L’atto di allogazione degli affreschi
della Cappella di San Catervo nella omonima Concattedrale di Tolentino,
dedicata al nobile romano Flavius Iulius Catervus, vissuto in un periodo non
meglio precisato tra il I e il IV sec. d.C., convertitosi al Cristianesimo e
ritenuto il primo evangelizzatore del centro situato nell’odierna provincia di
Macerata, datato 16 agosto 1502 e scoperto da Francesca Coltrinari, assegnava al pittore
tolentinate Marchisiano di Giorgio, originario della Schiavonia, regione della
Croazia orientale, la realizzazione della decorazione pittorica del piccolo
sacello situato a lato dell’abside della chiesa.
Il programma pittorico esposto nel contratto
indicava i seguenti soggetti:
- sull’arcone d’ingresso alla cappella, le
figure dei dodici apostoli e dell’Eterno, verosimilmente collocati a mezzobusto
entro oculi (affreschi distrutti in occasione del rifacimento ottocentesco
della chiesa, quando la cappella fu accorpata a un vasto ambiente cupolato a
pianta ottagonale);
- sulla parete della lunetta sinistra, per
la quale inizialmente non era stato stabilito alcun soggetto, rimandandone la
designazione a Giovanni Battista Rutiloni, dal 1490 commendatario dell’abbazia benedettina
annessa alla chiesa e agli agenti della Confraternita di San Catervo, veniva realizzata
l’Adorazione dei Magi: l’affresco è stato mutilato dall’apertura di una
finestra, che ha eliminato alcuni paggi e uno dei cavalli;
- sulla lunetta destra, la scena della Crocifissione;
- sulla lunetta centrale, la Madonna con
il Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano;
- sulla tribuna della cappella, i quattro
Evangelisti.
Le tre scene collocate nelle rispettive
lunette sono incorniciate da eleganti cortine dipinte che corrono lungo il
profilo della parete.
Secondo l’ipotesi di Ugo Soragni l’affresco della Madonna
con il Bambino tra i Santi Catervo e
Sebastiano (Fig. 1) sarebbe da ascrivere ad un intervento congiunto di
Giorgione e di Giulio Campagnola, che l’avrebbero dipinto in occasione di una
sosta in città, sulla via dell’andata o del ritorno, durante uno dei loro
possibili soggiorni a Roma, e precisamente immediatamente dopo la grave
epidemia di peste che colpì Tolentino nel 1497, poiché la presenza di San
Sebastiano (Fig. 2), nella quale lo studioso ravvisa proprio un autoritratto
dello stesso Giorgione, oltre ad essere uno dei soggetti preferiti di Zorzi,
ben si concilierebbe con l’idea di evocare il ricordo della fine del contagio,
mentre l’impianto compositivo generale del brano anticiperebbe, nella
disposizione triangolare delle figure, quello della celebre Pala di
Castelfranco (1502-1503); la figura di San Catervo (Fig. 3) sarebbe invece
l’effigie di Giulio Campagnola, anche in ragione del fatto che le prime due
lettere del suo patronimico, CA, sono le stesse del nome del santo.
Sulla base di queste osservazioni, Soragni
anticipa tale scena agli anni 1497-1498, dunque in disaccordo con l’ipotesi della
Coltrinari, che facendo riferimento alla data del contratto di allogazione,
colloca l’intero ciclo di affreschi tra il settembre 1502 e il 1503.
È davvero possibile che gli autori di
questo brano siano stati i due artisti e sodali veneti e che l’abbiano
realizzato qualche anno prima del documento ufficiale?
Per chiarire questo dilemma è utile
innanzitutto constatare la spiccata e sorprendente somiglianza tra le figure
dei due Santi tolentinati e quella di due giovani presenti nella scena della Disputa
di San Tommaso d’Aquino (1492-1493) affrescata da Filippino Lippi
nella Cappella Carafa presso la chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma, che
secondo la tesi di Enrico Guidoni, sarebbero proprio i due
ritratti di Giorgione e di Giulio Campagnola e quindi la testimonianza di un
loro eventuale soggiorno capitolino intrapreso in occasione
dell’elezione di Alessandro VI Borgia (11 agosto 1492) e più generalmente
interpretabile nel contesto di un comune percorso di formazione artistica
itinerante lungo la Penisola, dal quale non sarebbe stata esclusa Roma
naturalmente, visitata più volte: durante una di queste sarebbe occorsa la
sosta a Tolentino.
Il confronto formale col brano capitolino,
senza dubbio convincente, varrebbe a segnare un punto importante a sostegno
dell’ipotesi di Soragni, che tuttavia pecca, a differenza della tesi della
Coltrinari, della mancanza di prove documentarie ove siano citati i nomi di
Giorgione e del suo amico di Padova nell’ambito di San Catervo.
