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Architetture liriche da Buenos Aires  

Ettore Janulardo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 15 Febbraio 2015, n. 756
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Area Architettura

«[…] la Divina Commedia è una città che non avremo mai esplorato del tutto; la più logorata e ripetuta terzina può, una sera, rivelarmi chi sono io o che cos’è l’universo», 1 dichiara Borges celebrando così la sua appassionata ammirazione per quello che definisce «il primo libro del mondo», dapprima avvicinato in inglese e letto poi, più volte, in originale.

Sull’asse di un rapporto non univoco tra sensibilità borgesiana e altre aspirazioni culturali, seguiamo tracce urbane tra architetture e storie, liriche e visioni, finzioni e fusioni. Primo libro pubblicato da Borges nel 1923, le poesie di Fervore di Buenos Aires definiscono una meditata immagine sintetica della città. Nulla che rappresenti gli spasimi della modernità e della (ri)costruzione, figurata o propria, tipici di certe esperienze europee del primo dopoguerra. Nel momento in cui Le Corbusier pubblica uno dei manifesti del modernismo come Vers une architecture«On met en œuvre de la pierre, du bois, du ciment; on en fait des maisons, des palais; c’est de la construction. L’ingéniosité travaille. Mais, tout à coup, vous me prenez au cœur, vous me faites du bien, je suis heureux, je dis: c’est beau. Voilà l’architecture. L’art est ici» 2 –; nello stesso anno in cui Giuseppe Antonio Borgese, nella Prefazione a Tempo di edificare, stila, per sé e per la sua generazione, un bilancio di quanto critica e inventività dovrebbero aver realizzato – «Tempo di edificare: non già nel senso che le costruzioni artistiche valgano per la loro massa quantitativa […] voglio dire che è venuto per me, già da tempo, il tempo di edificare, di essere pienamente quale è mio dovere d’essere, scrivendo i libri d’arte e di storia che ho promessi a me stesso, e lasciando ai critici nuovi il compito di giudicare alla loro volta» 3 –, il ventiquattrenne scrittore argentino, in procinto di recarsi nuovamente in Europa con la famiglia, crea una raccolta poetica all’insegna di una sensibilità, e di un’urbanistica, eccentriche. Nel Prologo redatto per l’edizione del 1969, un Borges maturo che cancella «sentimentalismi e vaghezze» – ma che riconosce nel poeta d’un tempo «essenzialmente» la «stessa persona» – conclude ricordando che voleva, allora, «cantare una Buenos Aires di case basse e, a occidente o a sud, di ville con inferriate. A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora cerco i mattini, il centro e la serenità». 4

Non lontane, rispetto al nucleo cittadino, dalle zone rappresentate da Boccioni nella seconda metà del primo decennio del ’900 – si pensi a Officine a Porta Romana del 1908 (fig. 1) o a Paesaggio al tramonto del 1906 (fig. 2) –, le prospettive urbane presenti in Borges hanno altra valenza: le sue liriche alterano programmaticamente la polarità inclusiva e celebrativa presente nel primo futurismo italiano in nome di una ricercata distanza da ogni celebrazione modernista e frequentano gli spazi ove la città si perde o, secondo altre visioni, si riconosce. Nella Prefazione, dalla chiusa vagamente baudelairiana, All’eventuale lettore – successivamente espunta –, Borges ricorda: «Alla lirica decorativamente visiva e brillante lasciataci in eredità […], ho voluto opporne un’altra, meditabonda, fatta di avventure spirituali […]». 5 E, mutando di segno tra sobborgo e foto, pensiamo alle frasi di Barthes ne La camera chiara su quanto ci avviene, sulle nostre avventure: «In questo deprimente deserto, tutt’a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata […], però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura». 6

E “avventure”, nel segno di una dolente negatività, esprimono i versi di Città, del 1922:

