Non è di maggio questa impura
aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio o l’abbaglia
con cieche schiarite […] [1]
La
Piramide Cestia, da dimora di un corpo, diviene dal secondo decennio a.C. corpus monumentale della memoria
nell’attraversamento delle epoche: integrata nel perimetro delle Mura Aureliane
(fig. 1), si fa perno simbolico nel piano urbanistico di Roma, tesa, attraverso
la Via Ostiense, verso il porto e il mare.
Manufatto di riferimento esposto agli sguardi (fig. 2) – l’iscrizione commemorativa della
costruzione è citata da Piranesi in tal modo: «questo gran
Sepolcro è stato condotto a fine dentro lo spazio di trecento e trenta giorni,
tempo prescritto dal Defonto nel testamento, come usavasi in que’ tempi» [2] – la Piramide contrassegna con
la verticalità del suo volume acuto il vicino Cimitero Acattolico, piccola
distesa rimasta tendenzialmente lontana – nell’antichità come in età cristiana
– dalla definizione simbolico-spirituale del cattolicesimo romano (fig. 3).
Densa di sepolcri e nomi stranieri – tra i quali artisti e scrittori come Keats, Shelley,
Gregory Corso [3]
–, l’area, strutturata nel 1821 sotto papa Pio VII per regolamentare precedenti
consuetudini di sepoltura, ospita anche le spoglie di intellettuali italiani
quali Bellezza e Gadda, nonché le “ceneri di Gramsci”, attorno alle quali si
coagulano le pasoliniane visioni dell’Aventino e del Testaccio. [4]
All’ombra della Piramide l’articolazione architettonica della monumentalità
cimiteriale assume una valenza urbanistica che connota di profondità letteraria e pittorica l’area, definibile come irregolare nucleo di necropoli al
limitare storico dell’Urbs. [5]
Nonostante il programma definito dalla napoleonica “Consulta Straordinaria per
gli Stati Romani”, a partire dal 19 luglio 1809, per la realizzazione di
cimiteri pubblici all’esterno della cinta urbana – segnatamente nell’area del
Pigneto Sacchetti e in quella nei pressi della Basilica di San Lorenzo fuori le
Mura, «quale evidente e didascalico segno di una auspicata
segregazione del mondo dei morti da quello dei vivi» [6] –, nell’Urbe
persiste lungamente la tradizione delle tumulazioni all’interno delle chiese.
Legata a una propria storia di alterità rispetto al credo ufficiale, l’area del
Cimitero Acattolico tende a differenziarsi come luogo al contempo eccentrico rispetto all’abitato ma
intrinsecamente connesso alle partizioni e alle regioni delle occupazioni
terrene.
Se
nell’antico Egitto le «piramidi monumentali e il complesso
monumentale ad esse collegato costituivano […] una fortezza intorno a cui si
costituiva la città dei morti» e la «pianta della necropoli […] ben
corrisponde a quella della città dei vivi», [7]
la rilevanza visiva del recinto
cimiteriale acattolico è consacrata a Roma dalla prospettiva assunta da
Piranesi, che realizza incisioni della Piramide osservata anche dall’area
sepolcrale. Il monumento sepolcrale di Caio Cestio gode nei secoli di una
raffigurabilità rilevante, inserito com’è nell’urbanistica di accesso/sortita
dalla città e oggetto quindi anche di rapidi schizzi artistico-memoriali: [8]
ma è con Piranesi che si definisce la visione archeologico-meditativa della
Piramide. Vitale compendio delle teatralità del Barocco, l’ottica dell’artista
struttura diagonali della visione – e l’obliquità può interpretarsi come
una sorta di pomerium che evidenzia
il passaggio, mobile come ogni ombra, tra un qui e l’altrove [9]
– incastonate tra concavi-convessi
post-borrominiani, ove agisce anche la memoria delle plasticità costruttive del
Palladio, come appare nel trattato Parere
sull’architettura (1765), nel quale si realizza il confronto teorico tra
Protopiro e Didascalo sul rapporto tra ornamentazione e architettura: «Didascalo - Ma prima di venire alle prove; in che