Il problema dell’assenza di riferimenti diretti
ai due artisti, all’interno del contratto, è stato di fatto aggirato da Soragni,
come abbiamo anticipato, con la proposta di collocare l’affresco della Madonna
col Bambino tra i Santi Catervo e Sebastiano pochi anni prima della
realizzazione del ciclo pittorico, precisamente entro il biennio 1497-1498; l’idea
per quanto accattivante, contrasta però anche con l’evidenza che nell’atto
notarile del 16 agosto 1502 tale scena è esplicitamente menzionata tra quelle ancora
da realizzare, parimenti alle altre, e anche in termini piuttosto
circostanziati, poiché vi si riferisce l’impegno di Marchisiano a dipingere
Santa Maria con il Figlio, con due figure che si abbracciano vicendevolmente -
personaggi questi ultimi che tuttavia non sono mai stati affrescati - e
naturalmente, San Catervo e San Sebastiano, per cui se questo brano
fosse stato già realizzato circa quattro o cinque anni prima, ovviamente non
sarebbe stato qualificato come affresco ancora da compiere nel documento del
1502 e dunque in ragione di ciò dobbiamo ritenere che esso sia stato dipinto dopo
il 16 agosto di quell’anno.
Chiarito ciò bisogna però rilevare d’altro
canto che, sebbene nel contratto venga espresso solo il nome di Marchisiano in
qualità di pittore incaricato dell’impresa, è molto probabile che alla
realizzazione della stessa abbia concorso almeno un altro artista,
verosimilmente individuabile in quel Francesco da Tolentino che già Berenson
aveva designato come l’autore del ciclo, ma soprattutto non
sarebbe neppur da escludere, secondo quanto riporta il puntuale studio della Coltrinari,
la presenza di una terza personalità, che però difficilmente,
per alcuni motivi di cui in seguito, potrebbe essere identificata con quella di
Giorgione coadiuvato dal giovane Campagnola.
In riferimento all’autore della celebre Tempesta,
se pare già pressoché impossibile che egli abbia potuto dipingere la
lunetta con i Santi Catervo e Sebastiano qualche anno prima (1497-1498) della
committenza ufficiale del ciclo, sembra altrettanto inverosimile l’intervento
di Zorzi da Castelfranco presso il cantiere tolentinate dopo la redazione del
contratto di allogazione, perché l’unica, o quantomeno la principale
spiegazione logica all’assenza del suo nome in tale documento, ossia il fatto
che egli fosse in quel preciso momento una personalità artistica “minore”,
addirittura quasi sconosciuta, tale dunque da poter essere relegata nella
cerchia degli anonimi aiutanti di Marchisiano di Giorgio e che dunque non vi
sarebbe stata alcuna necessità di nominarla nell’atto notarile ufficiale,
contrasta insuperabilmente con la realtà dei fatti, poiché Giorgione, sebbene si
trovasse all’epoca ancora agli albori della sua carriera, che però fu come noto,
molto breve ma decisamente intensa, troncata brutalmente dalla peste che lo
uccise nel 1510, aveva già acquisito una solida notorietà, se solo si consideri
che all’epoca degli affreschi di Tolentino aveva già realizzato alcune opere celebri,
come le tavole raffiguranti Mosè bambino alla prova dei carboni
ardenti e il Giudizio di Salomone (1500-1501 circa; Firenze, Uffizi)
e soprattutto preso parte all’impresa pubblica del duomo di Montagnana (1501),
per cui l’omissione del suo nome nel contratto del 1502 sarebbe stata del tutto
immotivata.
Analoga a quella di Giorgione, specialmente
in riferimento al contesto della notorietà pubblica, era la condizione di Giulio
Campagnola, che pur meno famoso del suo sodale, verso il principio del secolo
aveva comunque iniziato la decorazione pittorica delle pareti della Scuola del
Carmine di Padova, importante Congregazione ecclesiastica della città
antenorea, e dunque anche nel suo caso l’assenza del suo nome nel contratto del
1502 non sarebbe giustificabile sulla base del fatto che egli fosse solo un semplice
e anonimo garzone di bottega.
Né d’altra parte la giusta osservazione di
Zeri, secondo cui il passaggio
in quegli anni del “ciclone Borgia” nei territori dell’Italia centrale, che
aveva non solo determinato la soppressione delle piccole signorie, ma anche
causato come logica conseguenza la scomparsa di una cultura figurativa
autenticamente locale, per cui le opere realizzate dopo quei tragici eventi
erano per lo più di importazione, oppure venivano compiute da pittori di
passaggio, provenienti da Venezia (Lorenzo Lotto, Andrea Solario), dalla
Toscana (Signorelli) o dall’Umbria (Eusebio da San Giorgio, Bernardino di
Mariotto), potrebbe avvalorare l’idea della presenza di Giorgione e di
Campagnola sulle impalcature di San Catervo, perché precisando che comunque Zeri
non citava affatto i loro nomi nel contesto del ciclo tolentinate, osta alla
verosimiglianza di un loro intervento nel centro marchigiano l’analisi
stilistica della scena della Madonna con il Bambino tra i Santi Catervo e
Sebastiano: le figure, informate a un nitido grafismo che governa compatte
campiture di colore, parlano una lingua che è molto più quella tosco-umbra del
Perugino che non quella giorgionesca dei primissimi anni del secolo, quando il
maestro di Castelfranco adottava con decisione quel tonalismo destinato a
renderlo celebre, di cui le ombre morbide e fuse sui volti della Madonna della
celebre Pala per Tuzio Costanzo (1502-1503) e della Giuditta di San
Pietroburgo (1502) sono alcune delle primizie più tangibili, mentre Giulio di
pari passo lo seguiva, affascinato da quella novità espressiva, traducendola poi
nella particolare tecnica del punteggiato che “colora” il paesaggio dell’incisione
raffigurante San Giovanni Battista, collocabile agli inizi della sua
svolta giorgionesca, per cui non si spiegherebbe perché i due abbiano poi nei
dipinti di San Catervo adottato uno stile figurativo che non sentivano come
proprio e addirittura percepivano come superato in quel preciso momento storico
della loro quasi simbiotica carriera.
