«[…]
la Divina
Commedia
è una città che non avremo mai esplorato del tutto; la più
logorata e ripetuta terzina può, una sera, rivelarmi chi sono io o
che cos’è l’universo»,
dichiara Borges celebrando così la sua appassionata ammirazione per
quello che definisce «il
primo libro del mondo»,
dapprima avvicinato in inglese e letto poi, più volte, in originale.
Sull’asse
di un rapporto non univoco tra sensibilità borgesiana e altre
aspirazioni culturali, seguiamo tracce urbane tra architetture e
storie, liriche e visioni, finzioni e fusioni. Primo libro pubblicato
da Borges nel 1923, le poesie di Fervore
di Buenos Aires
definiscono una meditata immagine sintetica della città. Nulla che
rappresenti gli spasimi della modernità e della (ri)costruzione,
figurata o propria, tipici di certe esperienze europee del primo
dopoguerra. Nel momento in cui Le Corbusier pubblica uno dei
manifesti del modernismo come Vers
une architecture
– «On
met en œuvre de la pierre, du bois, du ciment; on en fait des
maisons, des palais; c’est de la construction. L’ingéniosité
travaille. Mais, tout à coup, vous me prenez au cœur, vous me
faites du bien, je suis heureux, je dis: c’est beau. Voilà
l’architecture. L’art est ici»
–; nello stesso anno in cui Giuseppe Antonio Borgese, nella
Prefazione
a Tempo
di edificare,
stila, per sé e per la sua generazione, un bilancio di quanto
critica e inventività dovrebbero aver realizzato – «Tempo
di edificare:
non già nel senso che le costruzioni artistiche valgano per la loro
massa quantitativa […] voglio dire che è venuto per me, già da
tempo, il tempo di edificare, di essere pienamente quale è mio
dovere d’essere, scrivendo i libri d’arte e di storia che ho
promessi a me stesso, e lasciando ai critici nuovi il compito di
giudicare alla loro volta»
–, il ventiquattrenne scrittore argentino, in procinto di recarsi
nuovamente in Europa con la famiglia, crea una raccolta poetica
all’insegna di una sensibilità, e di un’urbanistica,
eccentriche.
Nel Prologo
redatto per l’edizione del 1969, un Borges maturo che cancella
«sentimentalismi
e vaghezze»
– ma che riconosce nel poeta d’un tempo «essenzialmente»
la «stessa
persona»
– conclude ricordando che voleva, allora, «cantare
una Buenos Aires di case basse e, a occidente o a sud, di ville con
inferriate. A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e
l’infelicità; ora cerco i mattini, il centro e la serenità».
Non
lontane, rispetto al nucleo cittadino, dalle zone rappresentate da
Boccioni nella seconda metà del primo decennio del ’900 – si
pensi a Officine
a Porta Romana
del 1908 (fig.
1) o
a Paesaggio
al tramonto
del 1906 (fig.
2) –,
le prospettive urbane presenti in Borges hanno altra valenza: le sue
liriche alterano programmaticamente la polarità inclusiva
e celebrativa presente nel primo futurismo italiano in nome di una
ricercata distanza da ogni celebrazione modernista e frequentano gli
spazi ove la città si perde o, secondo altre visioni, si riconosce.
Nella Prefazione,
dalla chiusa vagamente baudelairiana, All’eventuale
lettore
– successivamente espunta –, Borges ricorda: «Alla
lirica decorativamente visiva e brillante lasciataci in eredità […],
ho voluto opporne un’altra, meditabonda, fatta di avventure
spirituali […]».
E, mutando di segno tra sobborgo e foto, pensiamo alle frasi di
Barthes ne La
camera chiara
su quanto ci
avviene,
sulle nostre avventure:
«In
questo deprimente deserto, tutt’a un tratto la tale foto mi
avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare
l’attrattiva che la fa esistere: una animazione.
In sé, la foto non è affatto animata […], però essa mi anima:
e questo è appunto ciò che fa ogni avventura».
E
“avventure”, nel segno di una dolente negatività, esprimono i
versi di Città,
del 1922:
«Insegne
luminose strattonano la stanchezza.
Volgari
schiamazzi
saccheggiano
la quiete dell’anima.
Colori
impetuosi
scalano
le attonite facciate.
Dalle
piazze rotte
traboccano
copiose le distanze.
