«Conciosiacosa
che à la materia, che di scrivere così cortesemente mi stringete, piu tosto una
historia, che una lettera si richiederebbe», scrive Bernardo Tasso «Al Signor
Gio. Battista Peres» in una lettera datata tra il 1542 e il 1544.
Mobile
consapevolezza di una porosa frontiera fra generi – quello del trattato e
dell’epistola descrittiva –, il testo di Bernardo Tasso si apre all’insegna di
una retorica recusatio di fronte «à
le preghiere d’un amico»: descrivere Napoli in una lettera, evidenziarne
caratteristiche e punti salienti, appare allo scrittore impresa improba e
perigliosa «Perciò che una sì anticha, sì nobile, sì gloriosa città, da tanti
& antichi, & moderni famosi & honorati scrittori celebrata […] non
ha bisogno de le lodi mie; le quali piu tosto ombra, che lume à lo splendore de
le molte glorie sue potrebbono recare».
Nel procedere
eloquente di Bernardo Tasso risulterebbe impossibile parlare «del sito, de
l’aere, & de l’altre sue perfette, & honorate qualità, [in modo] che
non habbia con maggior’eloquenza, & auttorità detto Strabone, Servio,
Plinio & tanti altri gloriosissimi scrittori». Attraverso reiterate
negazioni – «non l’origine, ne i fondatori, ne gli antichi nomi […] ne cosa
altra particolare & distesamente dirò» – s’introduce una precisazione
relativa al genere epistolare, percepito come inappropriato ad una specifica,
ampia trattazione: «parendomi, che ad una lettera poco si convenga». Tasso
sembra dunque prediligere una rappresentazione impressionistica, contrassegnata
da cenni e “vaghezza”, ove si proceda «solo accennando la qualità del sito,
& del cielo; la bellezza, & nobiltà de la città, la vaghezza de
circonvicini luoghi; & alcune altre cose particolari da gli antichi
scrittori non toccate; come lodi più tosto del presente secolo, che de passati
[…]». E il riferirsi a caratteristiche della città non esposte da scrittori del
passato consente d’introdurre una visione contemporanea
di Napoli, ove il fervore costruttivo e trasformativo del presente sia elemento
da evidenziare con taglio personale, utilizzando dunque le possibilità di
libera composizione insite in un’epistola.
In un
secolo come il XVI, segnato a Napoli essenzialmente dalle elaborazioni
architettonico-urbanistiche, l’epistola di Bernardo Tasso propone un catalogo
di luoghi ed evidenze monumentali che contribuiscono a definire la percezione
storico-culturale della città facendosi, al tempo stesso, cronaca
dell’edificazione e delle trasformazioni più recenti, avvenute negli anni del
vicereame spagnolo di Don Pedro Álvarez de Toledo. Ma la
descrizione epistolare di Bernardo Tasso si struttura anche per immagini che
costituiscono una sorta d’incunabolo lirico di guide per viaggiatori colti, ove
si scrive: «[…] Napoli Illust. et Mag.ca città, esposta al Mezzo giorno, su le
falde, anzi in mezzo de le radici del monte di Sant’Hermo […], di Capimonte,
& d’alcuni altri piacevolissimi colli si riposa; l’onde mirando de
l’imperioso Tirrheno; le quali […] vengono per diritto sentiero ad incontrarla».
Viaggiatori e visitatori, tendenzialmente trascinati dall’accumulo di immagini
tassiane – e in grado di “campionare” e fondere tradizione erudita, presente in
trasformazione e raffigurazione artistica nello e dello spazio urbano –,
possono disporsi lungo una linea che dalla classicità giunge alle
raffigurazioni del Grand Tour e che
trova uno dei propri snodi alcuni decenni prima.
La «Napoli gentile del secondo Quattrocento»
appare condensata nella Tavola
Strozzi (1472-73), prima significativa rappresentazione panoramica della
città e delle sue stratificazioni, immagine che fonda una spazialità
orizzontalmente tripartita tra acqua, terra e cielo.