Inoltre, se qualche sillaba di
giorgionismo emerge dal particolare modo di disegnare le chiome degli alberi,
specie di quello alle spalle del San Sebastiano, che ricorda da vicino, sia
nella forma che nella tecnica di tracciare le foglie, a picchiettature di
pennello, quello posto sulla parte destra della Pala di Castelfranco
nonché la flora che popola le incisioni del Campagnola, il particolare non è
sufficiente a indirizzare la paternità dell’affresco verso i due artisti veneti
perché negli stessi anni tale stile paesaggistico era comune a tanti altri
autori come lo stesso Perugino, Lorenzo di Credi, Pinturicchio e i loro emuli
più o meno abili.
L’ipotesi di un intervento tolentinate di
Giorgione e Giulio Campagnola pare dunque destinata a soccombere, non solo per
la lacuna di prove documentarie e per le ragioni stilistiche poc’anzi discusse,
ma anche per la particolare importanza locale che ammantava la figura
dell’artista ufficialmente riconosciuto come l’autore degli affreschi, Marchisiano
di Giorgio.
Questi, colpevole dell’omicidio di una
donna perpetrato a Tolentino nel
dicembre del 1498, in seguito al delitto fuggiva dalla città e veniva
condannato a morte in contumacia e bandito dal territorio comunale, ma il 18
gennaio del 1500, il Consiglio generale accoglieva favorevolmente una sua
supplica affinché egli potesse tornare a circolare liberamente in città, poiché
la pena capitale, come si evince da un’altra implorazione del 1507, era stata
commutata in multa: nel luglio dello stesso anno inoltre, un breve di Giulio II
giungeva addirittura a giustificare il crimine compiuto da Marchisiano
spiegando come l’omicidio di nove anni prima fosse scaturito dalla reazione
esasperata dell’artista alle pressanti provocazioni della vittima, che voleva
indurre la moglie del pittore a commettere adulterio. Il fatto che un
personaggio come Marchisiano godesse delle benevole attenzioni del papa, pur
essendo di modesta estrazione sociale, in quanto appartenente alla minoranza di
etnia slava, al tempo confinata ai margini della società tolentinate, evidenzia
chiaramente la sua posizione di primo piano all’interno della comunità
cittadina e dunque la massima stima e considerazione che avevano di lui i
personaggi più autorevoli del tempo, tra i quali vi era senza alcun dubbio
Giovanni Battista Rutiloni e dunque indica, come osserva la Coltrinari, la
possibilità che l’impegno della Cappella di San Catervo ricoprisse un ruolo di
straordinaria importanza nella carriera di Marchisiano poiché questa impresa
sarebbe stata l’occasione del suo riscatto definitivo agli occhi della
cittadinanza dopo il crimine commesso: pertanto la scena più importante e
rappresentativa del ciclo, collocata sulla parete principale del sacello, non
poteva non essere affidata all’artista originario della Schiavonia.
Che l’autore degli affreschi di San
Catervo sia dunque Marchisiano di Giorgio, verosimilmente coadiuvato da
Francesco da Tolentino è quindi oggi l’ipotesi più solida e concreta, ma
l’esclusione di Giorgione e di Giulio Campagnola dal novero degli autori, non
significa necessariamente che le figure dei Santi Sebastiano e Catervo non
possano essere i loro ritratti, perché vi sono alcuni dati interessanti che aprono
spiragli in questo senso e che porterebbero dunque a qualificare la
supposizione di Soragni come in parte valida: difficilmente convalidabile quando rivendica ai due artisti veneti l’esecuzione
materiale della scena, più attendibile quando riconosce nelle figure dei Santi
Catervo e Sebastiano i loro ritratti, anche in ragione del fatto che nella
ricchissima storia dell’arte italiana rinascimentale non erano rari i casi in
cui certi artisti omaggiavano alcuni loro colleghi particolarmente stimati
dipingendone i ritratti all’interno delle loro opere.
In questo senso, è infatti innegabile
l’accentuata somiglianza fisionomica dei due santi marchigiani con i ritratti
coevi nei quali è verosimile riconoscere Giorgione e Giulio Campagnola.
