Suona come una confortante canzone
d’amore. Non mi resi conto al tempo
quanto era sinistra. Credo che stessi pensando al Grande Fratello, sorveglianza
e controllo» [25] . Vediamo, dunque, che
nonostante la spiegazione della canzone, l’artista ammette la sua non
consapevolezza del significato del testo durante la creazione. Parlare di
intenzionalità inconscia è rischioso quanto parlare di intenzionalità conscia.
Non si possono avere certezze da questi filtri, ma semplicemente creare
ulteriori supposizioni e possibilità interpretative.
Ci si potrebbe
chiedere a questo punto: qual’è la motivazione nell’interpretare un’opera se
non sarò mai sicuro di quello che dico ? Penso che il fatto di non poter avere
la certezza delle proprie affermazioni
sia esattamente il divertimento del “gioco interpretativo”. Questo “gioco” presenta varî campi di lavoro:
l’intenzione del testo, la possibile presenza di una intenzionalità inconscia
e l’intenzione dell’autore. Sono convito
che quest’ultima sia uno dei fattori da tenere in considerazione, rammentando,
però, che essa è una condizione utile ma
non necessaria ai fini
dell’interpretazione. Si può, e si deve, attivare un’opera, come dice
Danto, ma è sempre il fruitore ad attivarla. Quello della canzone Every Breath You Take, come abbiamo
detto nell’introduzione, è un caso particolare. L’autore ha esposto le proprie
intenzioni coscienti. Ma generalmente questo non accade. Come sostiene
Beardsley, il testo-opera ha una logica propria, la quale, è legittima dal
momento che viene esposta dal fruitore, anche se non è stata concepita
dall’autore. Anche in questa maniera, autodeterminata, si può fruire l’opera
intellettualmente. Gli armonici rilevati da Hartman nella poesia di Wordsworth
sussistono dal momento in cui sono stati individuati, come le interpretazioni
degli amanti che hanno sentito in Every
Breath You Take una canzone d’amore. Si può fare appello all’intenzione
dell’autore per giustificare la propria interpretazione ma ricordandosi sempre
che questa supposta intenzionalità può non essere chiara anche all’artista
stesso. Il testo nasce come intenzione
ma vive dell’interpretazione altrui. Lo stesso Sting nel descrivere la genesi
della propria canzone mostra qualche
incertezza.
L’unica
certezza che abbiamo è quello che vediamo, leggiamo o ascoltiamo: il testo
stesso. Il singolo fruitore può arrivare a una verità che considera univoca su
un’opera, ma di certo qualcun altro ne
può trovare un’altra e questo meccanismo permette il confronto e dunque la
vitalità dell’opera. L’interpretazione
conforme alle intenzioni dell’autore è una delle possibili interpretazioni
dell’opera, ma questa non può essere né certa né corretta. Bisogna
aggiungere che la verità (interpretazione) – sia quella conforme all’intenzioni
autoriali che alle intenzioni del testo - alla quale si arriva non è fissa. Ha
invece la propria valenza epistemologica dal momento in cui viene elaborata, ma
può cambiare nel tempo. Posso osservare un quadro da adolescente e vederci
dentro la speranza in un futuro migliore e rivedere lo stesso quadro da adulto
e trovarci la placida serenità del presente. Il fruitore attiva l’opera, ma per
attivarla proietta anche se stesso nell’opera. Cambiando lo stato d’animo della
persona può cambiare anche l’interpretazione. Gli amanti che hanno dedicato Every Breath You Take agli amati lo hanno fatto convinti della loro
interpretazione, ossia che stavano manifestando il loro amore attraverso una
canzone. L’opera è stata attivata in quella maniera e ha comunicato quel
messaggio e ha funzionato.
Nel libro di
Robert M. Pirsig Lo zen e l’arte della
manutenzione della bicicletta troviamo un passaggio che per certi versi
spiega questo concetto appena espresso. Pirsig ci parla degli studî del
matematico Lobacevskij e della nascita del geometria non euclidea. Partendo dal
presupposto che la geometria euclidea si basa su postulati ed assiomi che hanno
una logica interna, il matematico russo prova a cambiare uno dei postulati, per
la precisione il quinto. Il risultato è
che cambiando uno dei postulati il sistema logico impostato da Euclide
non crolla, bensì arriva ad altre conclusioni, ad altre verità. Nella geometria
di Lobacevskij la logica interna persiste: è
semplicemente diversa da quella euclidea. Come facciamo a sapere quale
di queste geometrie è giusta ? Si domanda Pirsig nel libro. Se sia la geometria
euclidea che quella non-euclidea hanno una logica interna che non prevede
contraddizioni come si fa a sapere quale è quella giusta, o meglio quella
“vera” ? Questa domanda, secondo Pirsig, non ha senso e infatti aggiunge: «Una
geometria non può essere più vera di un’altra, può essere solo più utile. La
geometria non è vera, è vantaggiosa” [26] .