E l’episodio raffigurato nella Tavola,
possibile riferimento al ritorno in porto della flotta di Ferrante d’Aragona
dopo la vittoriosa battaglia d’Ischia contro il pretendente al trono di Napoli
Giovanni d’Angiò, segna uno dei momenti di rivalità del Quattrocento italiano,
tra papato e impero, ambizioni iberiche e francesi di controllo territoriale
sulla penisola. Al di là dell’interessata neutralità di Firenze e Venezia, è
l’asse tra il Regno di Napoli e Francesco Sforza a segnare l’elemento
costitutivo di una politica anti-francese per la quale Pio II si impegna
direttamente, come ricordano anche le lettere relative alla guerra nel
Napoletano. In un’epistola del 29 gennaio 1461 scrive infatti il Piccolomini: «Nos
enim cum dilecto filio nobili viro Duce Mediolani eiusdem animi sumus, ut totis
viribus regni statum defendamus, eiusque turbatores quoad possumus repellamus».
Celebrazione di
una recuperata serenità al termine del conflitto angioino-aragonese, la
rassicurante percezione della Tavola
Strozzi, ben diversa dalle caratterizzazioni di Napoli sovente presenti nei
testi di Petrarca e Boccaccio, è ripresa in anni coevi, tra il 1474 e il 1476,
dal toscano Francesco Bandini, che nel testo In laudem Neapolitane civitatis et Ferdinandi regis brevis epistola ad
amicum scrive: «da ogni banda che tu ti volgi, tu vedi cose liete et gentili». Nel corso di una
descrizione che non contempla negatività – «la divitia
delle cose è grande, et tutto in perfectione» – si delinea una raffigurazione
di Napoli all’insegna della trattatistica sulla città ideale, qui convertita in
forma epistolare. Tra i modelli descrittivi che potevano esser presenti a
Bandini, tralasciando per limitata o tarda diffusione i Trattati di architettura ingegneria e arte militare di Francesco di
Giorgio Martini e il De re aedificatoria
dell’Alberti, Hajnóczi Gábor sottolinea il ruolo del Trattato di architettura del Filarete, osservando: «La descrizione
degli edifici contiene uno degli argomenti preferiti agli autori rinascimentali
che trattano di architettura: l’esaltazione dell’antichità. A Bandini piace ad
esempio il Castello Nuovo per l’ “arco triumphale su la porta simile a quelli
egregii Romani” e, inoltre, secondo lui, Pozzuoli è un luogo dilettevole «per
la vista delle mirabili antiquità Romane vi si vegghono».
Contemplando
eredità classica, evocazione personale e attenzione alla trattatistica coeva
sulla città come luogo geografico di un possibile equilibrio politico, il testo
di Bandini costituisce snodo essenziale di una modalità percettiva di Napoli
che si riverbera in prose, versi e dialoghi a partire dal XVI secolo. Oltre la
lettera del pontaniano Pietro Summonte a Marcantonio Michiel, che nel 1524 si
contraddistingue come prototipo di «guida» alle opere d’arte presenti nella
città partenopea, il prosimetro Stanze
del Fuscano sovra la bellezza di Napoli, del 1531, ricorre a immagini
edeniche – «giardin celest’e non mondano», «giardin d’Adamo» – già presenti in
Bandini.
Anche in Bernardo
Tasso, accanto alla sequenza di domande retoriche sulle zone e sulle bellezze
della città e dei dintorni – «Che dirò d’Ischia, di Procida, di Capri […]?»; «Che
dirò di Pozzuolo […]?»; «Tacerò forse […]?» –, gran risalto hanno il tema e
l’interpretazione della classicità: e i luoghi storico-leggendari nei pressi
della città si caricano così di un’intensità storica che amalgama costumi e
mode, scontri bellici e momenti di
quiete.
Il riferimento
alla «virtù de bagni, ad ogni humana infermità propria, et accommodata» apre,
con le terme, la serie di incursioni in una romanità resa lirica e vaga,
destrutturata d’ogni approfondimento del tragico anche quando si cita «Plinio,
troppo ardito, et desideroso di veder le fiamme di Vesevo»: e la conclusione
della frase, che coincide con il «vi lasciò la vita», pare trasferire la
scomparsa dello studioso in una figura di cammeo in pietra lavica.
Testimonianza della «Romana grandezza» è il ponte voluto da Caligola fra
Pozzuoli e Baia, mentre «gli antichi famosi, affaticati, et stanchi da le attioni de la Romana Repubblica»
giungevano in loco a ritemprarsi o «à viverci tranquillamente gli ultimi anni
de la loro estrema vecchiezza»: «De la qual cosa et gli orti di Lucullo, et la
bellissima villa di Cicerone, et tanti altri edifici da l’ira del mare, et da
la rabbia del tempo consumati, et rosi, fede ne fanno».
