Costruir
visioni: intrecciare restaurazione politica e metamorfosi spirituale;
riorientamento della sede papale in Roma e rimodellamento dei rapporti con la
cittadinanza; edificare percorsi e demolire opposizioni; far mecenatismo e
scontrarsi col reale.
Negli otto
anni di pontificato di Niccolò V, dal 1447 al 1455, a Roma si delineano le basi
di una metamorfosi architettonico-urbanistica che si fa prospettiva culturale.
Superando le conseguenze del trasferimento del papato ad Avignone e del Grande
Scisma d’Occidente, Martino V – a cui si deve un atteggiamento “rivoluzionario”
nei confronti dell’antico, visto come modello estetico-culturale da recuperare [1]
– ed Eugenio IV recuperano la sede romana. Ma è con Niccolò V che – ricomposto
il Piccolo Scisma d’Occidente e sottomessosi l’antipapa Felice V – si delineano
dei percorsi politico-spirituali all’origine dei secoli di massimo splendore della
Roma pontificia.
Le concessioni
ai principi tedeschi, laici ed ecclesiastici, e il Concordato di Vienna del
1448 sono la contropartita, in Europa, di scelte umanistiche e religiose che
ridefiniscono la centralità di Roma come “città del Papa”. Prossimo a
sofisticati ambienti culturali, Niccolò V pratica del mecenatismo spirituale:
-
si operano costruzioni, restaurando e rinnovando
ponti, acquedotti e chiese;
-
si procede al riassestamento delle mura vaticane
e delle fortificazioni di Castel S. Angelo;
-
si determinano visioni delle articolazioni
territoriali e delle relazioni tra i gruppi sociali nell’Urbe: vecchia e nuova
nobiltà, strati mercantili, ripartizioni dei poteri all’ombra del pontificato,
in un percorso che è di confronto politico ma anche di dialettica spaziale,
tesa ed “illuminata”, lineare ed accidentata, segnata da successi e da drammi.
Ritrovare
definitivamente Roma – tanto da incoronarvi nel 1452, per l’ultima volta, un
imperatore: Federico III – è per il pontefice anche un riorientamento dell’asse
artistico-spirituale della città: dal Laterano all’area vaticana, dall’ideale
continuità con la dimensione imperiale alla possibile raffigurazione in termini
di moderno principato, coesistente con gli altri Stati italiani e collegato ad
essi nella Lega Italica. La macrostoria dell’Urbe si sostanzia anche di
percorsi intra muros, lungo l’asse
sud-est/nord-ovest: da San Giovanni in Laterano al Colosseo e al Campidoglio,
prima di giungere alla “cesura” del fiume, al Ponte e al Castel S. Angelo –
mole-fortezza di veglia militare che si fa segno spirituale – e al Borgo,
protetto e diretto dalla Basilica di San Pietro. E’ in quest’asse che si
delinea la prospettiva politico-mecenatistica di Niccolò V.
Sul tessuto
intellettuale del confronto con l’immagine della città, momento fondante è la Descriptio Urbis Romae di Leon Battista
Alberti: riappropriazione fisica e mentale, ricostruzione matematica che
s’intreccia alla memoria storica, visita che si fa visitazione, topografia come
rifondazione dello spirito, “in teoria una pianta della città di Roma, ma in
pratica una lista di coordinate polari che permettono al lettore di ridisegnare
l’immagine della pianta di Roma nella scala desiderata a partire dalle
coordinate di 175 punti salienti” [2] .
L’incipit albertiano ritraccia il
contesto ed esplicita il progetto: “Ho rilevato quanto più diligentemente
possibile, con l’ausilio di mezzi matematici, il contorno delle mura della
città di Roma, il percorso del fiume e delle strade, il luogo e la collocazione
dei templi, delle opere pubbliche, delle porte e dei monumenti commemorativi e
le delimitazioni dei colli ed anche l’area che è occupata dalle abitazioni,
così come li conosciamo in questo nostro tempo. Ho inoltre escogitato un metodo
per cui chiunque […] possa con precisione e con facilità disegnarli su una
superficie grande quanto si voglia” [3] .