Il San Sebastiano di Tolentino, che è piuttosto
singolarmente raffigurato, anziché nudo col solo perizoma bianco, similmente
alla figura di Cristo, e il corpo sanguinante e martoriato di frecce, secondo
la sua tradizionale e più diffusa iconografia, riccamente abbigliato, con una
raffinatissima casacca di broccato, calzebraghe verdoni e mantello di velluto
blu imbottito d’ermellino, se da un lato
palesa una certa somiglianza con l’elegante figura di sapor cortese del San
Venanzio dipinta da Carlo Crivelli nel Polittico realizzato per la chiesa di S.
Domenico nella vicinissima Camerino (fig. 4; 1482), oggi nella Pinacoteca di
Brera a Milano, che si candida perciò come un possibile modello di riferimento
per Marchisiano, contestualmente esprime una certa affinità estetica col già
menzionato presunto ritratto di Giorgione, accoppiato a quello altrettanto ipotizzato
di Giulio Campagnola affrescato da Filippino Lippi negli anni 1492-1493 nella
scena della Disputa di San Tommaso d’Aquino nella Cappella Carafa
a Roma (Fig. 5), anch’esso caratterizzato dalla medesima profusione d’eleganza,
soprattutto per la pregiata mantellina d’ermellino che il personaggio regge sul
braccio sinistro, e dal quale si discosta solo per la tonalità dei lunghi
capelli, che nel ritratto di Tolentino sono di uno squillante biondo oro,
mentre in quello romano, più castani.
Ma degno di particolare attenzione è il
pugnale nero legato col cordoncino della casacca al fianco sinistro di San
Sebastiano, il quale è praticamente identico a quello allacciato alla cinta del
personaggio che è molto probabilmente un autoritratto dello stesso Giorgione,
nell’enigmatico Omaggio a un poeta (Fig. 6; 1505 circa, Londra, National
Gallery), rivendicato da gran parte della critica a Zorzi da Castelfranco,
quasi a voler significare un preciso elemento distintivo legato al suo
personaggio.
Quanto a Giulio Campagnola, le attinenze
con altri ritratti che presumibilmente raffigurano l’artista padovano, sembrano
essere addirittura più stringenti.
È davvero impressionante infatti la
somiglianza tra il San Catervo e il suo probabile ritratto nell’affresco
lippesco della Cappella Carafa, specialmente per l’identica capigliatura bionda
a lunghi boccoli dei due personaggi, che ritorna sorprendentemente nella figura
del re magio giovane che reca nella mano destra il calice contenente la mirra,
all’interno della scena dell’Adorazione dei Magi (Fig. 7), affrescata
nella lunetta adiacente a quella della Madonna col Bambino tra i Santi
Catervo e Sebastiano, caratterizzata da un linguaggio decisamente
pinturicchiesco, specie in riferimento al paesaggio e alla capanna, che sembrano
ripresi dal dipinto con la Natività nella Cappella Della Rovere in Santa
Maria del Popolo a Roma (1490).
Inoltre, il re magio giovane e il
decisamente affine San Catervo, se da un punto di vista compositivo e formale esprimono,
in virtù del comune particolare della mano appoggiata sul fianco, possibili
riferimenti al Perugino, poiché riscontriamo tale dettaglio nella pala
giovanile del Vannucci con l’Adorazione dei Magi per la chiesa di Santa
Maria dei Servi di Perugia (Fig. 8; 1476 circa, Perugia, Galleria
Nazionale dell’Umbria), dove anche la posa elegante della mano destra del re
magio che regge il calice, è praticamente identica a quella della figura di
Tolentino, e nel polittico dipinto insieme ad altri collaboratori per San
Pietro a Perugia (1496-1500), e ancora al Pinturicchio, che ispirato
probabilmente dall’esemplare del 1476 del suo conterraneo umbro, lo replica
nella figura di uno dei re magi dell’Epifania affrescata nella Sala dei
Misteri e della Fede dell’Appartamento Borgia in Vaticano (Fig. 9; 1492-1494),
dal punto di vista fisionomico richiamano anche i caratteri del biondo San
Giovannino dipinto nella tavola dei Musei Civici di Padova, raffigurante la Madonna
con il Bambino e San Giovannino (Fig. 10; 1498-1500 circa) che Enrico
Guidoni ha ritenuto essere proprio un ritratto di Giulio Campagnola in un’opera
realizzata in collaborazione con Giorgione, e del giovanissimo
fanciullo biondo effigiato in compagnia di un altro adolescente, quest’ultimo
riconosciuto ancora da Guidoni naturalmente in Giorgione, nell’olio su tela col
Commiato degli ambasciatori inglesi, dal ciclo delle Storie di
Sant’Orsola di Vittore Carpaccio (1497-1498; Venezia, Gallerie
dell’Accademia).
L’ipotesi di un Giulio Campagnola nelle
vesti del giovane magio tolentinate, acquista un valore molto significativo se
posto in relazione con un’altra importante testimonianza figurativa coeva,
nella quale Guidoni ha nuovamente individuato due ritratti dei giovani
Giorgione e Giulio Campagnola, l’Adorazione dei Magi di Filippino Lippi
del 1496, conservata agli Uffizi (Fig. 11).