Particolare, e più disteso, rilievo è attribuito alla figura di Virgilio,
assurto a simbolo di una predilezione per Partenope
non discutibile: «Questa l’eccellentissimo poeta, et prencipe de la lingua
latina, huomo in tutte le cose di perfetto giudicio, per sua habitatione eletto
s’haveva. Qui il libro de la sua agricoltura, et de pastorali essercitij
felicemente compose. Ne senza ragione lasciò ne l’ultima sua volontà, che le
sue honorate ceneri da Branditio à Napoli fussero riportate; come se ogni altro
luogo indegna sepoltura fusse di sì famose, et di sì reverende reliquie; le
quali anchora ne la via, che va à Pozzuolo, quasi nel cominciar de la grotta,
non senza invidia de la lor gloria, si lasciano vedere».
Momento emblematico
per la ricostruzione del rapporto di Napoli con la classicità latina è la
Seconda guerra punica: nell’ottica poetica di Bernardo Tasso, per la quale Impero è quintessenziato sinonimo di civiltà, «ne la piu avversa, et nemica
fortuna de lo Imperio Romano; allhor, che Annibale Campania, et quasi tutta
Italia sotto il giogo del Carthaginese dominio haveva sottoposta, questi nobili
cittadini alcune coppe d’oro per segno d’amore, et di fede, et per aiuto de le
loro necessità à Romani mandarono gratiosamente […]».
Se in Bandini era
presente una relazione tra esaltazione della romanità, lasciti archeologici
della classicità e strutture architettoniche coeve, in Bernardo Tasso la
latinità è rievocata attraverso trasfigurati riferimenti storici, mentre la
descrizione architettonico-urbanistica di Napoli è introdotta – all’insegna di
un organicismo certo tradizionale, ma qui intriso di una personale
rivisitazione – da un rapido riferimento al paesaggio, elemento di raccordo con
la precedente immagine di una romanità che si ristora nelle ville
dell’antichità. Scrive dunque il poeta: «Ne meno, che di sito, et di cielo, è
di corpo bellissima questa città; piena di palagi signorili, di tempi superbi,
di piazze spatiose, di strade ampie, et dirittissime, di porte reali, et
magnifiche, di mura forti, et inespugnabili, di porto da tutte le marine
tempeste difeso, et securo, abondantissima d’acque, che caggiono di cielo, et
di fontane vive […]».
Veduta d’assieme
che fonde caratteristiche naturali e costruzioni umane, percezione panoramica
ed enumerazione di singoli elementi edificati, il passaggio testuale consente a
Bernardo Tasso una ravvicinata doppia citazione, sorta di dedica interna nel corpo della lettera, del
Viceré di Napoli: «Torto certo farei à l’infinita virtù de l’ecc.mo S.or Don Pietro di Tolledo,
al presente Vicerè di questo Regno, s’io non dicessi il molto studio, et le
continue, spese fatte per renderla al pari di tutte le altre bella, et
riguardevole; come le fontane da mastra, et d’artificiosa mano di finissimi, et
di bianchi mari scolpite, il Parco, le Castella di Capuana, et di Sant’Hermo,
le strade di Nido, de l’Olmo, de la Sellaria, la novamente ad honore eterno di
sua Ecc.tia nominata di Tolledo, et tutte le altre, per opera sua tali rendute,
quali si mostrano, del loro obligo, et de la sua virtù fede faranno à la
posterità».
L’omaggio al Viceré Don Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga permette di
evidenziare uno snodo cronologico e concettuale relativo all’epistola tassiana.
Composta entro il 1544 – anno di nascita di Torquato –, la lettera precede di
poco la caduta in disgrazia del principe Ferrante Sanseverino, per il quale
Bernardo Tasso svolge incarichi in Italia e all’estero. Nato a Napoli nel 1507,
generale di Carlo V e tra coloro che nel 1535 partecipano alla conquista di Tunisi,
come Principe di Salerno è artefice del rinnovamento culturale della città cui
deve il titolo. Nella residenza salernitana del Castello di Arechi ospita
intellettuali e artisti, fra i quali il filosofo Agostino Nifo e Bernardo
Tasso. Il Palazzo Sanseverino nel centro di Napoli è l’emblema dell’eccezionale
e privilegiato ruolo nel Regno di quest’antica famiglia, di origine normanna. Anche
se la costruzione diviene evidenza architettonica del rovesciamento della fortuna e di vicende storiche che si
strutturano in modo divergente rispetto alle liriche prospettive del Tasso,
come si dirà più avanti.
