La Tavola
Strozzi (1472-73) [1] – prima
significativa rappresentazione topografica
moderna della città partenopea, immagine che fonda una spazialità
orizzontalmente tripartita fra acqua, terra e cielo –, introduce lo sguardo
nelle stratificazioni di Napoli.
Il sinuoso corteo di navi disegna un semicerchio artificiale
che guida verso l’ingresso marittimo dello spazio urbano e mima la dimensione
protettiva del golfo e delle anse, di cui rappresenta una dinamica estensione
in ambito liquido. Mediata da tale rassicurante celebrazione – il ritorno nel
luglio 1465 della flotta del Re Ferdinando I (Ferrante o Don Ferrando) dopo la
vittoriosa battaglia di Ischia contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò
–, si determina, in un rapporto di necessaria continuità, una percezione
prospettica del molo principale che fa da approdo e da percorso d’ingresso alla
città. Racchiusa in un doppio giro della visione – quello delle navi nel porto
e delle colline alle spalle – Napoli appare protetta non tanto dalle sue mura,
quasi assorbite dalla naturale conformazione del golfo, ma dallo stesso
offrirsi in una rappresentazione che abbina – come in altre scene urbane, dal
’300 in poi – realismo analitico e sintetica idealizzazione. Scrive in merito
Del Treppo:
«E’ la veduta della città che genera e costruisce lo spazio
figurativo coerente, in cui sembrano soltanto occasionalmente collocate sia la
circolare teoria delle galere […] sia le innumerevoli barche di contorno, quasi
appoggiate sul mare come un fondale di carta […]». [2]
Punto di vista dal mare, per chi controlla o conosce la
città, questa rappresentazione tardo-quattrocentesca condensa in sé – e assume
anche nella raffigurazione delle emergenze monumentali – gli emblemi
architettonici di Napoli: da Castel dell’Ovo al Castel Nuovo, dal porto alle
porte murarie, da Capodimonte alle chiese e al Duomo. Approccio diverso, con
incerto fluire dall’entroterra verso la liquidità (e i liquami) della zona
mercantile-portuale, caratterizza, invece, la peregrinazione di Andreuccio da
Perugia nella rappresentazione che ne dà Boccaccio nel Trecento.
Alla stesura compatta ma aperta della Tavola Strozzi fa da contrappunto, oltre un secolo prima, la
novella boccacciana che distilla della città gli interni e le interiora, per
una visione dell’oscuro e del bassofondo, una percezione dal basso che si fa
consapevolezza del pericolo e attesa della prossima condanna; alla misurata
luminosità della raffigurazione fa da contrasto il buio degli inganni e dei
pericoli, in un ritmo teso che condensa il nucleo dell’azione scenica in una
notte. Con una narrazione che unisce particolari realistici e sfumature
leggendarie, Boccaccio fa di Napoli l’epitome del pericolo, il centro gravitazionale
degli inganni e dei sotterfugi, ove l’eterogenesi dei fini è norma che consente
solo lievi variazioni, sottili scarti, e una cattedrale non è che l’approdo di
un furto sacrilego.