fate voi consistere la severità, la ragione, e l’imitazione? Mi figuro, nelle
maniere lasciateci da Vitruvio, e poste in opera da Palladio, e da quegli altri
Architetti, che furono i primi a far risorgere questa sorta d’Architettura». [10]
Tra l’apparente classicità delle Vedute e delle Antichità Romane, ove la classificazione tipologico-monumentale
consente la riproduzione commerciale delle incisioni – e «non abbiamo quasi mai l’impressione di essere
sull’asse dell’edificio, bensì solamente su un raggio vettore […] per dare la
sensazione di esistere in un universo asimmetrico», [11]
– e la tenebrosità metafisico-preromantica delle Carceri – con armamentario immaginifico che può già percepirsi come
visione dell’aldilà e dall’aldilà, inciso non solo nei rami ma
soprattutto in una sorta di concrezione rocciosa [12]
indagata con archeologica ossessione – l’evidenza della Piramide è elemento di
raccordo e transizione: potenziale scala, sul modello egizio o nubiano, verso
il cielo, con luminosità accentuata dalle lastre di rivestimento in marmo;
strutturale manufatto in opus
caementicium a copertura di una telluricità che pare sottintendere il buio
dell’altrove. E in costante comunione tra vivi e morti, tra diversi tempi delle stesse esistenze, in «una delle tavole delle Antichità, due danzanti profanatori di sepolture si contendono uno
scheletro che ha quasi la loro grazia; un altro ladrone si è impadronito del
cranio, mentre a due passi, sul coperchio rovesciato del sarcofago, un bucranio
scolpito colloca l’immagine del teschio animale accanto a quella del teschio
umano. Letteralmente, la rovina brulica […]». [13]
Il desiderio piranesiano di preservare il ricordo
della grandiosità e dei monumenti romani attraverso l’asserita esattezza delle
incisioni è dunque di per sé, nelle Vedute
e nelle Antichità, testimonianza di
una dialettica tra tempo e costruzioni che si fa anche confronto tra spazi e
distruzioni – osserva
ammirato Piranesi: «
[…] Muro interno della Stanza, costrutto di mattoni della stessa grandezza, che
quì sono disegnati, con tale sodezza, connessione, ed artificio, che ben vi si
conoscono tutte le regole, le quali sono state descritte da Vitruvio per
costruire i mattonati. […] Intonicatura sopra il muro medesimo, composta di
tale consistenza, che ad onta di tanti secoli, e delle inondazioni del Tevere,
che bene spesso riempie la Stanza d’aqua ha potuto conservare le pitture […]» [14] –, dissoluzioni ontologicamente
attive in ogni territorio utilizzato e successivamente metamorfosato. [15]
Alieni dal geometrismo dei giardini francesi e dalla
definita libertà compositiva di quelli inglesi, gli spazi romani appaiono
contrassegnati da una vegetazione «che cresce
spontanea fra le pietre […] Si direbbe che essa faccia affiorare in superficie
le nere chimiche del sottosuolo, tutto impregnato di morti ammucchiati, di
rovine e di blocchi di marmo, i miasmi di tutta la vecchiaia di una città che
si è disfatta, come un corpo ormai esausto. Le erbe, i cespugli sono così
strettamente legati alle rovine da farle sembrare parte del loro regno». [16]
E la definizione mito-poietica di quest’area
dell’Urbe giustappone e con-fonde il graduale definirsi all’insegna del pittoresco post-settecentesco del
giardino sepolcrale acattolico con il retaggio della classicità, a sua volta
strutturato secondo una tipologia altra,
nella quale i volumi riecheggerebbero un tragitto di tipo iniziatico, verso il
cielo o come protezione-accompagnamento per gli Inferi. Senza poter
corrispondere, nella cattolica teografia
urbanistica romana, a una strutturata figura del Cosmo, la Piramide assume il
ruolo di certo punto di riferimento nella topografia urbana. Leggiamo la
didascalia dell’incisore per la Tavola XL: «Veduta della
Piramide di Cajo Cestio, situata sopra l’antica Via Ostiense, oggi detta di S.