«Insegne luminose strattonano la stanchezza.
Volgari schiamazzi
saccheggiano la quiete dell’anima.
Colori impetuosi
scalano le attonite facciate.
Dalle piazze rotte
traboccano copiose le distanze.
Il tramonto abbattuto
che si rannicchia oltre i sobborghi
è beffa d’ombre rovinate.
Io percorro le strade svigorito
dall’insolenza delle luci false
e il tuo ricordo è come brace viva
che non lascio cadere
anche se mi brucia le mani
». 7

Gli itinerari borgesiani definiscono una dualità che, da storica, si fa culturale, spaziale, lirica: la nativa Argentina sta all’Europa come il criollismo alla modernità indistinta, i sobborghi al centro chiassoso e volgare; e, in immagine poetica, la pace del crepuscolo sta all’implacabile nettezza del tramonto. Sorta di manifesto apparso in Spagna nel 1921, i versi di Sobborgo condensano inquietudini e aspettative:

«Il sobborgo è il riflesso del nostro tedio.
I miei passi hanno esitato
sul punto di calcare l’orizzonte
e son rimasto tra le case
quadrettate in isolati
differenti e uguali
come se tutti fossero
monotoni ricordi ripetuti
di un unico isolato.
L’erbetta precaria,
disperatamente speranzosa,
spruzzava le pietre della strada
e ho veduto il tramonto in lontananza
coi suoi colori di carte da gioco
e ho sentito
Buenos Aires.
Questa città che credevo il passato
è il mio avvenire, il mio presente;
gli anni vissuti in Europa sono illusori,
io sono stato sempre (e starò) a Buenos Aires
». 8

Il luogo urbano che chiude la lirica è epitome di un universo, reale e fantastico. 9 Ma, come ogni sintesi pletorica, ha in sé anche elementi che il poeta detesta. Le pagine di prosa di Buenos Aires, ancora del 1921, tracciano percorsi tra stati d’animo e architetture, con un incipit all’insegna della non-conoscibilità: «Né di mattina né di giorno né di notte vediamo davvero la città». 10 Non resta, per un incontro armonico tra uomo e spazio-tempo, che l’imbrunire: «La sera è l’inquietudine della giornata, e perciò si accorda con noi, che pure siamo inquietudine […] ed è a forza di sere che la città penetra in noi». 11 Subito dopo, Borges entra nello specifico architettonico-urbanistico della capitale argentina – di cui cita più avanti case, porte, ringhiere –, evidenziando idiosincrasie e ostilità: «A dispetto dell’umiliazione transitoria che riescono a infliggerci alcuni imponenti edifici, la vista complessiva di Buenos Aires non ha nulla di slanciato. Buenos Aires non è una città erta e ascendente che turba la divina limpidezza con estasi di torri assidue o con una marmaglia caliginosa di ciminiere indaffarate. E’ semmai una copia fedele della pianura che la circonda […] Le linee orizzontali dominano quelle verticali. Le prospettive […] sono troppo semplici per non sembrare inverosimili. Quattro infiniti attraversano ogni crocevia». 12

Le parole di Borges sul predominio dell’orizzontalità nella capitale, solo sporadicamente segnata da “umilianti” edifici sviluppati in altezza, sembrano indirizzarsi in negativo al più grande edificio per uffici di Buenos Aires: quel “Palacio Barolo” (fig. 3) che, realizzato tra il 1919 e il 1923, è temporaneamente la costruzione più alta dell’America meridionale e, fino al 1935, della città. L’imprenditore tessile italiano Luigi Barolo (1869-1922), giunto in Argentina nel 1890, ne affida la realizzazione all’architetto milanese Mario Palanti (1885-1978), consentendo così la creazione di una struttura edilizia in grado di condensare diversi elementi concettuali. Nello stesso anno in cui è pubblicato Fervore di Buenos Aires, viene inaugurato in Avenida de Mayo il “Palacio Barolo”, frutto di un eclettismo architettonico – ammiccante anche a suggestioni esoterico-indiane (fig. 4) – come evidenza di un cosmopolitismo capace di veicolare stilemi e passioni da un continente all’altro.