All’incirca negli stessi anni, anche Petrarca vive
l’esperienza napoletana, di cui dà conto in maniera antitetica in due momenti
dei Rerum familiarum libri. Mentre
nel 1341 il poeta appare conquistato dalla figura di Roberto I d’Angiò, solo
due anni dopo Petrarca si mostra disgustato e spaventato dalle diverse
condizioni del Regno e dalle loro nefaste conseguenze sull’articolazione e sul
decoro della vita urbana:
«Al posto di quel serenissimo Roberto, che regnò fino a poco
fa e fu il decoro più grande dell’età nostra, è sorto questo […] che ne sarà il
più grande obbrobrio. Ormai io non crederò più impossibile che dalle midolle di
un uomo sepolto possa nascere un aspide, poi che da un sepolcro di re è nato
questo fosco serpente». [3]
A questa considerazione sul “nuovo” Regno – con
l’introduzione di un’immagine che sembra preludere all’idea della rinascita o,
per converso, della decomposizione, insita nella frequentazione notturna da
parte di Andreuccio del sarcofago dell’arcivescovo nella Cattedrale -, fa seguito
uno sguardo inquieto sui notturni napoletani, ove, osserva Petrarca, «il girar di notte vi è non meno pauroso e pericoloso che tra
folti boschi, essendo le vie percorse da nobili giovani armati, la cui
sfrenatezza né la paterna educazione né l’autorità dei magistrati né la maestà
e gli ordini del re seppero mai contenere». [4]
Si definisce così il topos esistenzial-letterario della
pericolosità e dell’estrema rischiosità notturna di Napoli, che possono essere
esorcizzate e rimosse solo da una visione complessiva e a latere, che privilegi la veduta d’assieme e la percezione della
scena da punti di vista distanti e non univoci, come nella Tavola Strozzi. O attraverso la frequentazione di luoghi ameni nei
pressi della città, ma al suo esterno:
nello stesso Decameron, sebbene sia
definita in altra novella «città antichissima e forse così dilettevole, o più,
come ne sia alcuna altra in Italia», [5] Napoli è in
realtà tratteggiata in positivo solo per quanto concerne i “contorni”, ovvero
“i liti del mare” e i paesi vicini.
A conferma della percezione di Napoli come una sorta di
trappola nella quale, a dispetto dell’ampia veduta prospettica, si resta
impigliati, e da cui a fatica si fugge, la vicenda di Andreuccio propone almeno
tre momenti in cui si percepisce lo sguardo della narrazione non dall’alto e
dall’esterno ma dal basso e dall’interno – quando il giovane cade nel
“chiassetto”, quando viene calato nel pozzo per una sommaria lavata, quando
infine si trova a condividere il sarcofago dell’arcivescovo nella Cattedrale –
per una ricostruzione rovesciata della storia che non può che confermare tutti
gli stilemi sulla drammaticità di un tale percorso iniziatico. Ma le tensioni
descritte sono caratterizzazione fondamentale della realtà e dell’immaginario
urbani, come si delineano nella spazialità medievale, fondata sulla nuova
centralità dell’edificio-chiesa:
«La città s’inserisce in uno spazio: in ogni società, in ogni
cultura, questo spazio è orientato, caricato di valori ideali, che s’impongono
alle forme, ai volumi, alle direzioni. Nel sistema cristiano, due opposizioni
dominano questo inserimento nello spazio: alto e basso, interno ed esterno. I
valori sono in alto, in cielo, e nel centro, nel cuore. La salvezza dell’uomo
avviene elevandosi e interiorizzandosi. Lo stesso dev’essere per l’essere
collettivo che è la città». [6]
La varia tipologia dell’edificio e della funzione-chiesa -
cattedrale, chiese principali, parrocchie, basiliche devozionali ai margini del
tessuto urbano, strutture conventuali - determina sovente una pluralità
policentrica nel disegno della città, che tende a riorganizzarsi su un
complesso sistema a geometria variabile. Osserva Guidoni che «anche per la sua irrealizzabilità la città ideale cristiana,
la “Gerusalemme celeste” tenderà a identificarsi, per tutti i secoli della
crisi urbanistica, più con il singolo edifizio religioso (basilica, cattedrale,
abbazia) che con un insieme urbano». [7]
Benché non necessariamente né costantemente dominante nell’immaginario
cristiano della città, la cattedrale – soprattutto a causa della sua
plurisecolare edificazione – tende tuttavia a farsi epitome di una storia
urbana iperarticolata, diacronicamente e sincronicamente, nell’orizzontalità
della pianta topografica e nella verticalità degli slanci, che comprendono i
valori al di sopra del piano, come gli alzati e i campanili, e quelli al di
sotto, come cripte e spazi sotterranei.