Continuatore
della tradizione di Vitruvio, con il De
Architectura pervenutoci privo di illustrazioni, della Geografia di Strabone – i cui diciassette libri delineano una
cosmografia dell’antichità senza rappresentare alcun disegno –, l’Alberti,
abbreviatore apostolico dal 1432, riconosce negli spazi e nei resti della
classicità l’antitesi di un Trecento che a Roma è stato a-pontificio, senza configurarsi come costruzione di un’identità altra. La Descriptio riprende la metodica della Geografia di Tolomeo – fornire ad ogni studioso i mezzi matematici
per costruire una mappa –, passando dalla dimensione globale (oltre 8.000 punti
sono individuati dalle coordinate tolemaiche) al perimetro urbano: evidenziata
dall’Alberti, l’identità dell’Urbe comincia a ritrovare dignità spaziale,
sebbene in forma semplificata e parziale.
Riprendendo le
conclusioni di Carpo – “L’Alberti può già creare, ma non può ancora comunicare
immagini moderne” [4]
– giungiamo al possibile inverarsi della prospettiva topografica albertiana nel
reticolo urbano di Roma, per il tramite del mecenatismo spirituale niccolino:
dall’esame archeologico si addiviene alla ristrutturazione di Santa Maria
Maggiore, al restauro di S. Stefano Rotondo, a tracce di interventi sul
Campidoglio e a Palazzo Venezia; culmine trattatistico di questa stagione è il De re aedificatoria, presentato a
Niccolò V.
Le
elaborazioni politico-diplomatiche, le riflessioni umanistiche e le urgenze di
governo si sostanziano di un’attività mecenatistica papale che è costruzione di
un’immagine spirituale da proporre al pubblico nella condivisione di
prospettive artistiche. Lontano dalle grandi famiglie della conflittuale
nobiltà romana, Niccolò V, per origine “di sì vile nazione che non aveva arma e
fece per arma la chiave” – come nota il coevo cronista Paolo dello Mastro –,
trasforma l’assenza di un segno particolare in presenza di un simbolo
universale per la cristianità: le chiavi decussate.
Scrive
Paschini: “In questo programma di pacificazione e di restaurazione universale
propostosi dal grande Pontefice, il Giubileo aveva una parte notevolissima ed
egli vi attese con grande fervore. Lo indisse solennemente il 29 gennaio 1449
per il Natale seguente […]” [5] .
Sull’apertura della porta santa di San Giovanni in Laterano osserva nella sua
relazione il mecenate-pellegrino Giovanni Rucellai, a Roma per la ricorrenza:
“ve ne è una che del continuo sta murata eccetto che l’anno del Giubileo ed è
tanta la divozione che le persone hanno ne’ mattoni e calcinacci, che subito
come è smurata, a furia di popolo sono portati via, e gli oltramontani se ne
gli portavano a casa come reliquie sante […]” [6] .
Il Giubileo
del 1450, di cui resta ampia documentazione, proporzionata all’afflusso di
romei dall’Italia e dall’estero, conclude la prima parte del pontificato di
Niccolò V. L’afflusso di pellegrini in cerca di un ricetto esaspera la
problematica degli alloggi precari o abusivi [7] ,
che non possono non interferire con un ideale disegno di ridefinizione della
città papale. Scrive Paolo dello Mastro: “Nella via che va a Sancto Pietro, lì
presso le mura, erano fatte molte casette da quelli poveri, ove già s’era fatta
grandissima congregazione di gaglioffi, et facevasi di molto male. El papa
fecie mettere fuoco in quelle case, tutte furono arse”. L’anno santo introduce
anche l’elemento tragico. “In primo luogo la peste che, nei mesi caldi, si
riaffacciò anche a Roma. Narra il cronista […] che ‘morì molta gente e molti di
questi romieri; e morivano talmente che tutti gli ospedali, chiese, ogni casa
era pieno tra malati e morti; e cascavano morti per le strade come cani, tra
l’aria che era infetta ed essi che venivano a grande disagio, bruciati dalla
calla e dalla polvere. Ce ne morirono tanti che fu un abisso [disastro] […]’ (Cronache romane, 20). Per sfuggire il contagio, molti uscirono
dalla città, fra cui Niccolò V che si rifugiò a Fabriano, non prima però
di aver canonizzato san Bernardino” [8]
– morto all’Aquila nel 1444 –, il 24 maggio 1450. Mesi più tardi, il 19 dicembre 1450, la calca
di pellegrini nelle opposte direzioni provoca oltre centosettanta vittime,
annegate o schiacciate al Ponte S. Angelo [9] .