Nato a Milano da una famiglia di origini cremonesi, Palanti segue un percorso formativo tipico per quegli anni, iscrivendosi nel 1904 all’Accademia di Brera e diplomandosi nel 1909. Giunge in Argentina nello stesso anno: collabora alla costruzione del Padiglione italiano nella mostra sul centenario della Rivoluzione di Maggio (18-25 maggio 1810), continuando a lavorare per qualche tempo nella capitale prima di prender parte, in Trentino, al Primo conflitto mondiale. Tornato a Buenos Aires nel 1919, vi realizza, in circa dieci anni, diversi edifici commerciali, oltre al “Palacio Salvo” di Montevideo, terminato nel 1925 ma di maggiore altezza rispetto al gemello “Palacio Barolo” argentino. Nonostante il cursus tradizionalmente milanese, nel capoluogo lombardo Palanti lascia poche tracce costruttive. 13 Anzi, in un periodo di forti trasformazioni nel tessuto architettonico-urbanistico di Milano – si pensi alla realizzazione, tra il 1919 e il 1922, della “Ca’ Brutta” di Giovanni Muzio, al clima “Novecento” che trascolora dalle raffigurazioni pittoriche alle arti in genere e alla costruzione, nonché all’atmosfera di dibattito e innovazione culturale intorno alle tematiche edificatorie –, Palanti sembra trovare un proprio percorso creativo, all’insegna di un tardo o neo-eclettismo, solo nella capitale argentina.

Nelle pagine in prosa di Buenos Aires, Borges dedica commossa attenzione alle case così «dolorosamente uguali» e alle loro «piccole soglie di marmo»: abitazioni che «sono la traduzione, in calce e mattoni, dell’animo dei loro abitanti» e del loro «Fatalismo». Le osservazioni dello scrittore, che passano dal macro-livello urbanistico della capitale – a sua volta, si diceva, immagine del Paese – al micro-livello dei particolari poveri delle semplici abitazioni predilette, richiamano indirettamente le scelte costruttive di Palanti, che non si limita a curare la strutturazione ingegneristica e la veste eclettica del “Palacio Barolo”, ma si occupa anche degli ascensori (fig. 5), dell’apparato illuminativo, delle maniglie delle porte: in una forma di progettazione unitaria che, del tutto aliena dagli ideologismi dell’architettura d’avanguardia, ne assume una delle impostazioni, ovvero la ricerca dell’opera e della realizzazione integrate.

L’integrazione può persino oltrepassare il progetto urbano per toccare una scala, almeno parzialmente, continentale. I due edifici costruiti da Palanti a Buenos Aires e a Montevideo si concepiscono come “Colonne d’Ercole” sul Río de la Plata: torri-faro che illuminano e segnano l’Estuario, dotate di grandi cupole in grado, con le loro 300.000 candele steariche, di inviare segnali luminosi multicolori. Ma se le architetture di Palanti rivestono un ruolo simbolico di guida per i naviganti, d’invito a seguire corrette rotte di approccio-arrivo e di integrazione nei paesi interessati – edifici portatori, fin dal nome, del patrimonio economico ed esperienziale di italiani migranti –, un altro aspetto merita di esser ricordato. Alla confluenza tra contingenza storica e portato culturale, tra passione e mania, sorta di cementizio corrispettivo dell’ammirazione borgesiana per la Divina Commedia, il “Palacio Barolo” si fa interpretare anche come un monumento a Dante e al suo capolavoro.

Articolato su 22 piani e alto 100 metri, come i cento canti del poema, l’edificio racchiude in sé l’ammirazione per Dante da parte dell’imprenditore Barolo e dell’architetto Palanti, entrambi convinti – dopo gli anni della “Grande guerra” – che l’Europa avrebbe vissuto a breve, nuovamente, una terribile esperienza bellica. Se, come si osserva, questa vicenda «è emblematica del rapporto che lega molti antichi emigrati italiani alla cosiddetta madrepatria», 14 le parole di Roberto Alajmo su Luigi Barolo sono chiare: «quando decise di farsi costruire a Buenos Aires una sede di rappresentanza per la sua azienda tessile, diede all’architetto una committenza precisa: più che un palazzo, voleva un tempio celebrativo che potesse ospitare le ceneri del Sommo Poeta», 15 di cui teme la dispersione a seguito di future operazioni militari contro la città di Ravenna. E in strade, come ricorda Borges, segnate dal prevalere della linea orizzontale e con altezza massima degli edifici limitata a venti metri, l’imprenditore italiano riesce ad ottenere una deroga che consenta l’elevazione di un edificio cinque volte più alto.

