«C’è
una terra chiamata Cuccagna, ben nota alla gente pigra. Essa si trova
a tre miglia oltre il Natale, e chi vuole frequentarla deve
prepararsi a grandi cose, mangiare attraverso una montagna di farina
di miglio – deve essere grossa tre miglia – e poi si troverà
subito nella stessa Cuccagna in cui tutte le ricchezze son
conosciute»,
scrive Hans Sachs (1494-1576) nella
farsa del 1530 Schlaraffenland
(«Cuccagna»),
da cui è tratta una versione in prosa pubblicata ad Anversa nel
1546.
Nel Paese
della cuccagna,
(fig. 1) olio
su tavola firmato e datato al 1567, Pieter
Bruegel il Vecchio (1525
circa-1569) sembra ispirarsi al testo tedesco.
Un
chierico, un contadino e un soldato sono distesi sotto l’albero
della cuccagna, circondato da una tavola con vivande. I tre
personaggi sono giovani, poiché in questa terra – sorta di
indefinito spazio dell’immaginario etico-favolistico –,
un’astratta e fissa giovinezza è caratteristica essenziale. Il
contadino volge le spalle dormendo su un fianco, il soldato ha la
propria lancia ai piedi e si è sfilato un guanto, mentre il chierico
appare beatamente trasognato: disposti secondo uno schema compositivo
radiale, bilanciano la composizione diagonale della metà superiore
della scena.
Affabulazione ultramillenaria di
un paradiso terrestre della gola e del vizio, l’immagine della
terra di cuccagna – la cui definizione nella società cristiana
Massimo Montanari situa tra il XII e il XIV secolo
– attraversa le epoche e, dal mito dell’età dell’oro e dai
Fabliaux,
trova nella Bengodi di Boccaccio, priva di qualsiasi connotazione
moralistica, un compiuto paradigma dell’alimentazione italiana.
Con la ripresa di questa topografia del desiderio, nonché di detti e
tradizioni popolari delle Fiandre – dall’eco letteraria in grado
di riverberarsi anche nella tavola bruegeliana (fig.
2) dei Proverbi
fiamminghi (1559)
–, il pittore rappresenta qui, in chiave comico-grottesca, la terra
della ghiottoneria e della pigrizia, da raggiungere, aiutandosi con i
rami di un albero, dopo aver attraversato una montagna di semola,
come raffigurato all’estremità destra del dipinto: ove un uomo si
cala in questo giardino di delizie gastronomiche. E’ un paese
caratterizzato da forme rotonde, strutturato da cibi che si offrono
spontaneamente agli avventori, come recita la farsa di Sachs: «Lì
ci sono case fatte da fili di lino, porte e finestre fatte di
marzapane, mura e pavimenti di pane e pancetta, balconi di salsicce
di maiale. Ogni casa è circondata da un recinto fatto di salsicce
arrostite, dalle fontane sgorga vino dolce, che arriva dritto in
bocca; dagli alberi pendono ciambelle dove dovrebbero esserci le
pigne».
In alto a sinistra nella tavola
bruegeliana un altro soldato, a bocca aperta, è al di sotto di un
rifugio ricoperto di torte, illustrazione del detto proverbiale
«Avere
il tetto coperto di torte»,
a indicare un benessere non lontano dalla stoltezza descritta nella
farsa tedesca: «Chi
combatte da prode con un leberwurst,
sarà eletto cavaliere. E chi fa attenzione nient’altro che al
mangiare, al bere, al dormire, sarà fatto conte. Colui che è
stupido e incompetente, sarà un aristocratico in questa terra, chi
vive in questo modo, andrà lontano nella terra di Cuccagna».
Databile al 1494, anno di
pubblicazione del poema satirico La
Nave dei folli
di Sebastian Brandt,
è l’omonimo olio su tavola di Hieronymus
Bosch, conservato al Louvre (fig.
3).