Scrive
Vespasiano da Bisticci che “col Giubileo, venne alla sedia apostolica
grandissimo numero di denari, per questo cominciò il papa ad edificare in più luoghi” [10] .
“Già in in vista del giubileo papa Parentucelli, con la consulenza di
Leon Battista Alberti, aveva dato inizio alla revisione urbanistica di
Roma e dintorni e i lavori proseguirono anche dopo” [11] .
Ecco dunque
gli interventi sulla paleocristiana basilica di S. Stefano Rotondo al Celio.
Voluta probabilmente da Leone I, la costruzione originaria sembra risalire agli
anni 455-460; dall’articolata pianta circolare, costituita inizialmente da tre
cerchi concentrici, la struttura è rimaneggiata e più volte trasformata nei
secoli, sino a perdere a tal punto leggibilità e funzione da esser definita,
verso il 1420, basilica disrupta.
Scrive Rucellai nella sua Relazione:
“La chiesa di sancto Stefano ritondo tempio d’idoli tondo in su 20 colonne con
architravi aperto per tutto et da torno uno andito con tetto serrato di mattoni
con una cappella antica dallato con musaico et con tavolette et tondi di
porfido et serpentino et con fogliami di nacchere et grappoli d’uve et tarsie
et altre gentilezze” [12] .
Niccolò V ne
affida il cantiere all’allievo dell’Alberti, Bernardo Rossellino, che
sovrintende al restauro delle coperture e al rifacimento del pavimento, di cui viene
innalzato il livello: al centro dell’edificio, a ridosso del muro trasversale
aperto da tre arcate eretto nel XII secolo per rafforzare la struttura, è posto
un altare marmoreo [13] .
Nell’articolata planimetria della Roma niccolina, il restauro della basilica
rappresenta la riappropriazione al papato di un edificio lontano dalle sedi
politico-decisionali e la sua reintegrazione nell’orizzonte classico-cristiano
dell’Urbe: la mappa della città ritrova così uno dei suoi punti di riferimento,
mentre il mecenatismo spirituale del pontefice si mostra nella capacità di
ri-significare i luoghi per farne ambiente pubblico.
Collegata al
Giubileo è anche la “costruzione immateriale” della Biblioteca Apostolica
Vaticana. Il grande flusso di denari che si riversa in Roma a seguito
dell’afflusso di pellegrini consente allo stato pontificio d’incamerare fiorini
corrispondenti a trenta volte l’ammontare di un anno normale. Invia dunque
Niccolò V legati in Europa alla ricerca di codici e manoscritti; scrive, con
esagerazione, Vespasiano: “Congregò
grandissima quantità di libri in ogni facultà, così greci come latini, in
numero di volumi cinquemilia. Così nella fine sua si trovò per inventario, che
da Tolomeo in qua non si vene mai alla metà di tanta copia di libri, d’ogni facultà” [14] .
In verità, i volumi raccolti erano un migliaio, conservati in dodici armadi, ma
il progetto papale sembra evidente: “Intentione di papa Nicola era di
fare una libraria in Sancto Piero, per comune uso di tutta la corte di Roma,
che sarebe suta cosa mirabile, se si poteva conducere, ma prevento dalla morte
non si potè finire” [15] .
Pier Candido Decembrio osserva che Niccolò V meditava di costruire una
biblioteca in grado di rivaleggiare, per dimensioni e qualità dei testi, con
quelle di Pergamo e di Alessandria. Con una lettera del 1451 ad Enoch di
Ascoli, il pontefice incarica l’umanista di ricercare nelle biblioteche dei
monasteri tedeschi testi che “culpa superiorum temporum sunt deperditi”: si
delinea il progetto di una biblioteca, con testi greci e latini, ad uso dei
dotti nonché attenta alle esigenze di rappresentanza della Santa Sede [16] .