La costruzione intende corrispondere al sistema simbolico della Divina Commedia: l’ingresso e i due livelli del sottosuolo segnano l’Inferno (fig. 6), i piani 1-14 costituiscono il Purgatorio, mentre i livelli 15-22 sono il Paradiso (fig. 7), dominato ed evidenziato dal faro, rosa mistica e divina luminosità (fig. 8): e sul «faro c’è la costellazione della Croce del Sud, […] allineata con l’asse di simmetria del Palazzo Barolo nei primi giorni del mese di giugno alle ore 19,45». 16 Come percorsi d’iniziazione, nove volte architettoniche – ognuna con frasi in latino tratte da opere diverse – indicano l’accesso all’edificio. L’imprenditore si attiva anche presso le autorità italiane perché i resti di Dante possano riposare nella nuova patria d’Oltreoceano, dove gli Italiani sono ormai numerosissimi: le «spoglie del poeta fiorentino avrebbero dovuto riposare sotto la volta centrale, su un piedistallo di bronzo nel piano terra, nel cosiddetto Passaggio Barolo. Quel visionario di Palanti preparò anche una statua di bronzo di 1,50 metri di altezza detta “Ascensione”, che rappresentava lo spirito di Dante. La statua poggiava i piedi su […] un condor, a simbolo del viaggio eterno verso il Paradiso. Insomma, Dante sarebbe uscito dal Purgatorio per andare in Paradiso passando dalla Croce del Sud». 17

Quello che i porteños sembrano definire come il «rimorso italiano», esoterica costruzione nostalgica della patria, più che nella borgesiana Parabola del palazzo«Quel giorno l’Imperatore Giallo mostrò il suo palazzo al poeta […] Nel mondo non possono esserci due cose uguali […]» 18 –, sembra trovare nello scrittore argentino un corrispettivo nel sogno, prima del leopardo e poi di Dante, del racconto “Inferno”, I, 32: «Anni dopo, Dante moriva a Ravenna, ingiustificato e solo come qualsiasi altro uomo. In un sogno, Dio gli rivelò il segreto scopo della sua vita e della sua fatica; Dante, meravigliato, seppe finalmente chi era e cosa era e benedisse le sue amarezze. La tradizione narra che al risveglio sentì di avere ricevuto e perduto una cosa infinita, qualcosa che non avrebbe potuto recuperare, e nemmeno intravedere, perché la macchina del mondo è troppo complessa per la semplicità degli uomini». 19







NOTE

1 Cfr. Roberto Paoli, La presenza della cultura italiana nell’opera di Jorge Luis Borges, Lecce, Milella, 1979.

2  Le Corbusier, Vers une architecture. 1923, Paris, Flammarion, 1995, p. 123.

3 Giuseppe Antonio Borgese, Prefazione a Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923, p. V.

4 Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires, 1923, poi 1969, ediz. ital. Milano, Adelphi, 2010, p. 17.

5  Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires, cit., p. 150.

6  Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia. 1980, ediz. ital. Torino: Einaudi, 19, p. 21.Quella sorta di compresenza Vita-Morte sottolineata da Barthes nella fotografia può egualmente riconnettersi alle deviazioni, ai labirinti e ai paradossi borgesiani sull’essere e il non-essere.

7  Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires, cit., p. 129.

8  Ivi, p. 55.

9  Tre anni dopo la pubblicazione della sua silloge poetica, Borges scrive (cfr. Borges Fervore di Buenos Aires, cit., pp. 197-198): «Ormai Buenos Aires, più che una città, è una nazione e bisogna trovare la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla sua grandezza. Questa è la misura della mia speranza, che ci invita tutti a essere dèi e a lavorare alla sua incarnazione».