Se le peripezie notturne conducono, come è noto, Andreuccio a
farsi ladro tra (e dei) ladri, risulta significativa la costruzione degli spazi
nella novella: mentre Napoli è una sorta di punto instabilmente mediano tra la Perugia di origine e, via
mare, la Palermo
millantata dall’adescatrice del giovane, l’itinerario nella città compiuto dal
protagonista – che trova di notte un bottino, un sarcofago e un diverso ritorno alla vita –, ha nella
“chiesa maggiore” il nucleo fondante, motore dell’azione e fulcro
architettonico-urbanistico. La clausura di Andreuccio nel sarcofago è inoltre
testimonianza narrativa di quanto osserverà Le Goff:
«Finalmente, la città medievale sarà – in totale contrasto
con la città antica – una città di vivi e di morti. I cadaveri non saranno più
rigettati, in quanto impuri, all’esterno dello spazio urbano, ma – secondo
l’esempio e per l’attrazione dei corpi dei martiri – verranno insediati nel
territorio intra muros. Tombe isolate, sepolcri costruiti nelle chiese o
cimiteri urbani faranno della città una necropoli al tempo stesso che una città
di viventi, e l’immagine urbana avrà un aspetto funerario che contribuirà a
trasformarla profondamente. L’inurbamento dei morti è un elemento capitale
nella rivoluzione urbana – materiale e mentale – del Medioevo». [8]
E così la cattedrale di Napoli, caleidoscopio di diverse
strutturazioni cronologiche e artistiche – dal paleocristiano del Battistero di
San Giovanni in Fonte al ’300-400, dal Barocco trionfante della Cappella di San
Gennaro alla facciata neogotica terminata nel 1905 – si determina come snodo di
un percorso dalla narrazione alle arti figurative e da Boccaccio al primo ’500.
Scrive il novelliere:
«Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato
messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con
uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d’oro, il quale
costoro volevano andare a spogliare». [9]
Superato il limes
che separa la Cattedrale
dalla proprietà familiare di questo spazio, possiamo a nostra volta visitare la Cappella dei Capece
Minutolo, prezioso esempio di un’architettura e di una policroma decorazione
gotica elevantisi su un pavimento cosmatesco bizantineggiante della fine del
XIII secolo, usufruendo di alcune preesistenti note descrittive, nonché del
nostro corredo fotografico: la
Cappella si apre «sul fondo del transetto del Duomo di Napoli
in prossimità dell’angolo destro dello stesso». [10] E cominciamo col
vedere ciò che Andreuccio, per ragioni cronologiche, non avrebbe ancora potuto
osservare:
«Sulla parete di fondo è posto l’altare con la tomba del
Cardinale Enrico Capece Minutolo (1389-1412). La cupola, adorna di statuette e
piramidi, presenta al centro lo stemma della famiglia ed è sostenuta da quattro
colonne intagliate a bassorilievi. Queste a loro volta poggiano sui dorsi di
quattro leoni. La cassa sepolcrale, sostenuta da tre piccole colonne a spirale
e da due statue raffiguranti la
Mansuetudine e la
Carità, è adornata da una Natività affiancata da un lato da
Santa Anastasia e da San Girolamo in atto di porre la mano sul capo
dell’inginocchiato Cardinale Enrico (raffigurato da bambino), e dall’altro da
S. Pietro e da S. Gennaro». [11]
Accanto al ricco apparato decorativo della Cappella, una
sottolineatura merita l’icona di legno dorato con la Crocifissione e
quattro Santi (S. Giovanni Battista, S. Gennaro, S. Caterina, S. Nicola
Pellegrino) del senese Paolo di Giovanni Fei (1345-1411): altarino portatile
dinanzi al quale il Cardinale Enrico Capece Minutolo era solito celebrar messa.