Niccolò e il successore Sisto IV – che
con la bolla “Ad decorem militantis ecclesiae”, nel 1475, istituzionalizza il
ruolo dell’Apostolica Vaticana –, concepiscono la biblioteca come uno spazio pubblico [17] ,
aperto agli studiosi e alla meditata utilizzazione dei materiali raccolti, con
un approccio sostanzialmente diverso da quello “riservato” della Biblioteca
Medicea nel Convento di San Marco o da quello estetico-cortese della Biblioteca
Estense a Ferrara, destinata a includere selettivamente solo gli autori
migliori: è in questa accezione che si delinea uno degli snodi che lega il
mecenatismo papale ad una dimensione potenzialmente fruibile. Nella seconda
metà del ‘400 Roma diviene il centro principale di studi e diffusione di testi
della classicità: Valla dedica a Niccolò V, nel 1452, la traduzione latina
della Storia delle guerre del Peleponneso
di Tucidide. Scrive la Vircillo Franklin: “Valla e il copista […] firmano la
copia con dedica per attestare la correttezza della traduzione e della
trascrizione e la depositano nella biblioteca papale affinché serva da matrice,
riferimento normativo, testo corretto al quale tutte le copie future dovrebbero
attenersi” [18] .
E’ in quest’esemplare che il termine “archetipo” compare per la prima volta
nell’accezione umanistica di “esemplare ufficiale”, conservato in una pubblica
biblioteca: il mecenatismo niccolino vuole andare incontro al proprio pubblico.
In direzione opposta, alla ricerca di
un’intimità di preghiera in scrigno decorativo quattrocentesco, si pone la
celebrazione del mecenatismo spirituale del pontefice nella Cappella Niccolina.
Spazio privato all’interno della Torre d’Innocenzo III, nella parte più antica
del Palazzo Apostolico, la cappella ha pareti decorate dal Beato Angelico e da
Benozzo Gozzoli con scene delle vita di due santi: il registro superiore è
consacrato ad episodi della vita di Santo Stefano protomartire, mentre quello
inferiore è dedicato a San Lorenzo. La volta a crociera, dallo sfondo di cielo
stellato, ospita le immagini dei Quattro evangelisti, mentre i pilastri e gli
arconi di fondo presentano otto Dottori della Chiesa [19] .
Il pontefice rinnova all’Angelicus pictor la stima già
manifestatagli da Eugenio IV ed è ricambiato dal frescante con la sua
raffigurazione nelle sembianze di Sisto II nell’atto di consacrare Lorenzo
diacono e nel momento in cui gli vengono consegnati i tesori della Chiesa: il
papa umanista e bibliofilo è così innanzitutto celebrato come protagonista
della storia ecclesiastica e fonte di carità.
Le scene di Santo Stefano seguono lo
schema della Legenda Aurea, mentre
quelle di San Lorenzo riprendono l’antico modello del ciclo di San Lorenzo
fuori le Mura. Gli affreschi evidenziano parallelismi nelle vite dei due santi
– entrambi diaconi, benefattori dei poveri, martiri per la fede – mostrando
inoltre legami tra la chiesa di Gerusalemmeequella di Roma [20] .
Ricchi di dettagli architettonici, gli
affreschi alludono anche al desiderio del pontefice di ricostruire e ridefinire
Roma come capitale della cristianità. Le mura del Martirio di Santo Stefano
alludono al restauro delle mura di Roma, mentre le divisioni nella comunità
ebraica di Gerusalemme possono compararsi allo scisma cristiano di cui è stato
testimone Niccolò V.
La prospettiva di pacificazione della
penisola e la ricostruzione dell’immagine di Roma all’insegna dell’umanesimo
spirituale lasciano scoperto il fronte interno: nella città papale – troppo
recentemente recuperata all’autorità pontificia – e nell’alveo della cultura
quattrocentesca, memore di una percezione anti-monarchica e repubblicana della
storia antica. Osserva il Machiavelli delle Istorie
fiorentine: “Il Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in
quanto egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e benché e’ si
astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla più pericolosa in casa. Viveva
in quelli tempi un messer Stefano Porcari, cittadino romano, per sangue e per
dottrina, ma molto più per eccellenza di animo, nobile. Desiderava costui,
secondo il costume degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o tentare
almeno, qualche cosa degna di memoria; e giudicò non potere tentare altro, che
vedere se potesse trarre la patria sua delle mani de’ prelati e ridurla nello
antico vivere, sperando per questo, quando gli riuscisse, essere chiamato nuovo
fondatore e secondo padre di quella città. Facevagli sperare di questa impresa
felice fine i malvagi costumi de’ prelati e la mala contentezza de’ baroni e
popolo romano; ma sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del Petrarca,
nella canzona che comincia: ‘Spirto gentil che quelle membra reggi’, dove dice:
Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai / Un cavalier che Italia tutta onora, /
Pensoso più d’altrui che di se stesso” [21] .