Con atteggiamento critico è qui rappresentata un’imbarcazione ove
dei personaggi, tra cui dei religiosi, sprecano energie e tempo
dedicandosi ai vizi: e all’albero della nave, che è però una vera
pianta frondosa, sono legati dei polli spennati verso i quali si
arrampica un uomo particolarmente goloso. E
con tratti degni della visionarietà di Bosch, Bruegel infarcisce
la sua scena del Paese
della cuccagna di
cibarie semoventi a disposizione di chi le desideri: un maialino
avanza con un coltello che gli sta affettando il dorso; un’oca si
adagia su un vassoio d’argento; un uovo dotato di zampette è
aperto e parzialmente consumato.
Grottesca raffigurazione di una
perniciosa ghiottoneria, quest’olio su tavola rientra in un filone
moralistico di scene – dipinte o incise – ove si rappresentano
stoltezze e ingenuità di un’umanità confusa e incerta, elementare
e primigenia. In due incisioni databili al 1563 –
la Cucina
magra e
la Cucina
grassa,
tratte da disegni di Bruegel –, Pieter van der Heyden e Hieronymus
(Jérôme) Cock definiscono un dittico sull’alimentazione. Se la
Cucina
magra (fig. 4)
evidenzia
la povertà come disvalore estetico che non sembra intaccare certe
forme di compartecipazione e solidarietà umana – con un coltello
bruegelianamente inserito in una mezza forma di pane –, la Cucina
grassa
(fig. 5) mette
in scena un equivalente in interni del Paese
della cuccagna:
prosciutti e salsicce pendono dall’alto, con l’onnipresente
coltello in verticale nella carne di maiale, mentre paioli e spiedi
arredano un ambiente ove anche i cani sono sovrappeso e aiutano a
scacciare un mendicante che vorrebbe entrare.
Al di là
dell’aspetto comico di queste stampe – variamente riprodotte e
dalla grande diffusione –, la contrapposizione delle scene si
sostanzia di un intento moraleggiante, secondo la traccia resa nota
da Sachs, che pensosamente sovra-struttura la dimensione fallace di
questo territorio del vizio:
«Chi
mostra cultura e onore, viene cacciato da questa terra, e a chi
lavora diligentemente con le proprie forze, è vietato entrare nella
terra di Cuccagna. Chi non vale nulla e non vuole imparare, avrà
gran successo in questo reame, e quando si riconoscerà il più pigro
di tutti, sarà incoronato re della regione. Chi è sprecone,
selvaggio e stupido, crudele e stolto in ogni occasione, sarà fatto
principe».
Con un rovesciamento totale rispetto al malinconico finale del
Fabliau
de Cocagne
– «Vous
comprenez bien que quitter ce pays est une folie. […] Je suis
revenu ici chercher mes amis et les amener là-bas, mais maintenant
je ne sais plus le chemin pour y aller. Alors je vous donne un
conseil: quand vous êtes bien quelques part, ne bougez pas à aucun
prix, car vous vous en repentiriez […]»
– il
messaggio etico si fa esplicito, rivelandosi nel finale del testo
tedesco come chiaro ammonimento che si fa teatro dell’animo e
aspettativa della temperanza: «Questo
fu scritto nei tempi antichi, per far migliorare i giovani che spesso
crescono indolenti e pigri, senza conoscenze, visioni, ricordi, così
che voi capiate la vera terra di Cuccagna, sappiate punire gli
indolenti, impariate il valore del lavoro, perché la pigrizia non
porta a nulla di buono».
Nell’anno di esecuzione del
Paese della cuccagna,
1567, è inviato da Filippo II come Governatore generale d’Olanda
nei Paesi Bassi spagnoli Don
Fernando Álvarez de Toledo y Pimentel (1507-1582), terzo Duca
d’Alba. Autore di
durissime repressioni nei confronti degli insorti contro il potere
imperiale, che non fermeranno il percorso verso l’indipendenza
delle Province Unite, è personaggio tristemente conosciuto come
“Duca di Ferro” o “macellaio”: contraltare di ogni utopico
aspetto festivo-giocoso nel nome del cibo e raffigurazione di un
tragico trionfo della morte. E all’insegna di una esemplare
tragicità si situa la tempera su tela della Parabola
dei ciechi, firmata e
datata al 1568 (fig. 6).