In questa tempera su tavola, la figura del
re magio più giovane, vestito di rosso, riconosciuto pressoché pacificamente
dalla critica come un ritratto di Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, detto
il Popolano, cugino del Magnifico, che afferra con la mano destra, insieme ad
un personaggio che lo affianca leggermente arretrato, lo stelo di un calice o
di una preziosa pisside, contenente la mirra, è infatti assistito da un
giovanissimo aiutante che, posto alle sue spalle gli toglie con cura la corona,
per consentirgli di inginocchiarsi davanti alla Sacra Famiglia: tale fanciullo
è stato individuato da Guidoni come un ritratto di Giorgione, sulla base della
somiglianza con alcune sue rappresentazioni apprezzabili nelle testimonianze
pittoriche degli stessi anni sopra citate, mentre l’altro giovinetto, biondo,
che segue con interesse la scena, è stato ovviamente identificato con Giulio
Campagnola (Fig. 12).
Possibile dunque che il giovane magio di
Tolentino, così come il San Catervo, esemplati, dal punto di vista della
composizione generale su modelli riscontrabili nei repertori umbri e romani di
Perugino e Pinturicchio, e ambedue sfoggianti la medesima bionda capigliatura
alla Campagnola, possano essere un ritratto proprio di quest’ultimo, anche in virtù di un sotterraneo ed ermetico
legame concettuale con la tavola di Filippino Lippi dipinta pochi anni prima e
con l’affresco Carafa del medesimo artista fiorentino?
A questo proposito sarà utile e
chiarificatore prendere in considerazione le rispettive committenze delle due
opere del Lippi.
La più antica, l’affresco romano
raffigurante la Disputa di San Tommaso d’Aquino, fu commissionata dal
cardinale Oliviero Carafa e realizzata negli anni 1492-1493; ricordiamo
brevemente che il cardinal Carafa fu in stretti rapporti con il cardinale
Raffaele Riario, del quale Giulio Campagnola è ricordato come “familiare” a partire dal 1495,
mentre a sua volta il Riario fu protettore dell’Ordine degli Agostiniani, che
annoverava tra i suoi esponenti più eminenti e colti, quell’Egidio da Viterbo
che una lettera scoperta da Stefano Colonna, datata 29 agosto 1517 e
indirizzata al confratello Gabriele Della Volta ci permette di qualificare come
stretto amico di Giulio Campagnola e di suo padre Girolamo: si tratta, con ogni
evidenza, di intrecci che rendono plausibile l’identificazione del fanciullo
biondo di S. Maria sopra Minerva col giovane Campagnola. Inoltre, i sofisticati
geroglifici raffigurati sui fregi che incorniciano le pareti affrescate della
Cappella Carafa, abilmente decrittati da Maurizio Calvesi, rivelano
inequivocabilmente il gusto del cardinal Oliviero per quell’ermetismo
concettuale che informa gran parte delle opere di Giulio Campagnola e Giorgione,
per cui ciò potrebbe senza dubbio implicare una speciale ammirazione del Carafa
per la formazione intellettuale ed artistica dei due sodali veneti e quindi
naturalmente la decisione di volerli vedere raffigurati nella dotta scena della
Disputa dell’Aquinate.
Veniamo ora all’Adorazione dei Magi che
Filippino Lippi dipinse nel 1496 (l’iscrizione posta sul retro della tavola
riporta la data del 29 marzo).
Committenti furono i frati Agostiniani
della chiesa di San Donato a Scopeto, a Firenze. Ora, se consideriamo che Egidio
da Viterbo era presente proprio in quello stesso anno a Firenze – dove tra
l’altro conobbe Marsilio Ficino, rafforzando così la propria ammirazione per il
neoplatonismo - il contesto in cui fu realizzata la tavola assume un ruolo
davvero denso di risvolti importanti, perché sarebbe a questo punto forte la
tentazione di supporre la personalità di Egidio, il quale, per ovvi motivi,
durante il suo soggiorno nella città toscana sarebbe potuto giungere in
contatto con gli Agostiniani della città, dunque anche con quelli di San
Donato, in qualche modo intellettualmente collegabile alla decisione,
concordata col Lippi, che già aveva avuto modo di ritrarli a S. Maria sopra
Minerva, di raffigurare nuovamente Giulio Campagnola e Giorgione nell’opera
oggi agli Uffizi. L’idea di un peso decisivo, o quantomeno notevole, di Egidio
da Viterbo sui fatti artistici di quegli anni, orbitanti attorno alla comunità
di Sant’Agostino, è certificata anche alla luce del fatto che nella primavera
del 1497 egli fu nominato Maestro del Convento di Santo Spirito, certamente uno
dei centri di spicco della spiritualità agostiniana fiorentina e soprattutto
della vita intellettuale della città, una circostanza che
indica in termini cristallini la posizione di assoluto rilievo culturale del
cardinale viterbese, che solo grazie a un tale prestigio consolidatosi negli anni
e quindi già molto consistente al momento del suo primo soggiorno a Firenze del
1496, poteva assurgere ad un riconoscimento così importante.
