Kounellis. Tra storia e invisibile
Gian Paolo Rabito. Forme del silenzio
Liquide ombre: Kentridge a Roma
Il gigantismo delle raffigurazioni di Kentridge - evocate dal muro anche per una decina di metri ciascuna - ha portato a commentare Triumphs and Laments in termini michelangioleschi. E in uno scorrere della raffigurazione che evidenzia il procedere trionfale e l'abbattersi sofferente degli sconfitti - tutti ri-creati sull'argine dopo un percorso fatto di ricognizioni, schizzi, disegni a carboncino e sagome da giustapporre al muro -, il nero scalfito è traccia unificante di una lettura para-cinematografica che può essere michelangiolesca, barocca, sotto il segno di Scipione e dei segni impressi dalla non pacificata visione della storia di Mario Sironi.
Le liquide ombre di Kentridge, assenze che si fanno percepire, chiarori chiamati a disperdersi nei pressi dell'acqua, testimoniano di un passaggio che incide provvisoriamente ma durevolmente nello spazio urbano.
Forme urbane e dell’abitare. Note su Leon Battista Alberti
Rivisitazione-superamento del De architectura di Vitruvio, rielaborazione concettuale nell’ambito di un’estetica e
di una metodologia conoscitiva del costruire che si propone di
riformulare anche linguisticamente partizioni e suddivisioni antiche,
i dieci libri del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti
pongono al centro dell’attenzione questioni di carattere
urbanistico e formale, strutturando in modo decisivo – con il contributo di considerazioni
presenti in altre opere dell’architetto-umanista – tematiche come
quelle della collocazione del sito cittadino, della sua tipologia,
del rapporto con il territorio circostante: all’interno e
all’esterno del perimetro abitato, si riflette sulla forma
urbis.
L’apporto albertiano sembra stagliarsi nell’orizzonte sapiente e fiducioso, raccontato e
architettato, ove la stagione civile fiorentina si coniuga con la definizione dello spazio come divenire
urbano, facendo del coevo tempo una forma aperta, uno sporgersi nella storia, da
contrassegnare e ridisegnare.
Piramide Cestia e Cimitero acattolico: all’ombra di Piranesi, luoghi per riemersioni mito-poietiche
La Piramide Cestia, da dimora di un corpo, diviene dal secondo decennio a.C. corpus monumentale della memoria nell’attraversamento delle epoche: integrata nel perimetro delle Mura Aureliane, si fa perno simbolico nel piano urbanistico di Roma, tesa, attraverso la Via Ostiense, verso il porto e il mare.
La Piramide contrassegna con la verticalità del suo volume acuto la piccola distesa del vicino Cimitero Acattolico. Densa di sepolcri e nomi stranieri – tra i
quali artisti e scrittori come Keats, Shelley, Gregory Corso – l’area,
aperta nel 1821 sotto papa Pio VII per regolamentare precedenti
consuetudini di sepoltura, ospita anche le spoglie di intellettuali
italiani quali Bellezza e Gadda, nonché le “ceneri di Gramsci”
attorno alle quali si coagulano le pasoliniane visioni dell’Aventino
e del Testaccio. All’ombra della Piramide l’articolazione architettonica della monumentalità
cimiteriale assume una valenza urbanistica che connota di profondità
letteraria e pittorica l’area.
La rilevanza visiva del recinto cimiteriale “acattolico” è consacrata dalla prospettiva visiva
assunta da Piranesi, che realizza incisioni della Piramide osservata
dall’area sepolcrale. Prolifico incisore e architetto sommamente parco, l’artista è autore di uno dei primi monumenti del vicino cimitero, quello del giovane scozzese Sir James MacDonald.