Paolo. Il Lato, che guarda sopra la strada verso Levante è la Facciata
principale. […] Mura di Roma, le quali sono congiunte ai lati
della Piramide. Furono esse dilatate sino a questo Sepolcro dall’Imperatore
Aureliano; e poscia quivi ristabilite ne’ tempi posteriori. […] Porta Ostiense detta oggi di S. Paolo». [17]
Con una abilità compositiva che ha alle spalle le
innovazioni manieristiche del Tintoretto – i contrasti chiaroscurali e
gli scorci di luce; l’architettonica teatralità e la fuga in diagonale del Ritrovamento del corpo di san Marco –
l’incisore settecentesco mostra che la Piramide è
anche ierofania, manifestazione di una sacralità all’incontro tra spazi civili
e oltre-mondo, edicola della memoria che protegge luoghi ctoni ai quali, nelle
ombre delle tavole piranesiane, sembrano consacrarsi quelle oscurità che
segnano le masse monumentali definendone la consistenza ma anche l’intrinseca
fragilità, la consustanziale caducità. Se ogni chiarore di volumi edificati è
solo frammento della storia – nella dialettica di costruzione/dissoluzione che
l’artista riproduce, in alcune tavole, mostrando in contemporanea l’alzato e il
sotterraneo, le masse e le rovine, i marmi e i rovi –, la fascinazione
piranesiana per le oscurità dell’Urbe si nutre anche dell’apporto
storico-letterario, in grado di suscitare molteplici proiezioni – livello
sopraelevato/inferiore; teorica navigabilità
a guisa di una smisurata Venezia – che, con un riferimento a Plinio, rendono
omaggio al genio costruttivo romano all’insegna dell’utile e del necessario: « […] Ammiravano inoltre le cloache, che, a detto
d’ognuno, sono la massima delle opere, per essere stati scavati i monti, e […]
per essere stata ridotta Roma pensile, e navigata al di sotto». [18]
Incisore prolifico – ricorda Argan: «Ha formazione di vedutista,
canalettiana; ma preferisce l’incisione alla pittura. È architetto; ma
costruisce solo una chiesa, piccola e stupenda, Santa Maria del Priorato, e
invece ritrae all’incisione i monumenti antichi, documenta con ammirevole esattezza
i reperti degli scavi di Ercolano, teorizza e polemizza sull’architettura», [19] – e “mentale” architetto sommamente parco – lontano
dalla costruzione ma affascinato dalla ricostruzione
delle distruzioni del tempo, nonché dalla delineazione di un anti-universo
smisuratamente claustrofobico –, Piranesi è autore di uno dei primi monumenti
del vicino cimitero acattolico, quello del giovane scozzese Sir James Donald (fig. 4). E, alla
ricerca di effetti «per
risuscitare Roma, per spandere sulle sue rovine la maestà di una luce che non
appartiene al mondo dei vivi, ma all’immortalità»,
come osserva Focillon (Estetica dei
visionari), egli realizza soprattutto una sorta di definitivo omaggio a una
costruzione verticale che si innalza sulla superficie orizzontale, in un
confronto che compendia assi differenti: il chiarore e l’oscurità, quanto si vede e ciò che si potrebbe vedere, memoria di altre piramidi scomparse, come la Meta Romuli dell’Ager Vaticanus o come
quelle della Piazza del Popolo. Sorta di epitome dell’immaginario artistico
teso a raffigurare architetture come archeologici resti, «dal momento che non possediamo delle epoche
anteriori a quella di Piranesi nessuna documentazione che eguagli in abbondanza
e soprattutto in bellezza la sua […], l’immagine che egli ha lasciato delle
rovine romane del suo tempo si è poco a poco allargata retroattivamente nella
fantasia umana […]». [20]
Se alcuni simboli appaiono «più importanti di altri”, può dirsi che «la loro eternizzazione sia dovuta al ruolo
essenziale da essi svolto nella costruzione del Sé sociale»: [21]
a differenza degli archetipi junghiani, «questi simboli
sembrano giocare un ruolo rilevante nell’emergere dell’immaginario della
comunità; agiscono sull’apparato psichico dell’Io e del Super-Io per creare un
legame forte, finanche permanente tra una persona e un luogo […], ma il
meccanismo è indiretto, poiché ha bisogno di certi tropi geografici e
comunitari per agire e affinché si metta in scena nella psiche dell’individuo
[…]». [22]
A fronte della suggestione dell’archetipo –
“numinosità”-numen – che può
proiettarsi su luoghi e oggetti, si mette qui in evidenza il
costituirsi-definirsi di un luogo
plurimo per riemersioni mito-poietiche. Scrive Ragon: «
[…] nel tessuto dello spazio urbano e rurale, la morte disegna un tracciato di
luoghi, di oggetti, con le proprie allegorie e i propri simboli, i propri
segnali e riferimenti [eppure la morte] non è stata mai, se non di rado,
studiata dal punto di vista dello spazio architettonico, dell’urbanistica,
delle arti decorative. Sembra ci si sia dimenticati che il primo architetto
conosciuto, Imhotep, l’autore delle piramidi a scalini del re Zoser […], il
solo architetto che sia stato divinizzato, fu prima di tutto il progettista di
una tomba». [23]
Segnacolo
del limes tra Urbs e altro/aldilà, monumento cui si dedicano diverse tavole nel
terzo tomo de Le antichità romane, [24]
appare allogena criptica struttura per la quale Piranesi osserva, al suo
interno (figg. 5,6,7,8), «figure, allusive, per quanto si può
congetturare dai loro portam.ti, alla dignità sacra di C. Cestio, uno de’
settenviri degli Epuloni, l’offizio de’ quali era l’apparecchiare l’Epulo, o
sia Convito agli Dei, e particolarm.te a Giove, in occasione de’ prosperi
segnalati successi della Repubblica, oppure per deviare qualche grave imminente
calamità; siccome riferiscono molti scrittori antichi, e moderni». [25]
(figg.