Strade, fontane, parchi e castelli citati dal
poeta sono oggetto dell’attività costruttiva voluta da Don Pedro, che assume le funzioni
vicereali nel 1532 mantenendole fino alla morte, nel 1553. La pestilenza del
1529 aveva da poco segnato Napoli,e il Viceré avvia un’opera di ristrutturazione di edifici-chiave della città, nonché
di ridefinizione urbanistica nella logica di funzionalità e rappresentanza del
potere imperiale. Alla luce dei successivi eventi che costringono all’esilio il
Sanseverino e lo stesso Bernardo Tasso, gli elementi urbani citati dal poeta,
destinati a contraddistinguersi tra i luoghi deputati dell’articolazione
spaziale e della percezione di Napoli, assumono connotazione del tutto diversa
rispetto allo sguardo vagamente arcadico, e ancora sostanzialmente imbevuto del
topos della città «gentile del secondo Quattrocento»,
dell’epistola tassiana.
Nel 1534 il Viceré dà avvio alla pavimentazione
delle strade e alla creazione di aree residenziali oltre i limiti della città
vecchia. Il suo nome è direttamente legato alla creazione di Via Toledo: se
nel corso dei secoli ha assunto il ruolo di strada del passeggio e del
commercio, tale asse viario nasce in realtà come percorso di collegamento verso
gli alloggi delle truppe imperiali, nell’area degli attuali «Quartieri Spagnoli»,
con la predisposizione di fontane-punti di approvvigionamento idrico. Le «Castella
di Capuana» citate da Bernardo Tasso sono le Corti di giustizia in Castel
Capuano, ove verso il 1540 si avvia la trasformazione dell’antica e austera
residenza reale per riunirvi le corti in precedenza distribuite in vari luoghi
della città: viabilità verso l’acquartieramento spagnolo e centralizzazione
tribunalizia sono l’esito della comune matrice progettuale degli architetti
Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa, protagonisti di un processo di
rinnovamento architettonico-urbanistico di assoluto rilevo nel XVI secolo.
Tra i lavori eseguiti dal Manlio, nominato nel
1545 ingegnere di corte e chiamato a sovrintendere all’insieme delle
realizzazioni in città per conto del potere vicereale, spiccano gli interventi
su Castel dell’Ovo, Castel Nuovo e Castel Sant’Elmo, integrati attraverso
bastioni in una struttura difensiva articolata, sorta di «esploso»
cinquecentesco della cintura protettiva muraria e naturale individuabile nella Tavola Strozzi. Raffigurato nella stessa Tavola con le caratteristiche dei
castelli di area provenzale, il forte di «Sant’Hermo» dell’epistola tassiana è
una costruzione di origine trecentesca sulla sommità della collina ove già
sorgeva la chiesa di Sant’Erasmo – con successiva alterazione del nome in «Elmo»
– che svolge un ruolo rilevante nella
logica difensivo-militare di Don Pedro. Lo stesso Viceré ne
affida nel 1537 la ristrutturazione all’architetto Luis Escrivá che,
abbandonato il cantiere del Forte spagnolo all’Aquila, realizza una struttura
stellata priva di torrioni, con sei punte sporgenti di circa venti metri dal corpo centrale; dove
nel 1538 sul portale d’ingresso viene sistemato lo stemma asburgico di Carlo V.
La ridefinizione strutturale della fortezza di Sant’Elmo, rimasta per
secoli sostanzialmente separata rispetto al fluire della città – sorvegliata
dall’alto come luogo da controllare –, conduce nuovamente al periodo di
composizione dell’epistola di Bernardo Tasso e al destino politico-personale
dell’autore e del Principe di Salerno. Non appena terminata la ricostruzione del
Castello, i suoi cannoni diventano essenziali per sedare la rivolta scoppiata a
Napoli nel 1547 nei confronti dell’introduzione dell’Inquisizione spagnola:
in accesa rivalità con il Viceré, Ferrante Sanseverino si fa interprete presso
l’Imperatore di un sentimento di disapprovazione e ostilità rispetto alle nuove
norme. La reazione di Don Pedro è di totale avversione: i feudi del Principe
sono confiscati, il suo palazzo nel centro di Napoli è sequestrato e messo in
vendita, Ferrante Sanseverino, esiliato nel 1552, trova riparo in Francia,
morendo ad Avignone nel 1568. Bernardo Tasso, che aveva accompagnato il
Principe alla corte di Carlo V, subisce la medesima sorte: confisca dei beni ed
esilio, le cui prime tappe sono Venezia, Ferrara e Roma.