Ma, alla ricerca di effetti “per risuscitare Roma, per spandere sulle sue rovine la maestà di una luce che non appartiene al mondo
dei vivi, ma all’immortalità”, come osserva Focillon (Estetica dei visionari), egli definisce soprattutto una sorta di definitivo omaggio a una
costruzione verticale che si innalza sulla superficie orizzontale, in un confronto che compendia assi differenti: il chiarore e l’oscurità,
quanto si vede e ciò che si potrebbe vedere, memoria di altre piramidi, come la Meta Romuli dell’Ager Vaticanus o come quelle della Piazza del Popolo.
Segnacolo del limes tra Urbs e altro/aldilà, nonché allogena criptica struttura cui si dedicano varie tavole nel terzo tomo de Le antichità romane, l’immagine piranesiana della Piramide si fa presentificazione del passato da ridisegnare e ricostruire in emblematico continuum tra storia pagana ed epoche successive, paradigmatica conferma della ricorrente topografia dell’Urbe, che mantiene nei secoli sistemazioni spaziali delle zone funzionali definite in età romana.
“Frontiere” danubiane: per un'archeologia della destrutturazione fluida
Silloge d’immagini e di scene dall’Oriente europeo e dall’Austria
fin-de-siècle, omaggio alla tradizione di una continuità e
molteplicità culturale sentita già lontana, geografia della
percezione e della rappresentazione - il volume è illustrato da
disegni dello scrittore -, la fantasmagoria di Rezzori Storie di
Maghrebinia accompagna il corso del fiume e del tempo, come se
riprendesse uno spazio della scrittura che allude, senza aderirvi
necessariamente, alla complessa varietà delle terre danubiane: del
passato e del secolo scorso. Tabucchi parla in proposito, anziché
dell’«autonomia del personaggio» attribuita alla finzione
narrativa, dell’«autonomia del luogo», ove la memoria non è
perduta ma perdura.
Sono pagine che si pongono come limes, limaccioso o mobile, in
cui lo sguardo divergente dell’autore trasforma il paesaggio
storico-culturale in frammentismo per una narrazione mimeticamente
barocca, secondo la tipologia centro-europea.
In un processo di accumulo e giustapposizione cromatico-linguistica,
la percezione dello scrittore-disegnatore trasforma la visione
frontale, o da lontano, secondo assi di rifrazione che potrebbero
connettere sottosuolo e colline, reperti archeologici e alzati delle
costruzioni, musicalità della parola e campiture della pittura. E i
campanili «ad aglio» possono ricordare raffigurazioni pittoriche di
Egon Schiele.
Limes liquido, separatore ed unificatore, traccia naturale fra
terre drammaticamente aderenti alla propria storia, se si giunge alla
foce del fiume - al Mar Nero e ad altre fluide transizioni -,
possiamo osservare che le raggelate «storie straordinarie»
raccontate da scrittori mitteleuropei trovano un’eco perfettamente
rispondente nelle pagine memoriali di Orhan Pamuk.
Metamorfosi di architetture. Strutture ed esposizioni alla Centrale Montemartini di Roma
La Centrale Montemartini dell’Ostiense, all’insegna di un moderato eclettismo, si
definisce per una pregnanza di volumi prevalentemente orizzontali,
lontani dalle vibrazioni verticali del macchinismo immaginate dai
futuristi.
Le architetture primo-Novecento della Montemartini, con decorativismi che rivestono a tratti
l’ambientazione industriale di elementi para-ludici come festoni e
danze femminili, sono il sostrato di un aggregarsi e trasformarsi di
volumi nell’arco di decenni (dall’inaugurazione nel 1912 alla sua
dismissione nel 1963). Articolazioni degli spazi, demolizioni di
strutture e rifunzionalizzazione delle aree della struttura appaiono
segni di un’ibridazione “genetica” corrispondente al suo
eclettismoartistico-funzionale: in grado di produrre elettricità sfruttando turbine a vapore o
motori diesel, la Montemartini si determina (in)consapevolmente come
insieme ludico-modulare, in grado di trasformarsi anche in
ambientazione espositivo-museale.