Dopo aver già rappresentato
l’episodio nei Proverbi
fiamminghi del 1559
– con un gruppo di tre uomini in fila indiana, nella parte alta a
destra del dipinto, non esposti a immediato pericolo (fig. 7) –,
Bruegel riprende il passo 15, 14 del Vangelo di Matteo –
«Lasciateli!
Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro
cieco, tutti e due cadranno in un fosso!»
–, isolando del
tutto i sei in fila, abbandonati a se stessi e in procinto di cadere.
Il primo, anzi, è già raffigurato di scorcio nel fossato,
rovesciato sulla schiena e destinato a ricevere il peso del secondo
cieco che sta precipitando su di lui: ma gli altri quattro, che si
tengono per il bastone o per la mano, si ammasseranno sui primi
caduti.
La linea obliqua costituita dai
sei ciechi caratterizza e taglia diagonalmente la composizione
artistica, riempiendo lo spazio dell’opera ma accentuando nel
contempo il loro drammatico isolamento e la loro fragilità, resi
pittoricamente attraverso le successive concatenate fasi della
caduta. E l’espressione persa che li contraddistingue non ha nulla
del comico-grottesco presente in altri personaggi, ma definisce il
mutarsi della scena, sotto il nostro sguardo, da episodio quotidiano
a simbolo di un destino tragico.
Il piano simbolico della visione
sembra accentuato dalla ripetuta presenza di forme triangolari che
definiscono le due metà del dipinto divise dalla diagonale dei
ciechi: i mantelli, soprattutto dei due ultimi personaggi, i tetti
delle abitazioni sulla sinistra e l’intero edificio ecclesiastico –
identificato con la chiesa di Sint-Anna-Pede
nei pressi di Itterbeek, municipalità di Dilbeek nel Brabante
Fiammingo (fig. 8) –,
raddoppiato nella sua “triangolarità” dal campanile, tendono
verso l’alto. Rafforzando il senso di tragico allontanamento dalle
architetture salvifiche della chiesa sullo sfondo, nella metà
inferiore del dipinto prevalgono invece diagonali e triangoli che
puntano verso il basso e verso la negatività del fossato: né il
bastone del quarto cieco né il suo viso rivolto ignaro verso l’alto
possono consentire alcuna salvezza, alcun avvicinamento all’edificio
religioso.
Opera della piena maturità
bruegeliana composta un anno prima della morte, la Parabola
dei ciechi si
allontana dal formicolante brulichio di altre celebri composizioni
del fiammingo per senso della misura e di tragica monumentalità: i
sei ciechi dominano la scena, a loro volta condizionati da ciò che
ignorano e non vedono. Il punto di vista ribassato e le scelte
cromatiche rese con la tempera accentuano una forma di statuarietà
che fa avvertire, a Max Dvorák
e a Edouard Michel, un personale riflesso della conoscenza dell’arte
italiana, evidenziata dalla studiata e misurata resa del brano
paesaggistico sulla destra.
Partendo da
tali considerazioni e da quanto osservabile a proposito della
scomposizione del movimento di caduta dei ciechi, potremmo utilizzare
alcune specifiche considerazioni dell’Alberti nel De
Pictura
– «Così
adunque in ogni pittura si osservi che ciascuno membro faccia il suo
officio, che niuno per minimo articolo che sia, resti ozioso. E sieno
le membra de’ morti sino all’unghie morte. Dei vivi sia ogni
minima parte viva. Dicesi vivere il corpo quando a sua posta abbia
certo movimento: dicesi morte dove i membri non più possono portare
gli offici della vita, cioè movimento e sentimento. Adunque il
pittore, volendo espriemere nelle cose vita, farà ogni sua parte in
moto […]»
– per soffermarci sulla topografia della tragedia in Bruegel.