Emblema architettonico di deviazioni e metamorfosi storiche, il Palazzo
napoletano confiscato al Sanseverino sarà acquistato dai Gesuiti nel 1584.
Iniziato nella seconda metà del XV secolo per volere dell’allora Principe
Roberto, l’edificio è dovuto – come ricorda l’epigrafe in latino sulla facciata
– a Novello da San Lucano: «Novello da San Lucano, architetto egregio, più per
ossequio che per mercede innalzò questo palazzo al Principe di Salerno, suo
signore e precipuo benefattore, l’anno 1470». Probabilmente originario di un
feudo lucano dei Sanseverino, l’architetto e compositore Novello dà vita a una
facciata in piperno bugnato a punta di diamante, evidenziando così, oltre
all’alternanza di chiari e di scuri, una struttura compatta e improntata a
spirito bellico-difensivo. Di oltre venti anni anteriore al paramento utilizzato
a Ferrara da Biagio Rossetti nel Palazzo dei Diamanti, tale rivestimento, che non
appare presente in Italia meridionale prima del 1470, evidenzia un carattere particolarmente
laico-aggressivo delle bugne, le cui punte sarebbero state oggetto di
un’operazione di smussatura una volta acquisito l’edificio da parte dei
Gesuiti. Architetto e pittore, Padre Giuseppe Valeriano (1526-1596) dirige i
lavori di trasformazione del Palazzo Sanseverino in edificio ecclesiastico,
preservando parte della facciata e definendo una pianta a croce greca con
braccio longitudinale leggermente più lungo, cupola centrale e quattro cupole
minori. Tuttavia incendi, eventi bellici e terremoti, che colpirono in
particolare la cupola, fanno dell’ex Palazzo, poi Chiesa del Gesù Nuovo, un
edificio del tutto singolare, convertito dal profano al sacro e variamente
rimaneggiato e stratificato nei secoli, con perdita delle decorazioni originali
in favore dell’inserimento di opere del Seicento e del Settecento.
Continuità per negazione, metamorfosi e risignificazione, il mutamento del
Palazzo Sanseverino in chiesa chiude una fase di rinnovamento architettonico e
urbanistico nella Napoli cinquecentesca, costituendo il corrispettivo edilizio
dell’esilio del Principe di Salerno e del suo segretario Bernardo Tasso. E le
domande da quest’ultimo accumulate verso la conclusione della propria epistola
– «Qual patria nel circuito de la terra hoggi si mostra […] Ove siano tante chiare, et Ill.mo famiglie? Tanti valorosi cavallieri,
così ne l’armi, et ne la disciplina militare, come ne gli studi de le buone
lettere, et de le scientie sin da la loro prima fanciullezza essercitati?» –
non possono che malinconicamente adattarsi per contrappasso alla mutata fortuna
del poeta e del suo signore: lontani da Napoli e privi della possibilità di
esprimersi su «questa eccellentissima città», si ritrovano forzatamente nella
condizione di colui al quale «più tosto mancherebbe lo spirito, et le parole,
che cause, et materie di poterle lodare».
Oscillando tra reminiscenze letterarie classiche e riferimenti alle coeve
trasformazioni dell’area urbana partenopea, l’epistola di Bernardo Tasso
attribuisce a sé il versante dell’esteriore,
di ciò che si racconta o che si vede dall’esterno, ed esclude totalmente dal
proprio orizzonte descrittivo il piano artistico-figurativo interno, proprio negli anni in cui, tra
il 1544 e il 1545, si situano una serie di interventi di Giorgio Vasari in e
per Napoli, anche in diretta connessione con il potere vicereale: a San
Giovanni a Carbonara, a Santa Maria di Monteoliveto (nota come Santa Anna dei
Lombardi), al Duomo e nella Cappella della Sommaria in Castel Capuano.
Introdotti da una formulazione sostanzialmente immutabile – «Ricordo come a
dì […]» – che ne formalizza caratteristiche del tutto lontane dallo
sperimentalismo aforistico dei Ricordi
di Guicciardini, nelle Ricordanze del
Vasari si sgranano, compresi tra il 1527 e il 1572, brevi paragrafi che
riassumono l’attività svolta e i compensi percepiti dall’artista del
manierismo.