Sarà infatti dopo un parziale abbandono che la Montemartini, nel solco
architettonico e concettuale del postmodernismo, virerà dagli anni
’90 verso tale dimensione – prima con limitate esposizioni
temporanee, poi con l’allestimento provvisorio proveniente dai
Musei Capitolini – fino alla sistemazione definitiva con la
ripulitura e la riproposizione “filologica” dei grandi motori,
chiamati a focalizzare lo sguardo nella Sala Macchine. Oltre a
rivestire un carattere giocosamente e provocatoriamente
neo-futurista, la musealizzazione a contrariis della
Montemartini rientra così in una visione dialettica del patrimonio.
Architetture liriche da Buenos Aires
Sull’asse di un rapporto non univoco tra sensibilità borgesiana e altre
aspirazioni culturali, seguiamo tracce urbane tra architetture e
storie, liriche e visioni, finzioni e fusioni. Primo libro pubblicato
da Borges nel 1923, le poesie di Fervore di Buenos Aires
definiscono una meditata immagine sintetica della città. Nulla che
rappresenti gli spasimi della modernità e della (ri)costruzione,
figurata o propria, tipici di certe esperienze europee del primo
dopoguerra.
Le parole di Borges sul predominio dell’orizzontalità nella capitale,
solo sporadicamente segnata da “umilianti” edifici sviluppati in
altezza, sembrano indirizzarsi in negativo al più grande edificio
per uffici di Buenos Aires: quel “Palacio Barolo” che, realizzato
tra il 1919 e il 1923, è temporaneamente la costruzione più alta
dell’America meridionale e, fino al 1935, della città.
L’imprenditore tessile italiano Luigi Barolo, giunto in Argentina
nel 1890, ne affida la realizzazione all’architetto milanese Mario
Palanti, consentendo così la creazione di una struttura edilizia in
grado di condensare diversi elementi concettuali. Nello stesso anno
in cui è pubblicato il borgesiano Fervore di Buenos Aires, viene
inaugurato in Avenida de Mayo il “Palacio Barolo”, frutto di un
eclettismo architettonico cosmopolita capace di veicolare stilemi e
passioni da un continente all’altro.
Due opere di Bruegel fra comico e tragico
Grottesca raffigurazione di una perniciosa ghiottoneria, il Paese
della cuccagna di Bruegel (1567) rientra in
un filone moralistico di scene, dipinte o incise, ove si
rappresentano stoltezze e ingenuità di un’umanità confusa e
incerta, alla ricerca di un “altrove” di godimenti.
In un’analisi incrociata, la Parabola dei ciechi, opera della piena maturità bruegeliana
composta un anno prima della morte, si allontana dal formicolante
brulichio di altre celebri composizioni del fiammingo per senso della
misura e per una monumentalità che definisce e struttura spazi
simbolici.
Che si sia dunque di fronte a un “luogo” fatto di alimenti o a un paesaggio
campestre all’insegna di una metafisica parabola, di fronte al
disordine e all’errore non resta che tentare di riconoscere un
comune destino sul quale riflettere.
Immagini di giardini e scenari urbani del Novecento
Multiple visioni di biforcazioni nel tempo strutturano il testo borgesiano de
Il giardino dei sentieri che si biforcano: e percezioni spaziali, ma anche temporali, di giardini e parchi
attraversano valutazioni architettoniche, tratti figurativi, trame
letterarie in relazione allo scenario urbano italiano della prima
parte del Novecento.
Per l’artista futurista Azari «la letteratura e la pittura
contemporanea» continuano ad abusare della tematica floreale con
immagini «trite» e «stucchevoli»: in nome di una visione
sintetica della natura e del giardino, egli elenca le limitatezze e
le mancanze della flora tradizionale, del tutto aliena dal dinamismo
plastico della contemporaneità.