Nella ricostruzione di Machiavelli
scorgiamo l’altra valenza dell’immagine culturale quattrocentesca, che ambisce
a farsi storia risorgendo dalla prospettiva lirica petrarchesca, con l’inquieto
spirito del Porcari rifiutare il mecenatismo niccolino in nome di diverse
letture dei tempi, ove si confrontano il passato che ammaestri il futuro e un
presente su cui intervenire: “Sapeva messere Stefano i poeti molte volte essere
di spirito divino e profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo
intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona profetizzava, ed
essere egli quello che dovesse essere di sì gloriosa impresa esecutore; […]
Venne la cosa a notizia al Pontefice la notte […] Comunque si fusse, il Papa
[…] fece prendere messere Stefano con la maggior parte de’ compagni, e di poi,
secondo che meritavano i falli loro, morire. Cotal fine ebbe questo suo
disegno. E veramente puote essere da qualcuno la costui intenzione lodata, ma da
ciascuno sarà sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le hanno
in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno, nello esequirle, quasi
sempre certissimo danno” [22] .
Insieme ai complici Battista Sciarra e
Angiolo Ronconi, Stefano Porcari è processato e condannato a morte, esposto ad
un bastione di quel Castel S. Angelo dalla rinnovata centralità all’interno del
perimetro urbano di Roma [23] .
Nel De Porcaria conjuratione, dopo
aver definito l’artefice della congiura “Homo impatiens” l’Alberti chiosa: “Coepit enim veterem Urbis
gloriam deperditam deplorare, et temporum injurias detestari […]” [24] .
La morte del Porcari segna un punto di
svolta nell’ambito delle interpretazioni della classicità nella Roma
quattrocentesca, contraddistinta da diversi tipi di classicismo:
-
un umanesimo curiale, rappresentato dai papi
umanisti come Niccolò V e i suoi più illuminati successori;
-
un “platonismo romano”, legato ad ambienti ove
antichi precetti teologici incontrano il cristianesimo attraverso la mediazione
del neoplatonismo, sulla scia di Niccolò Cusano e del cardinal Bessarione;
-
un umanesimo prossimo all’interpretazione
curiale e a quella platonizzante, ma destinato ad accentuare tanto la propria
tendenza paganeggiante da spingere papa Paolo II a sciogliere, nel 1468,
l’Accademia romana;
-
un classicismo, infine, “mosso da esigenze
ideologiche rapportabili all’eredità della tradizione municipale […] [in] un
diverso rapporto con l’antichità classica romana che tende a sottrarre alla
Curia l’egemonia di questa tradizione”. Tale linea, che risale a Cola di
Rienzo, trova un primo momento di riattivazione nella rivendicazione di una romana libertas e un successivo
congiurare in nome di una Respublica ad opera del Porcari, per il quale la
romanità è “un patrimonio esclusivo di cui i Romani sono gli unici eredi
diretti, un insieme di valori non solo aventi […] una validità universale, ma
anche perennemente attuali non in nome di questa universalità ma in nome di una
trasmissione quasi biologica: sempre potenzialmente attivi nei Romani, appunto
in quanto Romani, basta richiamarli alla coscienza perché diventino operanti” [25] .
Punto di avvio di un processo di
metamorfosi del potere nell’Urbe, da entità tardo-medievale a nucleo di
principato rinascimentale, nel “periodo tra il 1447 e il 1527, che è parso
essere la fase della riqualificazione di Roma non solo come capitale, ma anche
come ‘centro di un sistema di relazioni che si infittiscono e si consolidano’ [26]
a livello italiano ed europeo, gli obiettivi e le contraddizioni del processo
di costruzione della sovranità pontificia sembrano materializzarsi nella
grandiosità e nelle incoerenze dei progetti di ristrutturazione dello spazio urbano” [27] ,
mentre il mecenatismo spirituale di Niccolò V mostra anche il suo volto
spietato, nella logica di un potere che, turbato dalla congiura e addolorato
dalla caduta di Costantinopoli, non recupererà andamento né sereno né aperto,
concludendo la propria parabola nel 1455.
NOTE
Comunicazione presentata al Convegno Mecenatismo, artisti, pubblico nel Rinascimento organizzato a Chianciano Terme e Pienza nel 2009 dall'Istituto Studi Umanistici "Francesco Petrarca"
[1] Cfr.