Ecco quindi Vasari rammentare che «a dì 7 di novembre 1545» è a Napoli per la
realizzazione della tavola per l’altar maggiore della chiesa di Monteoliveto e
che, il 20 novembre, l’Abate Generale della medesima Congregazione di Napoli
gli «alloga a fare inel Convento di detto monasterio il refettorio […] con queste storie». Per rendere più luminoso l’ambiente e sottrarlo alle
caratteristiche tardogotiche della chiesa iniziata nel 1411, si stabilisce di
schiarire e uniformare le volte di quella che è poi divenuta la Sacrestia, «ci[o]è
in prima che tutta la volta si rifaccia con ornamenti di stucchi lavorati sodi
di marmo pesto e calcie a tutte spese loro», onde consentire agli artisti
d’inserirvi «venti sette figure distinte per virtù […] e quelle volsono che fussino lavorate in fresco perfettissimamente, e che
le tramezzassi 48 vani pieni di diverse grottesche lavorate in sullo stucco et
in mezo una inmagine del cielo che son tutte n° 48».
Analogamente, sulla parete finestrata, ricorda Vasari che «si dovessino far di
stucco a spese loro gli ornamenti […] Et in quelle le pictture
fussi obbligato a farle io, dove debbo fare sei storie in sei ovati con le
figure dello Evangelio di Cristo […]».
L’impresa decorativa vasariana, considerabile la più ampia e organica
epifania pittorica a Napoli del rinascimento fiorentino maturo – corrispettiva
della toscana definizione scultorea-spaziale della Cappella Piccolimini nello
stesso edificio ecclesiastico –, è connessa ad altri interventi nell’area
dell’artista toscano, che lavora talvolta a Roma inviando poi l’opera a Napoli,
come per la commissione per la chiesa di San Giovanni a Carbonara.
In due lettere delle Ricordanze
vasariane si citano relazioni dirette con il Viceré per delle commesse, una
delle quali relativa alla dimora che Don Pedro, particolarmente toccato
dall’eruzione che colpì la cittadina nel 1538, si fece allestire e decorare a
Pozzuoli. Si osserva in proposito: «In uno dei lati [dell’edificio] era posta
una piccola cappella ricordata nell’inventario per il modesto […] corredo d’altare. Proprio in questo piccolo ambiente intervenne, su invito
del vicerè, Giorgio Vasari nella seconda metà degli anni ’40 […]».
Ma l’intervento dell’artista a Pozzuoli deve aver interessato, secondo le
richieste del committente, anche un loggiato poiché si cita, alla data del 14
aprile 1545: «Una loggietta lavorata di stuchi a figure, ornamenti, grotesche,
fogliami e colorita piena di storie lavorate in fresco per quel prezzo che
finita montava detta opera e che per lo scomodo di detta, per essere discosto
da Napoli miglia X, a Pozzuolo in sulla marina, convenimmo che detto Don Pietro
dovessi darci stanze, letti e provisione per il vitto d’acordo. Apresso fu
finita detta opera al’ultimo di luglio 1545 valeva detta scudi 250, non mi fu
pagato altro che scudi ottanta di grossi sette per ordine di Raffaello
Acciaiuoli e Giuliano Tovagli in Napoli sotto dì 14 d’agosto 1545, scudi 80».
Con il loggiato “vasariano” di cui è difficile
ricostruire l’esatta ubicazione, e con la passione del Viceré per la Pozzuoli
citata nella coeva lettera di Bernardo Tasso, si avvia alla conclusione la
nostra lettura di un’epistola sullo sfondo di una realtà urbana in evoluzione.