«A sinistra dell’Altare è posto il sarcofago dell’arcivescovo
di Salerno, già canonico della Cattedrale di Napoli, Orso Capece Minutolo
(morto nel 1327). Le pareti sono interamente decorate da affreschi raffiguranti
Cavalieri in Armi […]. Accanto all’ingresso, sulla sinistra, sono raffigurati
S. Antonio da Padova e Santa Caterina da Siena; segue nella cunetta Santa Maria
Maddalena ricoperta dalla sua fluente chioma […] A destra dell’Altare è posto
il sarcofago dell’Arcivescovo di Napoli Filippo Capece Minutolo (1288-1301). La
cassa […] è retta da piccole colonne tortili e riporta una iscrizione che
ricorda l’impegno della famiglia Capece Minutolo nel mantenere viva la cura della
Cappella». [12]
Scrigno di famiglia all’interno della Cattedrale, la Cappella rappresenta un
momento esemplare della compenetrazione tra struttura architettonica,
rappresentazione pittorica e decorazione scultorea, a sua volta segnata da
intensa policromia.
A Montano di Arezzo, formatosi a partire dal 1280 ad Assisi
con Giotto e poi a Roma con Pietro Cavallini (1240-1330) sono da attribuirsi le
Storie dei Santi Pietro e Paolo e di
altri santi e la Crocifissione,
affreschi eseguiti tra il 1285 e il 1290.
Le raffigurazioni scultoree, di diversa epoca e di differenti
esiti qualitativi, tendono tutte a costituire un’interpretazione
napoletan-angioina del gotico, ove la resa policroma - singolarmente
preservatasi - enfatizza tratti emozionali e scenografici di un percorso che,
attraverso guglie e pinnacoli tardo-francesi ma anche robuste delineazioni di
volti e corpi, apre caratteristiche liaisons
tra il XIII secolo, il tardo-gotico, il primo ’400 e il dinamismo barocco
altrove presente nella Cattedrale.
Testimonianza di una complessa stratigrafia su più livelli –
ed ulteriore conferma di una rilevanza cittadina che si articola su una
molteplicità di piani – è la
Cappella del Succorpo, nella cripta della Cattedrale,
elemento di transizione tra il tardo-gotico del primo ’400 e le superfetazioni
di metà ’600 nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro.
Eretta tra il 1497 e il 1508 per volere del cardinale
Oliviero Carafa (1430-1511) in occasione della traslazione delle reliquie di
San Gennaro, la Cappella
del Succorpo è un rinascimentale ambiente rettangolare (di metri 12 x 9),
dall’interno suddiviso in tre navate, situato al di sotto del presbiterio.
Rivestito in marmo e con il soffitto a cassettoni (18), ciascuno con un santo e
quattro teste di cherubini, lo spazio sotterraneo chiaro e lineare è assegnato
alla matrice progettuale di Donato Bramante (1444-1514) mentre la realizzazione
è dovuta al comasco Tommaso Malvito (seconda metà XV secolo-1524), aiutato dal
figlio Giovanni Tommaso, cui si attribuisce la statua di Oliviero Carafa orante
nella navata centrale.
La personalità del cardinal Carafa, protagonista della
politica ecclesiastica nella seconda metà del ’400 a Napoli e a Roma, si pone
come ulteriore snodo concettuale e cronologico del nostro discorso. Arcivescovo
di Napoli dal 1458, cardinale dal 1467, a capo della flotta cristiana contro i
Turchi che conquista Smirne nel 1472, è tra i protagonisti delle scelte
ecclesiastiche sotto Sisto IV (1411-1484). All’inizio del suo pontificato, nel
1471, giungono a Roma le consuete ambascerie degli stati europei: ricorda Stefano
Borsi, per «il re di Napoli Ferrante d’Aragona interviene il figlio
quartogenito, il cardinale Giovanni d’Aragona», [13] mentre la
delegazione fiorentina è rappresentata dal giovane Lorenzo de’ Medici, che
partecipa poi in gruppo ad escursioni archeologiche sotto la guida
dell’Alberti, «duce Baptista Alberto». [14] Analoghi
percorsi archeologico-artistici coinvolgono il re di Napoli Ferrante d’Aragona
quattro anni dopo quando, in occasione del Giubileo del 1475, in una Roma che il
Papa stava rinnovando anche sul piano urbanistico – con l’inaugurazione del
Ponte Sisto e dell’antica Via Sistina, l’attuale Borgo Sant’Angelo – il sovrano
si dedica ad «itinerari che sembrano ricalcare la stessa impostazione
antiquaria del viaggio romano di Lorenzo de’ Medici. Lo lascia intendere
chiaramente il diarista romano Infessura: “et andò per tutta Roma per vedere li
edifici, et a Santa Maria Rotonda, et a colonna Antoniana, et Adriatica” ». [15]
E’ in un simile clima politico-artistico che si ritaglia un
ruolo di grande rilievo, tra Napoli e Roma, il cardinal Carafa, considerato
protettore dell’Ordine dei Domenicani: a questo ruolo lega la propria
rappresentazione nella Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva, fatta
costruire e decorare tra il 1489 e il 1492 in onore di S. Tommaso d’Aquino. Nel ciclo
romano di Filippino Lippi (1457-1504), la ripresa dell’antico si coniuga con
spunti comprendenti un S. Tommaso che presenta il cardinal Carafa alla Vergine
durante l’Annunciazione, con una singolare tessitura triangolare della scena,
fondata sull’Angelo a sinistra e il binomio cardinale-santo a destra.