C. Strinati – M. Bussagli, Il Quattrocento a
Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, Skira, Roma, 2008.
[2] M.
Carpo – F. Furlan, Riproducibilità e
trasmissione dell’immagine tecnico-scientifica nell’opera dell’Alberti e nelle
sue fonti, Introduzione a L. B. Alberti, Descriptio Urbis Romae, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2005.
[3] L. B.
Alberti, Descriptio Urbis Romae, Leo
S. Olschki Editore, Firenze, 2005.
[5] P.
Paschini, I Giubilei del secolo XV,
in C. Bandini et alii, Gli anni santi,
Società Editrice Internazionale, Torino, 1934.
[6] G.
Rucellai, Il Giubileo dell’anno 1450
secondo una Relazione di Giovanni Rucellai, in “Archivio della Società
romana di Storia patria”, IV, 4, 1881.
[7] Cfr
M. Sensi (a cura di), Il Giubileo
viaggio nella storia - Gli Anni Santi del 1423 e 1450 http://www.vatican.va. Osserva Rucellai, nella sua Relazione: “Erano in Roma questo anno del giubileo hosterie
milleventidue che tengono insegna di fuori. Et sanza insegna anche uno grande
numero”.
[9] Leggiamo
nel Diario di Stefano Infessura che
“nel sabbato 19 dicembre 1450, tornando il popolo da S. Pietro,
dove si era mostrato il Sudario, e data la benedizione da papa Niccolò V, avvenne la
terribile sciagura, che per la calca si ruppero le sponde del ponte e 172
persone perirono, in parte soffocate sul ponte stesso, in parte annegate nel
fiume; onde quel papa all’ingresso del ponte fece erigere due picciole cappelle
rotonde dedicate a S. Maria Maddalena e ai SS. Innocenti; poi restaurò il ponte
e perciò il suo nome N[iccolò] P[ontefice] M[assimo] V si legge sopra uno de’
piloni nella faccia rivolta al Vaticano”.
[10] V. da
Bisticci, Vite degli uomini illustri del
secolo XV.
[12] G.
Rucellai, op. cit.
[13] Un’iscrizione
sulla trabeazione d’ingresso ricorda la ricostruzione: “ECCLESIAM HANC PROTOMARTYRIS
STEPHANI DIV ANTE COLLAPSAM / NICOLAVS V PONT MAX EX INTEGRO INSTAVRAVIT
MCCCCLIII”.
[14] V. da
Bisticci, op. cit.
[16] “Ut
pro communi doctorum virorum comodo habeamus librorum omnium tum latinorum tum
grecorum bibliothecam condecentem pontificis et sedis apostolicae dignitati.”
[17] Cfr. C. Vircillo Franklin, “Pro communi doctorum virorum
comodo”: The Vatican Library and Its Service to
Scholarship, The American Philosophical Society, Vol. 146, NO. 4, December 2002.
[19] La Deposizione di Cristo dipinta
dall’Angelico sulla parete di fondo, dietro l’altare, andata persa, è stata
sostituita dalla Lapidazione di Santo
Stefano del Vasari.
[20] La
Basilica di San Lorenzo è stata sede del Patriarca Latino di Gerusalemme.
[23] Alla
tragica conclusione della congiura e al clima di tensione diffusosi in città è
legata una sarcastica pasquinata: “Da quando è Niccolò papa e assassino/abbonda
a Roma il sangue e scarso è il vino” (C. Rendina, I papi, Newton & Compton Editori, Roma, 1996).
[25] V. De
Caprio, Roma, in A. Asor Rosa (a cura
di), Letteratura italiana. Storia e
geografia, vol. II: L’età moderna I, Einaudi, Torino, 1988, pp. 327-472.
[26] G.
Chittolini, Alcune ragioni per un
convegno, in S. Gensini (a cura di), Roma
capitale (1447-1527), Pacini, Pisa, 1994.
[27] M. A.
Visceglia, Identità urbana, rituali
civici e spazio pubblico a Roma tra Rinascimento e Controriforma, relazione
tenuta al convegno “Urbs: Concepts and realities of public space / Concetti e
realtà dello spazio pubblico”, tenutosi presso l’Istituto Olandese di Roma il
2-4 aprile 2003.
|