È quindi ponderato supporre che al momento
della commissione dell’Adorazione dei Magi a Filippino Lippi, fosse
ascoltato in merito a certi personaggi da ritrarre, anche il parere di Egidio e
magari deliberato di raffigurare Giulio Campagnola, certamente in nome
dell’antica amicizia che lo legava al cardinale viterbese, e Giorgione,
inseparabile amico del padovano, nelle vesti degli aiutanti del re magio più
giovane.
Inoltre, considerando che l’impianto
scenico dell’Adorazione del Lippi, con una numerosa folla di forestieri
accalcata attorno alla sacra capanna, è evidentemente ispirato alle parole di
Sant’Agostino che nelle Omelie sull’Epifania riferisce che il Bambino
venne offerto alla visione dei pagani per mostrar loro la sua missione
salvifica e stimolarli alla conversione, la presenza di due personalità come
Giulio Campagnola e Giorgione, imbevute d’una erudizione decisamente eterodossa
e in un certo senso deviante rispetto agli schemi e agli argomenti più
tradizionalisti riferibili alla cultura cristiana, valutabile quindi come una
sorta di raffinato neopaganesimo rinascimentale, pare essere assolutamente
pertinente, ma non interpretabile a mio avviso come una condanna in chiave
cattolica delle loro particolari posizioni intellettuali come in conseguenza di
una specie di Controriforma ante litteram, quanto più semplicemente come
una presentazione o addirittura come un omaggio, dato il loro ruolo prestigioso, in quanto aiutanti di uno dei re
magi, seppur raffigurati quasi nascosti, di due personaggi dotati di una
formazione, sebbene decisamente singolare, comunque molto profonda, elevata e
sofisticata, e dunque degna di plauso, similmente a quanto avveniva pochi anni
prima nell’affresco della Cappella Carafa.
Molto coerente con tale contesto pare
anche la circostanza che mediatore tra il Lippi e la comunità degli Agostiniani
di San Donato fu quel Piero Del Pugliese, ritratto anche nella stessa opera,
che fu tra i maggiori committenti di un artista decisamente ameno e fuori dagli
schemi come Piero Di Cosimo, animato da un’individuale
predisposizione spirituale e culturale per certi versi affine a quella dei due
veneti, per cui è accettabile ritenere che il Del Pugliese, il quale ovviamente
ebbe un ruolo primario nella vicenda della genesi dell’Adorazione dei Magi di
San Donato, salutasse favorevolmente, qualora posto al corrente
dell’identità culturale di Giulio e Giorgione, l’eventualità della presenza sul
dipinto dei loro due ritratti, in quanto artisti intellettualmente molto
somiglianti alla personalità di uno dei suoi autori prediletti come Piero Di
Cosimo.
Per le considerazioni espresse dunque
l’ipotesi che i due fanciulli raffigurati dietro il re magio giovane nel
dipinto del Lippi possano essere davvero Giorgione e Giulio Campagnola, o in
ragione di una loro presenza a Firenze nell’ambito di un loro comune percorso
di formazione artistica itinerante o come semplice omaggio a due delle
personalità più interessanti del panorama rinascimentale contemporaneo, è
ragionevole.
A questo punto dunque, l’Adorazione dei
Magi affrescata a Tolentino apparirebbe senza dubbio concettualmente legata
alla tavola fiorentina, poiché sulla scena della lunetta marchigiana si sarebbe
manifestata una sorta di rivisitazione dell’opera del Lippi soprattutto in
riferimento a Giulio Campagnola, con la riproposizione della sua figura ora
assurta, certamente anche in virtù della sua vigorosa crescita culturale ed
artistica, a distanza di sei o sette anni dal dipinto lippesco, da semplice e
anonimo paggio del re magio fiorentino modellato sul ritratto di Giovanni il
Popolano, a ricoprire egli stesso tale ruolo regale nella cappella di
Tolentino.
Sarebbero state utili a questo proposito
maggiori informazioni su Giovanni Battista Rutiloni, prevosto di San Catervo e
committente del ciclo pittorico, pertanto figura centrale della vicenda, ma le
notizie sul suo conto sono assai scarne, tuttavia un indizio ci appare degno di
interesse: il nobile tolentinate si trovava in stretti rapporti con Giulio II,
al quale cedeva nel 1507, “con somma generosità” i diritti sul convento e il fatto che all’epoca
della commissione degli affreschi questi fosse ancora il cardinal Giuliano
Della Rovere, poiché sarebbe diventato pontefice solo l’anno dopo, nel 1503,
appare circostanza davvero ininfluente perché è più che lecito e logico
supporre che i contatti col Rutiloni si fossero radicati già negli anni
precedenti, e che quindi fossero già in essere al tempo dell’impresa di San
Catervo.