In un’ottica di lettura
simbolica, la diagonale lungo la quale si muovono i personaggi può
interpretarsi come una sorta di pomerium
che separa la civitas
dei della chiesa e
delle abitazioni vicine dal luogo ctonio verso il quale “precipitano”
i ciechi, impossibilitati a cogliere la natura divergente del proprio
errare. Questo senso del passaggio fra un qui
e un altrove
– con la rappresentazione di pulsioni e tensioni, come nella Caduta
di Icaro o nella Torre
di Babele,
controbilanciate dalla quotidiana normalità di contadini e pastori
che condividono la scena – ben si addice all’umanesimo
bruegeliano, segnato non da aristocratiche unicità ma
dall’evidenziare la comune matrice umana.
La valenza metafisica della
Parabola
di Bruegel potrebbe ulteriormente evidenziarsi attraverso la lettura
del passo 8, 22-26 del Vangelo di Marco, ove individuiamo alcuni
degli elementi raffigurati dall’artista – il cieco, il villaggio,
gli uomini come alberi in movimento, il restar fuori dall’abitato –
e leggiamo: «Giunsero
a Bestsaida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo.
Allora prese il cieco per mano e lo condusse fuori del villaggio e,
dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli
chiese: “Vedi qualcosa?”. Quegli, alzando gli occhi, disse: “Vedo
gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano”. Allora
gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e
fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa. E lo rimandò a casa
dicendo: “Non entrare nemmeno nel villaggio”».
Variante pittorica della
cartografia territoriale dell’amico Abraham Ortelius (1527-1598),
quella dell’artista lo è, in senso lato, della follia: in grado di
riassumere comico e tragico, di cogliere l’assurdità del contrasto
fra il ricorrere, apparentemente identico, delle stagioni e le
accelerazioni dei tempi, determinate da guerre e tragedie; follia
come credulità degli ignari e degli stolti e come vanagloria di chi
si considera istruito. Se in relazione alla Parabola
bruegeliana sono proponibili i citati passi 8, 22-26 di Marco e 15,
14 di Matteo, utile è leggere quest’ultimo anche in chiave di
possibile connessione con aspetti della scena pittorica del Paese
della cuccagna: «“Non
quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che
esce dalla bocca rende impuro l’uomo!”
[…] Pietro allora gli disse: “Spiegaci
questa parabola”. Ed
egli rispose: “Anche voi
siete ancora senza intelletto? Non capite che tutto ciò che entra
nella bocca, passa nel ventre e va a finire nella fogna? Invece ciò
che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo.
Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli
adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le
bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo, ma il
mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo”».
E il Paese
della cuccagna è
dunque esempio di intreccio tra “alto” e “basso”,
contraddistinto da specifiche questioni legate alla sua
raggiungibilità o ritrovabilità, sullo sfondo, come osserva Martine
Boiteux, di un ineludibile intreccio tra cibo e morte: «Il
viaggio nel paese di Cuccagna è dunque una variante del viaggio
nell’aldilà; la differenza viene fondata sull’inversione della
questione del ritorno. Perché, ritornare dall’aldilà nel mondo
quotidiano è aleatorio e sottomesso a certe condizioni, invece da
questo paese che “non si trova” si ritorna ma si dimentica la
strada, e non si può più tornare».
Che si sia
dunque di fronte a un “luogo” fatto di alimenti e immobilità o a
un paesaggio campestre all’insegna di una metafisica parabola, non
resta che tentare di riconoscere, come scrive Roberto Esposito, «il
significato profondo della vita aldilà della linea del nulla che,
prima o poi, è destinata ad avvolgerci tutti».
NOTE
BIBLIOGRAFIA
Pietro Allegretti, Brueghel,
Milano, Skira, 2003. Piero
Bianconi, L’opera completa di Bruegel, Milano, Rizzoli, 1967. Marco Bussagli, Bruegel, Dossier Firenze, Giunti, 2008. Pierre Francastel, Bruegel,
Paris, Hazan, 1998. Rainer Hagen - Rose-Marie Hagen, Bruegel, Colonia, Taschen, ediz. ital. 2002. Massimo
Montanari, La fame e l’abbondanza, Roma-Bari, Laterza, 1997. Gloria Vallese, Vizi, virtù e follia
nell’opera grafica di Bruegel il Vecchio, Milano, Mazzotta, 2004.
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