Una logica non esclude l’altra. Se un fan si è sposato con la canzone dei
Police come sottofondo alla festa di matrimonio è perché ha attivato in quella
maniera la canzone. Non è stata necessaria la spiegazione del testo».
Tutto questo
ragionamento non implica però che l’essere umano non senta il bisogno di conoscere il
più possibile l’opera. Alcune persone si accontentano delle proprie
interpretazioni autodeterminate (come hanno fatto gli amanti che hanno dedicato
la canzone dei Police alle amate). Ma altre sentono il bisogno di spingersi più
in là, andando ad approfondire tutti i fattori che caratterizzano la storia e
lo spirito di un’opera, anche perché, come abbiamo detto in precedenza, questo
lavoro permette di godere dei vari livelli che un’opera possiede. Questa spinta
è dettata dalla sete di conoscenza innata nell’essere umano e da una strana
forma di narcisismo nell’interpretazione. L’intenzione dell’artista è uno dei
fattori che caratterizza l’opera d’arte, anche se è andata perduta con la morte
dell’artista: alcuni fruitori la cercano, tendono verso di essa per meglio
apprezzare l’opera, per sentirsi loro per primi più appagati. Ma dove finiscono
le certezze su queste intenzioni e dove cominciano le speculazioni? Come si
arriva alla corretta interpretazione osannata da Danto?
Non si potrà
mai arrivare alla certezza assoluta – al massimo si può affermare l’intenzione
dell’autore attraverso una specie di dogmatismo ermeneutico. Certezza e
correttezza non possono esistere in questo campo di ricerca, al massimo si può
parlare di più plausibile e meno plausibile. Se esistesse un’interpretazione
“giusta”, dove per “giusta” si intende conforme alle intenzioni dell’autore,
questo implicherebbe che le altre interpretazioni siano
fallaci. Ma come avviene per la geometria euclidea e non euclidea, una logica
non deve escludere l’altra. L’unica
certezza che abbiamo è il testo/opera. L’interpretazione deve fare capo a esso
non alle intenzioni autoriali. Se il testo ammette un’interpretazione
fornita – come il sentire l’amore nella canzone dei Police o trovare gli
armonici di Hartman – allora quest’ultima è valida. L’intenzione dell’autore è
subordinata al testo, ci può fornire indicazioni, dare più “sapore”
all’interpretazione ma non darci certezze.
«L’ordine che
la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per
raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che,
se pur serviva, era priva di senso» [27] ,
con questa metafora il personaggio del frate francescano Guglielmo da Baskerville chiude la storia di cui è
protagonista, narrata nel libro Il nome della rosa di Umberto Eco. La
ricerca dell’intenzione dell’autore assomiglia un po’
alla scala citata dal personaggio di Umberto Eco: seppur ci serve nella misura
in cui placa, in parte, la nostra sete di conoscenza e il nostro giocare con
l’opera, non potremo mai essere sicuri universalmente delle suddette
intenzioni, motivo per cui, proprio come la scala, la ricerca dell’ intentio autoris ha una sua logica e
motivo di essere ricercata ma è anche priva di senso proprio.
NOTE
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Danto, Arthur Coleman, La trasfigurazione del banale: una filosofia dell'arte, a cura di Stefano Velotti, 2.a ediz., Roma - Bari, GLF editori Laterza, 2010.
De Vecchi, P. – Cerchiari, E. (2004), Arte Nel Tempo, Volume II, Tomo I,
Milano, Bompiani, 2004.
Di Giacomo, G. (2003), Introduzione
a Paul Klee, Bari, Editore Laterza, 2011.
Eco, U. (1980) Il nome
della rosa, Milano, Gruppo Editoriale Fabbri – Bompiani, Sonzogno, I
edizione “Grandi Tascabili”, 1984.
Garroni, E. (2005)
Immagine Linguaggio Figura, Roma-Bari, Editori Laterza, 2010.
Klee, P. (1898-1918), Diari
1898-1918, prefazione di Giulio Carlo Argan, con una nota di Felix Klee,
Milano, Editore Mondadori, 1990 [trad. it. Alfredo Foelkel].
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