Tale evenienza sembrerebbe anche a prima
vista piuttosto banale, se solo pensiamo al fatto che un personaggio come il
Rutiloni, in qualità di commendatario dell’abbazia benedettina cui la chiesa di
San Catervo era annessa, doveva inevitabilmente avere dei contatti, più o meno
frequenti e significativi, con una delle più influenti autorità della Chiesa
come il cardinal Della Rovere, ma se consideriamo che lo stesso Giulio II era
cugino di quel cardinal Raffaele Riario del quale Giulio Campagnola risultava
“familiare” dal 1495, il dato acquista un valore più rilevante, poiché
lascerebbe intuire un complesso intreccio di rapporti di reciproca stima tra il
futuro Giulio II, il Rutiloni, il Riario e, per mezzo dell’intercessione di
quest’ultimo, il Campagnola, culminato nell’omaggio
prestato alla sua colta personalità attraverso i due ritratti (San Catervo e re
magio giovane) commissionati a Marchisiano di Giorgio nel sacello marchigiano,
magari proprio in occasione di un breve soggiorno del giovane artista padovano
in compagnia di Giorgione nell’ambito di un loro viaggio di formazione nel
centro Italia.
Ancora, in riferimento al solo Campagnola
che qui ci interessa particolarmente, riprendendo in considerazione l’idea di
Soragni, che a sostegno della propria tesi sull’identificazione di Catervo con
Giulio Campagnola individua nelle prime due lettere del suo cognome, CA, il
legame col nome di CAtervo, ispirandoci al medesimo modus interpretativo
dello studioso, non possiamo fare a meno di constatare che il nomen del
santo di Tolentino, che ricordiamo essere stato un prefetto del pretorio
appartenente ad una nobile famiglia senatoria romana, era proprio “Iulius”, lo
stesso di Campagnola, poiché egli si chiamava appunto “Flavius Iulius
Catervius”, come riportato nell’epigrafe del suo sontuoso sarcofago
paleocristiano conservato nella stessa cappella. Il particolare è degno di
attenzione soprattutto alla luce del fatto che il nomen era nell’antica
Roma certamente l’elemento di maggior peso a livello sociale, poiché indicava
la gens di appartenenza dell’individuo, per cui valeva come un vero e
proprio riconoscimento ufficiale e in questa ottica, l’evidenza che Giulio
Campagnola firmasse diverse delle sue prime incisioni scrivendo il suo nome
“IVLIVS” in capitale quadrata romana - la stessa che veniva utilizzata nelle
iscrizioni antiche e che difatti ritroviamo nel sarcofago di Catervo - spesso
associato all’appellativo toponomastico “ANTENOREVS” o “PATAVINVS” a rimarcare
la sua provenienza da Padova e a voler esprimere la solida determinazione che
informava la sua volontà di affermazione sociale in qualità di artista, vale a
stabilire un possibile sintomatico legame con una figura come quella di Catervo
che proprio per la sua vicenda umana collocata nell’antichità romana, poteva
essere percepita, specialmente all’interno degli ambienti rinascimentali più
colti, come un’immagine di prestigiosa e cara classicità perduta, seppur
cristianizzata, che appunto si sposava perfettamente con la biografia di Giulio
Campagnola, personaggio che le fonti coeve descrivevano come dotato sin
dall’età adolescenziale, di un’erudizione di natura classica davvero
eccezionale: in ragione di ciò il patavino poteva dunque essere individuato da
artisti e letterati contemporanei come una sorta di portavoce ideale del
classicismo e quindi simbolicamente identificato nella figura di San Catervo,
proveniente dall’antichità tardoromana e sepolto in un elegante sarcofago di
impronta classicheggiante.
Per meglio comprendere il significato del
ciclo di Tolentino occorre anche considerare le otto sibille affrescate sulle
quattro vele della volta a crociera, affiancate ai quattro Evangelisti.
Quello delle sibille è un tema particolarmente
diffuso nel Rinascimento figurativo italiano: ricordiamo quelle dipinte da Pinturicchio
nella Sala delle Sibille presso l’Appartamento Borgia in Vaticano,
quelle di Perugino nel Collegio del Cambio di Perugia e soprattutto le quattro
sibille affrescate da Filippino Lippi sulla volta della Cappella Carafa.
Un particolare significativo è che le
sibille di Tolentino non erano previste nell’atto di allogazione, pertanto
furono aggiunte dopo, ma soprattutto, come osserva la Coltrinari, è molto
interessante notare che il loro numero di otto è piuttosto insolito, poiché
generalmente esse erano raffigurate in quattro, mentre ancor più sorprendente,
anzi come un vero e proprio unicum, appare la circostanza che
queste sono rappresentate vicine agli Evangelisti, quando invece
tradizionalmente erano effigiate o al fianco dei Profeti o isolate.