Altre immagini di giardini e parchi attraversano l’ambito artistico
letterario della prima parte del Novecento. Se all’interno di una
matrice tendenzialmente razionalistica, e sovente nel tardo Ottocento
programmaticamente positivistica, si sono delineate riflessioni sui
parchi e i giardini – visti comunque come elemento sostanzialmente
accessorio o “residuale” rispetto al costruito – Piacentini,
con l’ambizione di procedere al nuovo modello della forma
urbis di Roma all’interno di un
piano predefinito, si sofferma nel 1938 sul progetto urbanistico
dell’E42, evidenziandone la principale peculiarità: la prevista
Esposizione Universale, oltre ad inserirsi nel novero delle grandi
manifestazioni internazionali, vuole celebrare il ventennale del
fascismo delineando, attraverso la creazione di un intero quartiere
monumentale, una linea di collegamento ed espansione verso il mare,
con insistita simbologia politica.
Kounellis. Note sul fumo e l'oro
Il nomadismo intellettuale è condizione fondante per Kounellis.
L’artista greco, a Roma dal 1956, trasforma l’arcano persistere
delle culture in dinamismo d’artificio e di pensiero, che rende
“quadri” scene degne degli straniamenti brechtiani.
Intrecciata
la propria ricerca con l’esplosione dell’Arte povera, Kounellis
si concentra sulla coscienza storica del dissidio tra arte e natura
procedendo in modo deciso all’utilizzazione di materiali-oggetti
che non sono in senso proprio né primitivi né poveri e che
implicano un certo grado di know-how: ciminiera, tavoli, strumenti
musicali sofisticati (violino, pianoforte), calchi in gesso. O
produce opere – come segni del passato incidenti sul presente –
in cui è esplicito il richiamo alla storia dell’arte, come la
marina col nome “Ensor “del 1978 e i disegni a carboncino che si
rifanno a Munch. Senza indulgere a impossibili fusioni tra gli
opposti, svolge la sua attività all’interno del linguaggio
specifico dell’arte: la sua ricerca verte così sulla tecnica
dell’opera, portandoci a ricordare – come scrive Benjamin – che
il “concetto di tecnica offre il punto di attacco dialettico che
consente di superare la sterile antitesi di forma e contenuto”.
Le “raffigurazioni” di Kounellis sono dunque tracce
di un’immagine mentale profondamente impregnata di senso della
storia: sono non solo rappresentazione di una riflessione storica ma
riflessione e intervento storico esse stesse.
Boetti: un mondo di tappeti. Sperimentazioni artistiche e tradizioni culturali
Nato a Torino nel 1940, ha vissuto la stagione dell’ “arte povera” che, tra il capoluogo
sabaudo e Roma, ha portato artisti come Calzolari, Kounellis, Mario e
Marisa Merz, Paolini a confrontarsi insieme su alcuni punti nodali
del dibattito vita/arte politica/arte. Se la relazione arte/vita è
uno dei temi fondanti della ricerca artistica, essa assume
particolare rilevanza “esistenziale” nel percorso di Boetti che
progressivamente attua un percorso di “raddoppiamento”: con
Gemelli spedisce una cinquantina di cartoline con la propria
immagine che tiene per la mano un altro se stesso, definendo un
correlativo iconico alla sigla artistico-umana che assumerà:
Alighiero e Boetti.
Raddoppiare, accumulare,
inventariare sono operazioni mentali che si sostanziano dei viaggi e
delle esperienze dell’artista. E i fili s’intrecciano, con
l’artista che giunge per la prima volta in Afghanistan nel 1971,
facendone la sua seconda patria. Poi, insieme a un laboratorio di
ricamo, sarà aperto nella capitale afghana anche un albergo, il
One Hotel; dalla città partirà inoltre la corrispondenza che
costituirà l’opera 720 lettere da Kabul. Viaggi, mostre e
realizzazioni punteggiano la vita dell’artista, impegnato in una
serie di lavori a penna – Mettere al mondo il mondo – e
nella promozione di ricami con parole e frasi: Ordine e disordine
(1972).