Negli anni in cui termina l’attività di Don Pedro,
morto a Firenze nel 1553, giunge in Italia Pieter Bruegel (1525 circa-1569). Dal 1551, valicate le Alpi dopo un
transito da Lione, l’artista fiammingo soggiorna a Roma, avendo modo di
spingersi fino alla Calabria e alla Sicilia: è del 1552 la Veduta di Reggio Calabria attaccata dai Turchi,
mentre della Battaglia navale nello
Stretto di Messina resta l’incisione su due fogli, probabilmente del 1561,
che Frans Huys (1522-1562) ricava da un olio di Bruegel. Verosimile pendant pittorico della scena siciliana,
di cui ha misure pressoché identiche, è la Veduta
del porto di Napoli (nota anche come Battaglia
nel Golfo di Napoli), databile tra il 1556 e il 1562. Strutturata con
elementi simili – vulcano in eruzione sulla destra, serie di velieri,
circolarità delle forze in campo e delle linee costiere –, la scena attribuita
a Bruegel, mentre evidenzia Castel dell’Ovo sulla sinistra, Castel Nuovo a
guardia del porto e Castel Sant’Elmo sulla sommità collinare, volge in dinamico
senso della natura all’insegna del paesaggismo fiammingo la composta linearità
della Tavola Strozzi, deviando dalla
sua resa realistica e costituendo un tassello rilevante della percezione della
scena urbana di Napoli, con esiti d’immaginifica lettura personale non
dissimili dall’interpretazione lirica della città suggerita dall’epistola di
Bernardo Tasso.
NOTE
[1] Bernardo Tasso, Al
Signor Gio. Battista Peres, in Delle lettere di M. Bernardo Tasso, Vol.
I, Padova, Comino, 1733, Google
Play Books. Se non diversamente indicato, tutte le citazioni dell’epistola di Bernardo
Tasso provengono da questa edizione.
[2] Pasquale Sabbatino, Sannazaro
e la cultura napoletana nell’Europa del Rinascimento. Tessere per la geografia
e la storia della letteratura, in Letteratura e arti figurative, Dispensa Università degli Studi di Napoli Federico II - Facoltà di Lettere e
Filosofia, a.a. 2010-11.
[3] Cfr. Ettore Janulardo, La città e la cattedrale: visioni di Napoli tra Trecento e Cinquecento,
in AA.VV., Significato e funzione della
cattedrale, del Giubileo e della ripresa della patristica dal Medioevo al
Rinascimento – Atti del XXIII Convegno Internazionale (Chianciano
Terme-Pienza 2011), Firenze, Cesati, 2013, e Mario Del Treppo, Le avventure storiografiche della tavola
Strozzi, in Paolo Macry - Angelo Massafra (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Il
Mulino, Bologna 1994, pp. 483-515.
[4] Achille
Ratti (a cura di), Quarantadue lettere originali di Pio II Relative alla guerra
per la successione nel reame di Napoli (1460-1463), in «Archivio Storico Lombardo», ser. III, 19, 1903.
[5] Francesco Bandini, In laudem Neapolitane civitatis et
Ferdinandi regis brevis epistola ad amicum (1474-1476 circa). Cfr. Paul
Oskar Kristeller, An unpublished
Description of Naples by Francesco Bandini, in Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 1984, pp. 405-10.
[7] Chiamata Via Roma tra il 1870 e il
1980.
[8] Sorta di contraltare allo stemma
asburgico-imperiale all’ingresso di Castel Sant’Elmo, è la lapide del 1871
nella corte principale della Certosa di San Martino, che ricorda questa fase di
conflittualità nel Napoletano: «Ai popolani di Napoli / che nelle tre oneste
giornate di luglio 1547 / laceri male armati e soli d’Italia / francamente
pugnando dalle vie nelle case / contra le migliori bande di Europa / tennero da
sé lontano l’obbrobrio / della Inquisizione spagnuola / imposta da un
Imperadore fiammingo e da un Papa italiano [Paolo III
Farnese] /
e provarono anche una volta / che il
servaggio è male volontario di popolo / ed è colpa de’ servi più che de’
padroni».
[9] «NOVELLUS DE SANCTO LUCANO ARCHITECTOR EGREGIUS
OBSEQUIO MAGISQUAM SALARIO PRINCIPI SALERNITANO SUO ET DOMINO ET BENEFACTORI
PRECIPUO HAS EDES EDIDIT ANNO MCCCCLXX».
[10] Giorgio Vasari, Ricordanze,
1527-1573, edizione digitale a cura della Fondazione Memofonte
http://www.memofonte.it/autori/giorgio-vasari-1511-1574.html.
[11] Giorgio Vasari, Ricordanze,
1527-1573, op. cit.
[13] Silvana Musella Guida, Don Pedro Alvarez de Toledo. Ritratto di un principe nell’Europa
rinascimentale, in «Samnium», LXXXI-LXXXII, 21°-22°, pp.
239-353.
[14] Giorgio Vasari, Ricordanze,
1527-1573, op. cit.
[15] Inchiostro e acquerello su carta,
155x241 mm., Rotterdam, Museum
Boymans-van Beuningen.
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