Il cartiglio che regge la sibilla
Tiburtina recita: “NASCETVR DEVS IN BETHELEM ANNVNCIABITVR/ IN NAZARET REGNANTE
TAURO PACIFICO”. Il riferimento al regno del “toro pacifico” che la Coltrinari
ha acutamente interpretato come un richiamo piuttosto chiaro al papa Alessandro
VI, protagonista dell’apoteosi pagana dipinta dal Pinturicchio sulla volta
della Sala dei Santi con le storie di Iside e Osiride ,trasformato alla
fine nel bue Api e valutato, in relazione al fatto che alla fine del 1502
Cesare Borgia, figlio del pontefice, fece sosta col suo esercito proprio nel
centro marchigiano, come una sorta di captatio benevolentiae dei
committenti o degli artisti nei confronti del duca Valentino, se da un lato è
senza dubbio molto sensato e convincente stimare in un contesto decisamente
politico, dall’altro colloca il ciclo tolentinate in quel particolare clima
culturale tipico del pontificato di Alessandro VI, permeato da quella singolare
unione intellettuale di riferimenti della tradizione cristiana e di quella pagana,
che a Tolentino emerge appunto in termini pressoché unici con la compresenza di
sibille ed Evangelisti, ed è pertanto in virtù di questa speciale congiuntura
erudita ed artistica in cui maturarono gli affreschi marchigiani che i presunti
ritratti di due personalità molto inclini ad una cultura prossima a modelli
piuttosto eterodossi, come Giorgione e Campagnola, con quest’ultimo addirittura
effigiato due volte, nelle sembianze di San Catervo e del re magio giovane,
paiono ancor più plausibili, e interpretabili come elementi della medesima
temperie ermetica che si respira nella scena della Disputa di San Tommaso
d’Aquino a Roma, dove la presenza dei loro due ritratti, più che della
schiera degli eretici raffigurata nell’affresco - inequivocabilmente valutabile
quest’ultima come una condanna delle loro posizioni anticattoliche - sono il
lampante esempio dell’incontro tra la dottrina cristiana e quell’erudizione
paganeggiante, cui il papato borgesco era particolarmente affezionato.
Possiamo così concludere ritenendo
assolutamente verosimili le identificazioni di Giulio Campagnola con la figura
del re magio giovane e con quella di San Catervo e in relazione a quest’ultima,
del suo sodale Giorgione con San Sebastiano, a prescindere dalla materiale realizzazione
dei dipinti da parte dei due artisti veneti, poiché se questa sarebbe
ragionevolmente da escludere, per i motivi che abbiamo indagato sopra, l’idea
di un ritratto-omaggio alle loro personalità, deliberato dai committenti
capeggiati da Giovanni Battista Rutiloni e commissionato al pittore Marchisiano
di Giorgio, probabilmente coadiuvato da Francesco da Tolentino, sembra in virtù
delle considerazioni espresse, certamente più ponderata e forse decisa proprio
in occasione di una loro visita in città nell’ambito di un comune percorso di
formazione itinerante lungo la Penisola. Parimenti possibile e perciò da non
escludere, l’ipotesi collaterale e alternativa secondo cui seppur non presenti
a Tolentino al momento della realizzazione degli affreschi, Giorgione e Giulio
Campagnola abbiano potuto avere comunque l’onore di essere raffigurati in
questo ciclo pittorico in ragione della loro singolare e raffinata cultura e specialmente
dei rapporti di amicizia del Campagnola con il Riario, del legame di parentela
di questi con l’allora cardinale Giuliano Della Rovere, futuro Giulio II, e
dell’amicizia di quest’ultimo con Giovanni Battista Rutiloni, principale committente
dell’impresa.
Resta infine un altro scenario, certo meno
affascinante di quello sinora delineato, ma comunque potenzialmente concreto,
ossia che gli artefici degli affreschi di Tolentino abbiano guardato ai
presunti ritratti di Giulio Campagnola e di Giorgione immediatamente precedenti
la realizzazione dell’impresa marchigiana, e magari proprio alle immagini dei
due presso la Cappella Carafa a Roma, in termini puramente strumentali, ovvero adottandoli
solo ed esclusivamente in qualità di modelli formali di riferimento, in ragione
della particolare eleganza e bellezza connaturata al loro aspetto di impronta
“peruginesca” e “pinturicchiesca” e dunque della felice riuscita compositiva
delle loro raffigurazioni. Decisivo da questo punto di vista potrebbe essere
stato l’apporto di Francesco da Tolentino, che gli studi sulla sua figura
delineano come un artista girovago, e che quindi avrebbe potuto ragionevolmente
attingere ispirazione dai modelli dei due giovani osservati di persona nella Cappella
Carafa, fonderli nel contesto compositivo generale con i precedenti esempi di
Perugino e Pinturicchio sopra menzionati, poiché ritroviamo nella produzione
dell’artista tolentinate il motivo del braccio appoggiato a un fianco, nell’Adorazione
dei Magi di Liveri di Nola (Napoli) e nella figura di S. Mercurio in un
trittico di Serracapriola (Foggia) e poi riproporli nelle tre figure di
Tolentino verosimilmente in questi termini: come esecutore per quanto riguarda
la figura del re magio, in veste di consigliere, o modello ispiratore, – e in
effetti il re magio si discosta stilisticamente dai due Santi, suggerendo
quindi la realizzazione da parte di una mano diversa - per quelle dei Santi
Catervo e Sebastiano, la creazione delle quali doveva essere direttamente
demandata a Marchisiano di Giorgio per le motivazioni sociali cui abbiamo accennato
sopra, per cui doveva essere investito proprio lui come principale artefice
dell’impresa pittorica.
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1127-4883.
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