Percezioni di Napoli: un'epistola di Bernardo Tasso tra lettere e arti
In un secolo come il XVI, segnato a Napoli da importanti elaborazioni architettonico-urbanistiche,
l’epistola di Bernardo Tasso propone un catalogo di luoghi ed
evidenze monumentali che contribuiscono a definire la percezione
storico-culturale della città facendosi, al tempo stesso, cronaca
dell’edificazione e delle trasformazioni più recenti, avvenute
negli anni del vicereame spagnolo di Don Pedro Álvarez de Toledo.
Ma la descrizione tassiana si struttura anche per immagini che contribuiscono a una sorta di lirica
guida per persone colte, lungo la linea che dalla classicità giunge
alle raffigurazioni del Grand Tour e che trova anticipazione
figurativa alcuni decenni prima, passando inoltre per una Veduta
del porto di Napoli di Bruegel che
offre spunti di lettura personale non dissimili dall’interpretazione
lirica della città già proposta dall’epistola di Bernardo Tasso.
La città e la Cattedrale: visioni di Napoli tra '300 e '500
La Tavola Strozzi (1472-73) – prima
significativa rappresentazione topografica moderna della città
partenopea, immagine che fonda una spazialità orizzontalmente
tripartita fra acqua, terra e cielo –, introduce lo sguardo nelle
stratificazioni di Napoli. Punto di vista dal mare, questa
rappresentazione tardo-quattrocentesca condensa in sé e assume nella
raffigurazione anche gli emblemi architettonici di Napoli: da Castel
dell’Ovo al Castel Nuovo, dal porto alle porte murarie, da
Capodimonte alle chiese e al Duomo.
Alla stesura compatta ma aperta della Tavola
Strozzi fa da contrappunto, oltre un
secolo prima, la novella boccacciana che distilla della città gli
interni e le interiora, per una visione dell’oscuro e del
bassofondo, una percezione dal basso che si fa consapevolezza del
pericolo e attesa della prossima condanna; alla misurata luminosità
della raffigurazione fa da contrasto il buio degli inganni e dei
pericoli, in un ritmo teso che condensa il nucleo dell’azione
scenica in una notte. Con una narrazione che unisce particolari
realistici e sfumature leggendarie, Boccaccio fa di Napoli l’epitome
del pericolo, il centro gravitazionale degli inganni e dei
sotterfugi, ove l’eterogenesi dei fini è norma che consente solo
lievi variazioni, sottili scarti, e una cattedrale non è che
l’approdo di un furto sacrilego.
Costruzioni e visioni: Roma e il mecenatismo spirituale alla metà del '400
Negli otto anni di pontificato di Niccolò V, dal 1447 al 1455, a Roma si delineano le basi di una
metamorfosi architettonico-urbanistica che si fa prospettiva
culturale.
Niccolò V pratica del “mecenatismo spirituale”: si operano costruzioni, restaurando e
rinnovando ponti, acquedotti e chiese; si procede al riassestamento
delle mura vaticane e delle fortificazioni di Castel S. Angelo; si
determinano visioni delle articolazioni territoriali e delle
relazioni tra i gruppi sociali nell’Urbe: vecchia e nuova nobiltà,
strati mercantili, ripartizioni dei poteri all’ombra del
pontificato, in un percorso che è di confronto politico ma anche di
dialettica spaziale, tesa ed “illuminata”, lineare ed
accidentata, segnata da successi e da drammi.
Punto di avvio di un processo di
metamorfosi del potere nell’Urbe, da entità tardo-medievale a
nucleo di principato rinascimentale, il mecenatismo spirituale
niccolino mostra anche il suo volto spietato, nella logica di un
potere che, turbato dalla congiura e addolorato dalla caduta di
Costantinopoli, non ritroverà più un andamento né sereno né
aperto, concludendo la propria parabola nel 1455.
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