9,10)
E l’immagine piranesiana della
Piramide – sorta di stupa che, tra i
vari elementi necessari, possiede almeno la base quadrata – si fa presentificazione
del passato da ridisegnare e ricostruire in emblematico continuum tra storia pagana ed epoche successive – come nelle Diverse Maniere di adornare i cammini,
del 1769, si è individuato «il
primo germe dello stile egittizzante, con la sua profusione di sfingi, di
immagini di Osiride e di mummie» [26]
–, paradigmatica conferma
della ricorrente topografia dell’Urbe, che mantiene nei secoli sistemazioni
spaziali delle zone funzionali definite in età romana: qui in chiave di
perdurante alterità. Se i geroglifici
e il repertorio decorativo egizio affascinano gli artisti europei del
Settecento, in un’ideale anticipazione della vague egittologica condensata intorno alle campagne militari
nord-africane del Direttorio, [27]
tanto da esser proposti anche come elemento d’apparato e d’arredo, la
ri-costruzione urbana operata da Piranesi è assimilabile all’iscrizione
geroglifica: «Vitruvio ci dice che il Tempio di Marte
doveva essere collocato fuori città […]; Valeriano afferma da parte sua che la
civetta era, presso gli egiziani, il simbolo della morte. Dando al Tempio di
Marte la forma di una civetta, Piranesi riassume così “alla egiziana” la
principale informazione fornita da Vitruvio, e indica il piano del Tempio sotto
forma di un geroglifico topologico». [28]
E
per un corpo scomparso fattosi monumento tanato-poietico la Piramide, luogo
dell’esser-stato, diviene infine geroglifico delle proiezioni topografiche, tra
memoria dell’Egitto e disegno piranesiano dell’Urbe.
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* Presentato nell’ambito di “ Archeologia e Antropologia della Morte”, III Incontro internazionale di Studi, a cura della Fondazione Dià Cultura. Roma
20-22 maggio 2015.
[2]
Giovanni Battista Piranesi, Le antichità Romane, Roma 1784, Tomo III, tav. XLI (Ed. orig. 1748).
[3] «Spirit/is
Life/It flows thru/the death of me/endlessly/like a river/unafraid/of
becoming/the sea»: versi di Gregory Corso scolpiti sulla sua lapide.
[4]
«
[...] tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul
cippo si leggono solo le parole: Cinera Gramsci, con le date»:
Pier Paolo Pasolini, op. cit. Note.
[5]
Delineazioni storiche differenti non impediscono confronti
tipologico-urbanistici con l’area del cosiddetto “Cimitero degli Inglesi” – in
realtà di origine Evangelica Riformata Svizzera – che a Firenze assume, dopo il
1865, una configurazione a “isola” sopraelevata rispetto ai viali di
circonvallazione.
[6]
Laura Bertolaccini, “La questione delle sepolture e le scelte urbanistiche
durante l’occupazione francese (1809-1814)”, in Enrico Guidoni (a cura di), L’urbanistica di Roma dal Medioevo al
Novecento, Roma, Kappa, 2007, pp. 127-128.
[7]
Michel Ragon, Lo spazio della morte:
saggio sull’architettura, la decorazione e l’urbanistica funeraria, Napoli,
Guida, 1986, p. 50 (Ed. orig. 1981)
[8]
Ricordiamo qui le rappresentazioni della Piramide ad opera di Giovanni
Paolo Pannini.