Il
tramonto abbattuto
che
si rannicchia oltre i sobborghi
è
beffa d’ombre rovinate.
Io
percorro le strade svigorito
dall’insolenza
delle luci false
e
il tuo ricordo è come brace viva
che
non lascio cadere
anche
se mi brucia le mani».
Gli
itinerari borgesiani definiscono una dualità che, da storica, si fa
culturale, spaziale, lirica: la nativa Argentina sta all’Europa
come il criollismo alla modernità indistinta, i sobborghi al centro
chiassoso e volgare; e, in immagine poetica, la pace del crepuscolo
sta all’implacabile nettezza del tramonto. Sorta di manifesto
apparso in Spagna nel 1921, i versi di Sobborgo
condensano inquietudini e aspettative:
«Il
sobborgo è il riflesso del nostro tedio.
I
miei passi hanno esitato
sul
punto di calcare l’orizzonte
e
son rimasto tra le case
quadrettate
in isolati
differenti
e uguali
come
se tutti fossero
monotoni
ricordi ripetuti
di
un unico isolato.
L’erbetta
precaria,
disperatamente
speranzosa,
spruzzava
le pietre della strada
e
ho veduto il tramonto in lontananza
coi
suoi colori di carte da gioco
e
ho sentito Buenos
Aires.
Questa
città che credevo il passato
è
il mio avvenire, il mio presente;
gli
anni vissuti in Europa sono illusori,
io
sono stato sempre (e starò) a Buenos Aires».
Il
luogo urbano che chiude la lirica è epitome di un universo, reale e
fantastico.
Ma, come ogni sintesi pletorica, ha in sé anche elementi che il
poeta detesta. Le pagine di prosa di Buenos
Aires,
ancora del 1921, tracciano percorsi tra stati d’animo e
architetture, con un incipit
all’insegna della non-conoscibilità: «Né
di mattina né di giorno né di notte vediamo davvero la città».
Non resta, per un incontro armonico tra uomo e spazio-tempo, che
l’imbrunire: «La
sera è l’inquietudine della giornata, e perciò si accorda con
noi, che pure siamo inquietudine […] ed è a forza di sere che la
città penetra in noi».
Subito dopo, Borges entra nello specifico architettonico-urbanistico
della capitale argentina – di cui cita più avanti case, porte,
ringhiere –, evidenziando idiosincrasie e ostilità: «A
dispetto dell’umiliazione transitoria che riescono a infliggerci
alcuni imponenti edifici, la vista complessiva di Buenos Aires non ha
nulla di slanciato. Buenos Aires non è una città erta e ascendente
che turba la divina limpidezza con estasi di torri assidue o con una
marmaglia caliginosa di ciminiere indaffarate. E’ semmai una copia
fedele della pianura che la circonda […] Le linee orizzontali
dominano quelle verticali. Le prospettive […] sono troppo semplici
per non sembrare inverosimili. Quattro infiniti attraversano ogni
crocevia».
Le
parole di Borges sul predominio dell’orizzontalità nella capitale,
solo sporadicamente segnata da “umilianti” edifici sviluppati in
altezza, sembrano indirizzarsi in negativo al più grande edificio
per uffici di Buenos Aires: quel “Palacio Barolo” (fig.
3) che,
realizzato tra il 1919 e il 1923, è temporaneamente la costruzione
più alta dell’America meridionale e, fino al 1935, della città.
L’imprenditore tessile italiano Luigi Barolo (1869-1922), giunto in
Argentina nel 1890, ne affida la realizzazione all’architetto
milanese Mario Palanti (1885-1978), consentendo così la creazione di
una struttura edilizia in grado di condensare diversi elementi
concettuali. Nello stesso anno in cui è pubblicato Fervore
di Buenos Aires,
viene inaugurato in Avenida de Mayo il “Palacio Barolo”, frutto
di un eclettismo architettonico – ammiccante anche a suggestioni
esoterico-indiane (fig.
4) –
come evidenza di un cosmopolitismo capace di veicolare stilemi e
passioni da un continente all’altro.