Nuovamente inginocchiato, come nella Cappella del Succorpo,
ritroviamo il cardinal Carafa in un’altra rappresentazione nella Cattedrale di
Napoli. Alla morte del fratello Alessandro, Oliviero riprende nel 1503
l’arcivescovado napoletano e in questa occasione si fa celebrare – ringiovanito
rispetto alla sua età, come è stato osservato – nella Pala dell’ Assunta del
Perugino (1450-1523) destinata all’altar maggiore, per la quale scrive il
Vasari: «Dipinse al cardinal Caraffa di Napoli nello piscopio allo altar
maggiore, una assunzione di Nostra Donna e gl’Apostoli ammirati intorno al sepolcro». [16]
Opera dalle molte traversie e dalle numerose ricollocazioni,
tanto da esser ritrovata danneggiata e dimenticata nella sagrestia della
Cattedrale, dopo un delicato intervento di restauro si trova oggi nella
cappella sinistra del transetto destro. La pala di Napoli, di un Perugino ormai
maturo, non fa che riprendere – con le necessarie variazioni – uno schema
compositivo ampiamente utilizzato dall’artista di Città della Pieve.
Chiamato a Roma dal 1479 – scrive il Vasari: «talmente si
sparse la fama di Pietro per Italia e fuori, che e’ fu da Sisto IIII pontefice,
con molta sua gloria condotto a Roma a lavorare nella cappella in compagnia
degli altri artefici eccellenti» –, [17] il Perugino si
dedica alla decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina insieme al
Pinturicchio, Ghirlandaio, Botticelli, Cosimo Rosselli e collaboratori: è sulla
parete dietro l’altare che Perugino dipinge ad affresco la finta Pala
dell’Assunta, poi sostituita dal Giudizio Universale di Michelangelo, di cui
resta testimonianza per un disegno di un allievo del Pinturicchio. La struttura
della rappresentazione su due livelli, con il Papa-committente inginocchiato
sulla sinistra della scena, nella stessa posizione poi replicata per la pala
della Cattedrale di Napoli, presenta dunque un piano inferiore affollato di
personaggi terreni in adorante ammirazione di una superiore figuratività
spirituale ed è ripresa in diverse opere peruginesche. Tra quelle dallo stesso
impianto compositivo ricordiamo qui il coevo Polittico dell’Annunziata di
Firenze: due scene – la
Deposizione e l'Assunta, l’una rivolta verso i fedeli,
l’altra verso il coro –, costituivano gli elementi principali, oltre le
tavolette della predella, di un’opera iniziata da Filippino Lippi, per la quale
Leonardo aveva poi predisposto un cartone con Sant’Anna, la Vergine e il Bambino; dopo
l’abbandono di Leonardo, Filippino reimposta su nuove basi il lavoro, lasciato
interrotto alla sua morte nel 1504. Intervengono così Perugino ed allievi, che
portano a termine la commissione con esiti fortemente criticati dai fiorentini,
desiderosi ormai di novità stilistico-compositive e di un’interpretazione del
soggetto differente dalla consueta e rigida trattazione peruginesca. Riporta il
Vasari le critiche ricevute e l’ostinata autodifesa dell’artista, inconsapevole
degli sforzi innovativi richiestigli:
«Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti i
nuovi artefici assai biasimata, e particolarmente perché si era Pietro servito
di quelle figure, che altre volte era usato mettere in opera, dove tentandolo
gl’amici suoi, dicevano che affaticato non s’era e che aveva tralasciato il