10  Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires, cit., p. 153.

11  Ibid., p. 154.

12  Ivi.

13  1924-28: “Edicola Palanti” nel Cimitero Monumentale, dal 1981 “Civico Mausoleo Palanti”; 1942: Rampe pedonali e carrabili che permettono l’accesso da Piazza Andrea Doria (ora Piazza Duca d’Aosta) alla galleria di testa della Stazione Centrale.

14  Roberto Alajmo, Appunti di viaggio: un matto italiano in Argentina, in http://www.robertoalajmo.it/ post/1/2012/1310-APPUNTI-DI-VIAGGIO-UN-MATTO-ITALIANO-IN-ARGENTINA/index.asp, consultato il 5 maggio 2014.

15  Ibid.

16  Marco Ferrari, Dante Alighieri a Buenos Aires, in http://portale.lombardinelmondo.org/nazioni/ argurug/articoli/cultcur/barobs, consultato il 5 maggio 2014.Grazie a un restauro, finanziato dall’Italia, il faro viene acceso il 25 di ogni mese: illuminazione legata alla data del “25 de Mayo de 1810”, quando inizia il processo storico che conduce all’Indipendenza argentina.

17 Marco Ferrari, cit.

18  Jorge Luis Borges, Parabola del palazzo, in J. L. Borges, L’artefice, 1960, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1999, pp. 77-79.

19 Jorge Luis Borges, “Inferno”, I, 32, in J. L. Borges, L’artefice, 1960, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1999, pp. 89-91.







BIBLIOGRAFIA

Roberto Alajmo, Appunti di viaggio: un matto italiano in Argentina, in http://www.robertoalajmo.it/ post/1/2012/1310-APPUNTI-DI-VIAGGIO-UN-MATTO-ITALIANO-IN-ARGENTINA/index.asp, consultato il 5 maggio 2014.

Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia. 1980, ediz. ital. Torino, Einaudi, 1980.

Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires. 1923, poi 1969, ediz. ital. Milano, Adelphi, 2010.

Jorge Luis Borges, Parabola del palazzo, in J. L. Borges, L’artefice. 1960, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1999.

Jorge Luis Borges, “Inferno”, I, 32, in J. L. Borges, L’artefice. 1960, ediz. ital. Milano, Adelphi, 1999.

Giuseppe Antonio Borgese, Prefazione a Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923.

Marco Ferrari, Dante Alighieri a Buenos Aires, in http://portale.lombardinelmondo.org/nazioni/ argurug/articoli/cultcur/barobs, consultato il 5 maggio 2014.

Le Corbusier, Vers une architecture. 1923, Paris, Flammarion, 1995.

Roberto Paoli, La presenza della cultura italiana nell’opera di Jorge Luis Borges, Lecce, Milella, 1979.









Fig. 1
UMBERTO BOCCIONI, Officine a Porta Romana, 1908,
olio su tela, cm. 75 x 145,
Gallerie d'Italia Piazza Scala, Intesa Sanpaolo, Milano

Fig. 2
UMBERTO BOCCIONI, Paesaggio al tramonto, 1906,
olio su tela, cm. 29 x 40,5,
Collezione Ingrao, Galleria comunale d'arte, Cagliari

Fig. 3
Arch. MARIA PALANTI, Palacio Barolo, 1919-1923,
Buenos Aires

Fig. 4
Arch. MARIA PALANTI, Palacio Barolo, 1919-1923,
Buenos Aires

Fig. 5
Arch. MARIA PALANTI, Palacio Barolo, 1919-1923,
Buenos Aires, Ascensore

Fig. 6
Arch. MARIA PALANTI, Palacio Barolo, 1919-1923,
Buenos Aires, Scale

Fig. 7
Arch. MARIA PALANTI, Palacio Barolo, 1919-1923,
Buenos Aires, Interno

Fig. 8
Arch. MARIA PALANTI, Palacio Barolo, 1919-1923,
Buenos Aires, Faro

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