Loderò le tue vie piane,
grandi come fiumane,
che conducono
all’infinito chi va solo col suo pensiero ardente,
e quel lor silenzio ove
stanno in ascolto tutte le porte.
D’Annunzio, Le città del silenzio,
da Elettra, Laudi [1]
Dedicata
a centri piccoli o remoti, la silloge dannunziana sulle città del silenzio è il portato di
una tradizione che ha celebrato, dall’antichità, la raccolta quiete del
piccolo locus conclusus salvato
dalla storia. Pochi anni dopo la pubblicazione di Elettra,
il Futurismo rovescia radicalmente questo stilema creando la visione
pittorica e letteraria del grande spazio cittadino: dinamica e
affollata, la città diviene allora l’emblema di una mitologia
dell’avvenire suscitatrice di una prospettiva potenzialmente
rivoluzionaria, in chiave estetica e sociale.
In una sorta di fusione tra la percezione di quiete dei piccoli abitati
e il gigantismo metropolitano, nelle rappresentazioni urbane di Gian
Paolo Rabito silenzi punteggiano i grandi spazi di Roma, resa ancora
più ampia e sospesa dalla scelta di privarla di ogni figura animata;
svuotata inoltre di ogni mezzo di trasporto, la sua immagine si libera
di qualsiasi lamentazione su ingorghi della circolazione, mettendo in
mostra arterie stradali vuote, sotto cieli nebulosi. «Scenografie senza
presenza umana» (fig. 1), le definisce Rabito [2],
studiate, selezionate e oggetto di un processo di lavorazione a più
livelli: sopralluogo-reperimento dell’area urbana da raffigurare;
costruzione di un’inquadratura fotografica; sintetici schizzi ideativi
(fig. 2); rielaborazione informatica dell’immagine, dalla quale sono
«implacabilmente» espunti i soggetti animati; definizione di moduli – ponti, barconi, argini,
arcate – che strutturano le scene insieme o separatamente;
realizzazione dell’opera pittorica.
Segni dell’assenza,
elementi
costruiti e tracciati viari alludono a qualcuno/qualcosa di non
visibile, come se un universo pittorico fatto di rifrazioni d’acqua e
nuvole fosse contemplato da un artista memore delle nordiche vedute
cittadine del Bellotto, delle sospensioni post-industriali e delle
inquadrature neo-pop ma essenziali del Wenders fotografo di “Urban
Solitude”. In visioni panoramiche che allineano ordinatamente, e senza
distorsione grandangolare, lampioni e alberi come unici personaggi, la
prospettiva – si pensi al Focillon della Vie des formes – apre lo spazio
della scena creando un falso infinito.
Negli oli su tavola, liquide rifrazioni sul tracciato fluviale,
potenziale limes
nella forma urbana, s’insinuano sotto ponti di pietra o in ferro (fig.
3): «Roma ha un rapporto specifico con il suo fiume: viene nascosto a
un livello sottostante e quindi è interessante vedere come sono vissuti
i ponti. In particolare, ho voluto raccontare il Ponte di ferro».
Tributaria di suggestioni da architettura/archeologia industriale,
l’immagine del ponte si riconnette a una molteplicità di suggestioni,
riflessioni e realizzazioni.
E si colgono alcuni aspetti del confronto con un mito urbano:
nell’allusa e dipinta forma urbis
leggiamo il ricordo dell’ampio dispiegarsi di strutture complesse,
evidenziate nella storia plurimillenaria di Roma dalle acque, dalle
mura, dai ponti (figg. 4, 5). Più che con la metafisica dechirichiana e
«la tragedia della serenità» [3]
altrove ricordata [4],
gli scenari cittadini rappresentati da Rabito appaiono allora in
connessione con l’esperienza dei Valori Plastici e della Nuova
oggettività (fig. 6), aprendosi talvolta a suggestioni neo-pop e ad
aspirazioni iperrealiste.
Nato e formatosi in quella «città nella città» che è l’EUR, dove
individua una «visibilità aperta che crea rilassamento» (fig. 7) –
all’insegna di una monumentalità temperata dal chiarore mediterraneo e
dalla definizione di scenari come architetture dell’inconscio –, Rabito
pare allora compiere un’operazione di metamorfosi concettual-spaziale
con la quale libera aree affollate e centrali della capitale attraverso
visioni che le assimilano ai viali e agli spiazzi di quella nuova Roma
chiamata a riconnettersi con altre acque, con il Mediterraneo.
NOTE
[1] Gabriele
D’Annunzio, Le città del silenzio,
1903, da Elettra, Laudi del cielo del mare della terra e
degli eroi, ediz. elettronica http://www.e-text.it.
[2] Le dichiarazioni
dell’artista sono desunte da
alcune conversazioni insieme, segnatamente nell’ottobre del 2015 e nel
febbraio del 2016.
[3] Giorgio de
Chirico, Sull’arte metafisica,
in “Valori Plastici”, I, 4-5, aprile-maggio 1919.
[4] Ettore Janulardo, Immagini di giardini e scenari urbani del
Novecento, in “BTA - Bollettino Telematico dell’Arte”, 5 Gennaio
2015, n. 748.
BIBLIOGRAFIA
CALO’ 2011
Giorgia Calò, Città silente,
in Gian Paolo Rabito,
Galleria Il Sole, Roma, 2011.
CANOVA 2007
Lorenzo Canova, Il senso quotidiano
dello sguardo, Galleria Il Sole, Roma, 2007.
COLONNELLI 2007
Lauretta Colonnelli, Sogni urbani,
Galleria Il Sole, Roma, 2007.
D’ANNUNZIO 1903
Gabriele D’Annunzio, Le città del
silenzio, Milano, 1903, ediz. elettronica http://www.e-text.it.
DE CHIRICO 1919
Giorgio de Chirico, Sull’arte
metafisica, Roma, 1919.
FOCILLON 1934
Henri Focillon, Vie des formes,
Paris, 1934.
JANULARDO 2015
Ettore Janulardo, Immagini di
giardini e scenari urbani del Novecento, Roma, 2015.
MARTUSCIELLO 2009
Barbara Martusciello, La pittura,
l’immagine, Roma, Fuori e Dentro, in Roma Fuori Dentro, Galleria Il
Sole, Roma, 2009.
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Fig. 1 Gian Paolo Rabito,
Vista 01, 2010,
olio su tavola,
60x120 cm.
Fig. 2 Gian Paolo Rabito, Schizzo, 2010,
matita su carta,
21x29,7 cm.
Fig. 3 Gian Paolo Rabito, Schizzo, 2010, matita su carta, 21x29,7 cm.
Fig. 4 Gian Paolo Rabito,
Ponte Margherita, 2009, olio su tavola, 40x80 cm.
Fig. 5 Gian Paolo Rabito, Fiume 10, 2010, olio su tavola, 30x87 cm.
Fig. 6 Gian Paolo Rabito, Gazometro, 2008, olio su tavola, 60x130 cm.
Fig. 7 Gian Paolo Rabito, EUR, 2007, olio su tavola,
40x80 cm.
Foto 1-7 cortesia di Gian Paolo Rabito.
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