[9]
Cfr. Ettore Janulardo, “Due opere
di Bruegel fra comico e tragico”, comunicazione al XXVI Convegno
Internazionale “Comico e tragico nella vita del Rinascimento”, Chianciano
Terme-Pienza, 17-19 luglio 2014 (Atti in preparazione).
[11]
Marguerite Yourcenar, “La mente
nera di Piranesi”, in Idem, Con beneficio
d’inventario, Milano, Bompiani, 20042, p. 130 (Ed. orig. 1962).
[13] Marguerite
Yourcenar,
op. cit., pp. 116-117.
[14]
Giovanni Battista Piranesi, Le antichità Romane, Roma 1784, tav. XLV.
[15]
Rispetto alle solidità volumetriche, evidenzia aspetti
dinamico-trasformativi Ejzenstejn nella sua analisi Piranesi o la fluidità delle forme, ove la Carcere oscura viene «fatta reagire dinamicamente
sott’effetto di una vera e propria esplosione ideale delle tensioni formali in
essa insite […] Questo metodo […] ha per risultato, scrive Tafuri, la forma
della “diluizione” come conseguenza dell’esplosione degli elementi del Carcere»:
cfr. Franco Speroni, “Il sogno di
Juvarra”, in Elisa Debenedetti (a cura di), Architettura
città territorio, Roma, Bonsignori, 1992, p. 23.
[16]
Jean-Jacques Lévêque,
Piranesi, Milano, Alfieri e Lacroix,
1989, p. 12 (Ed. orig. 1980).
[17]
Giovanni Battista Piranesi, Le antichità Romane, Roma 1784, tav. XL.
[19]
Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte
moderna, Firenze, Sansoni, 2008, Vol. III, p. 292. Si aggiunge, su Santa Maria del Priorato: «E tutto, in quella chiesa, è
inciso con un tratto forte e profondo, che si direbbe “inchiostrato” come
nell’incisione. La spiegazione si trova nei suoi scritti sull’architettura.
Inutilmente i moderni teorici cercano di riattivare la schietta funzionalità
degli edifici antichi, la purezza strutturale del tempio greco: sono pure
congetture e la funzione, la vita del passato sono finite per sempre». Sul sarcofago a Piramide di
Santa Maria del Priorato si leggano le osservazioni di Tafuri: «Nell’altare di San Basilio, “la
mensa, il dorsale, il tronco di piramide del sarcofago a pianta ovale posto a
coronamento, il medaglione centrale sopra il ciborio, il globo con il gruppo
statuario del volo del santo inserito nella piramide, si ricompongono come
immagine labirintica, immersa in una totale ambiguità. Il complesso descritto,
infatti, si trova in controluce rispetto all’abside, ma direttamente investito
dalla luce proveniente dall’alto”». In Francesco Dal Co, Piranesi e la
malinconia, in Giovanna Curcio, Elisabeth Kieven (a cura di), Storia dell’architettura
italiana. Il settecento, Milano, Electa, 2000, http://www.engramma.it/rivista/saggio/italiano/gennaio/
saggio.html.
[20]
Marguerite Yourcenar, op. cit., p.
138.
[23]
Michel Ragon, op. cit., p. 29.
[24]
A dimostrazione della rilevanza della tematica/ambientazione sepolcrale,
due libri dei quattro de Le antichità
romane sono dedicati, come recita il sommario, a «Gli Avanzi de Monumenti
Sepolcrali esistenti in Roma, e nell’Agro Romano colle loro rispettive piante,
elevazioni, sezioni, vedute esterne ed interne: colla dimostrazione de
sarcofagi, ceppi, vasi cenerarj, e unguentarj, bassorilievi, stucchi, musaici,
iscrizioni, e tutt’altro ch’è stato in essi ritrovato: e colle loro indicazioni
e spiegazioni».
[25]
Giovanni Battista Piranesi, Le antichità Romane, Roma 1784, tav. XLIV.
[26]
Marguerite Yourcenar, op. cit., p.
141.
[27]
Battaglia delle Piramidi del 21 luglio 1798.
[28]
Serge Conard, “De l’architecture de Claude-Nicolas Ledoux, considerée dans ses rapports avec Piranèse”, Georges Brunel (a cura di), Piranèse et
les français, Colloque Tenu
à la Villa Médicis, 12-14 Mai 1976, Roma 1978.
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