Nato
a Milano da una famiglia di origini cremonesi, Palanti segue un
percorso formativo tipico per quegli anni, iscrivendosi nel 1904
all’Accademia di Brera e diplomandosi nel 1909. Giunge in Argentina
nello stesso anno: collabora alla
costruzione del Padiglione italiano nella mostra sul centenario della
Rivoluzione di Maggio (18-25
maggio 1810),
continuando
a lavorare per qualche tempo nella capitale prima di prender parte,
in Trentino, al Primo conflitto mondiale. Tornato a Buenos Aires nel
1919, vi realizza, in circa dieci anni, diversi edifici commerciali,
oltre al “Palacio Salvo” di Montevideo, terminato nel 1925 ma di
maggiore altezza rispetto al gemello “Palacio Barolo” argentino.
Nonostante il cursus
tradizionalmente milanese, nel capoluogo lombardo Palanti lascia
poche tracce costruttive.
Anzi, in un periodo di forti trasformazioni nel tessuto
architettonico-urbanistico di Milano – si pensi alla realizzazione,
tra il 1919 e il 1922, della “Ca’ Brutta” di Giovanni Muzio, al
clima “Novecento” che trascolora dalle raffigurazioni pittoriche
alle arti in genere e alla costruzione, nonché all’atmosfera di
dibattito e innovazione culturale intorno alle tematiche edificatorie
–, Palanti sembra trovare un proprio percorso creativo, all’insegna
di un tardo o neo-eclettismo, solo nella capitale argentina.
Nelle
pagine in prosa di Buenos
Aires,
Borges dedica commossa attenzione alle case così «dolorosamente
uguali»
e alle loro «piccole
soglie di marmo»:
abitazioni che «sono
la traduzione, in calce e mattoni, dell’animo dei loro abitanti»
e del loro «Fatalismo».
Le osservazioni dello scrittore, che passano dal macro-livello
urbanistico della capitale – a sua volta, si diceva, immagine del
Paese – al micro-livello dei particolari poveri delle semplici
abitazioni predilette, richiamano indirettamente le scelte
costruttive di Palanti, che non si limita a curare la strutturazione
ingegneristica e la veste eclettica del “Palacio Barolo”, ma si
occupa anche degli ascensori (fig.
5),
dell’apparato illuminativo, delle maniglie delle porte: in una
forma di progettazione unitaria che, del tutto aliena dagli
ideologismi dell’architettura d’avanguardia, ne assume una delle
impostazioni, ovvero la ricerca dell’opera e della realizzazione
integrate.
L’integrazione
può persino oltrepassare il progetto urbano per toccare una scala,
almeno parzialmente, continentale. I due edifici costruiti da Palanti
a Buenos Aires e a Montevideo si concepiscono come “Colonne
d’Ercole” sul Río
de la Plata: torri-faro che illuminano e segnano l’Estuario, dotate
di grandi cupole in grado, con le loro 300.000 candele steariche, di
inviare segnali luminosi multicolori. Ma se le architetture di
Palanti rivestono un ruolo simbolico di guida per i naviganti,
d’invito a seguire corrette rotte di approccio-arrivo e di
integrazione nei paesi interessati – edifici portatori, fin dal
nome, del patrimonio economico ed esperienziale di italiani migranti
–, un altro aspetto merita di esser ricordato. Alla confluenza tra
contingenza storica e portato culturale, tra passione e mania, sorta
di cementizio corrispettivo dell’ammirazione borgesiana per la
Divina
Commedia,
il “Palacio Barolo” si fa interpretare anche come un monumento a
Dante e al suo capolavoro.
Articolato
su 22 piani e alto 100 metri, come i cento canti del poema,
l’edificio racchiude in sé l’ammirazione per Dante da parte
dell’imprenditore Barolo e dell’architetto Palanti, entrambi
convinti – dopo gli anni della “Grande guerra” – che l’Europa
avrebbe vissuto a breve, nuovamente, una terribile esperienza
bellica. Se, come si osserva, questa vicenda «è
emblematica del rapporto che lega molti antichi emigrati italiani
alla cosiddetta madrepatria»,
le parole di Roberto Alajmo su Luigi Barolo sono chiare: «quando
decise di farsi costruire a Buenos Aires una sede di rappresentanza
per la sua azienda tessile, diede all’architetto una committenza
precisa: più che un palazzo, voleva un tempio celebrativo che
potesse ospitare le ceneri del Sommo Poeta»,
di cui teme la dispersione a seguito di future operazioni militari
contro la città di Ravenna. E in strade, come ricorda Borges,
segnate dal prevalere della linea orizzontale e con altezza massima
degli edifici limitata a venti metri, l’imprenditore italiano
riesce ad ottenere una deroga che consenta l’elevazione di un
edificio cinque volte più alto.