buon modo dell’operare, o per avarizia o per non perder tempo. Ai quali Pietro
rispondeva: “Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi
sono infinitamente piaciute. Se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne
posso io ?”. Ma coloro aspramente con sonetti e pubbliche villanie lo
saettavano. Onde egli già vecchio partitosi da Fiorenza e tornatosi a Perugia,
condusse alcuni lavori a fresco». [18]
La Pala dell’Assunta di Napoli, ostinatamente
simile ai riferimenti qui indicati, non sembra godere di miglior fortuna,
declassata dall’altar maggiore a collocazioni secondarie o improprie. Resta ora
da ricordare come, dopo il suo recente restauro, abbia trovato nuova luminosità
nel transetto destro, in posizione confinante con l’accesso alla Cappella
Capece Minutolo.
Quasi pegno risarcitorio alla Cattedrale, poco lontano dai
luoghi della narrata fuga di Andreuccio con il prezioso anello dell’arcivescovo
Filippo, un richiamo umbro, un’opera del Perugino, è ricordo e testimonianza di
percorsi accidentati ma anche di nessi sottili tra una città, una Cattedrale e
gli ingegni che ne punteggiano spazi e storie.
NOTE
*
Comunicazione presentata al XXIII Convegno Internazionale (Chianciano Terme –
Pienza, 18-21 luglio 2011) su Significato e funzione della Cattedrale, del Giubileo e della ripresa della Patristica dal Medioevo al Rinascimento
[1] Attribuita
a Francesco Rosselli (1445-prima del 1513), dovrebbe aver costituito la
spalliera del “lettucio” commissionato da Filippo Strozzi a Benedetto da Maiano
(1442-1497). Cfr. in proposito il Libro
di ricordanze di Filippo Strozzi relativo al periodo della sua attività a
Napoli tra il 24 novembre 1472 e il 2 giugno 1473: «Un lettucio di nocie di
braccia 6 cho.l chassone e spalliera e chornicie molto bello, ritratovi dentro
di prospettiva Napoli el chastello e loro circhumstanzie», cit. da M. Del
Treppo, Le avventure storiografiche della
tavola Strozzi, P. Macry - A. Massafra (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Il
Mulino, Bologna 1994, pp. 483-515.
[2] M.
Del Treppo, Le avventure storiografiche
della tavola Strozzi, cit.
[3] F.
Petrarca, Familiarum rerum libri, in
Id., Opere, Firenze, Sansoni, 1993,
p. 435, cit. da M. Palumbo, Cattive
maniere (e buona condotta) nella Napoli di Petrarca e Boccaccio, “Italies”,
11 | 2007, http://italies.revues.org/727.
[5] «Ricciardo
Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col
mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un
bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che
con Ricciardo è dimorata» (III, 6). E’ altra occorrenza, sempre in contesto
napoletano, del cognome Minutolo. L’elogio della città in questi
termini diviene poi formula ripresa, per Genova, dallo Straparola nelle
boccacciane Piacevoli notti, Libro I,
Favola prima.
[6] J.
Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia
medievale (secoli V-XV), Storia
dell’arte, in
Storia d’Italia. Annali, 5. Il paesaggio,
a cura di C. De Seta, Einaudi, Torino 1982.
[7] E.
Guidoni, La città europea. Formazione e
significato dal IV all’XI secolo, Electa, Milano 1978, p. 29.
[9] G.
Boccaccio, Decameron, II giornata,
novella 5.
[13] S.
Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli,
Edizioni Polistampa, Firenze 2006, pp. 167-168.
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