La
costruzione intende corrispondere al sistema simbolico della Divina
Commedia:
l’ingresso e i due livelli del sottosuolo segnano l’Inferno (fig.
6),
i piani 1-14 costituiscono il Purgatorio, mentre i livelli 15-22 sono
il Paradiso (fig.
7),
dominato ed evidenziato dal faro, rosa mistica e divina luminosità
(fig.
8):
e sul «faro
c’è la costellazione della Croce del Sud, […] allineata con
l’asse di simmetria del Palazzo Barolo nei primi giorni del mese di
giugno alle ore 19,45».
Come percorsi d’iniziazione, nove volte architettoniche – ognuna
con frasi in latino tratte da opere diverse – indicano l’accesso
all’edificio. L’imprenditore si attiva anche presso le autorità
italiane perché i resti di Dante possano riposare nella nuova patria
d’Oltreoceano, dove gli Italiani sono ormai numerosissimi: le
«spoglie
del poeta fiorentino avrebbero dovuto riposare sotto la volta
centrale, su un piedistallo di bronzo nel piano terra, nel cosiddetto
Passaggio Barolo. Quel visionario di Palanti preparò anche una
statua di bronzo di 1,50 metri di altezza detta “Ascensione”, che
rappresentava lo spirito di Dante. La statua poggiava i piedi su […]
un condor, a simbolo del viaggio eterno verso il Paradiso. Insomma,
Dante sarebbe uscito dal Purgatorio per andare in Paradiso passando
dalla Croce del Sud».
Quello
che i porteños
sembrano definire come
il
«rimorso
italiano», esoterica costruzione nostalgica della patria, più che
nella borgesiana Parabola
del palazzo
– «Quel
giorno l’Imperatore Giallo mostrò il suo palazzo al poeta […]
Nel mondo non possono esserci due cose uguali […]»
–, sembra trovare nello scrittore argentino un corrispettivo nel
sogno, prima del leopardo e poi di Dante, del racconto “Inferno”,
I, 32:
«Anni
dopo, Dante moriva a Ravenna, ingiustificato e solo come qualsiasi
altro uomo. In un sogno, Dio gli rivelò il segreto scopo della sua
vita e della sua fatica; Dante, meravigliato, seppe finalmente chi
era e cosa era e benedisse le sue amarezze. La tradizione narra che
al risveglio sentì di avere ricevuto e perduto una cosa infinita,
qualcosa che non avrebbe potuto recuperare, e nemmeno intravedere,
perché la macchina del mondo è troppo complessa per la semplicità
degli uomini».
NOTE
BIBLIOGRAFIA
Roberto
Alajmo, Appunti
di viaggio: un matto italiano in Argentina,
in http://www.robertoalajmo.it/
post/1/2012/1310-APPUNTI-DI-VIAGGIO-UN-MATTO-ITALIANO-IN-ARGENTINA/index.asp,
consultato il 5 maggio 2014.
Roland
Barthes, La
camera chiara. Nota sulla fotografia.
1980, ediz. ital. Torino, Einaudi, 1980.
Jorge
Luis Borges, Fervore
di Buenos Aires.
1923, poi 1969, ediz. ital. Milano, Adelphi, 2010.
Jorge
Luis
Borges,
Parabola del palazzo,
in J. L. Borges, L’artefice.
1960, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1999.
Jorge
Luis Borges,
“Inferno”, I, 32,
in J. L. Borges, L’artefice.
1960, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1999.
Giuseppe
Antonio Borgese, Prefazione
a Tempo
di edificare,
Milano, Treves, 1923.
Marco
Ferrari, Dante
Alighieri a Buenos Aires,
in http://portale.lombardinelmondo.org/nazioni/
argurug/articoli/cultcur/barobs,
consultato il 5 maggio 2014.
Le
Corbusier, Vers
une architecture.
1923,
Paris,
Flammarion, 1995.
Roberto
Paoli, La
presenza della cultura italiana nell’opera di Jorge Luis Borges,
Lecce, Milella, 1979.
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