Stendersi
sul mondo, distendere il mondo.
Stendervisi,
pensarlo, concettualizzarlo, catalogarlo, forse ordinarlo: un mondo fatto di
villaggi e di città, di Torino e di Afghanistan, di singolarità e di Gemelli, di fili da raccogliere e di
tessuti intrecciati, di luminosità romana e di bandiere di stati. Distenderlo,
metterlo a terra per giocarci, appenderlo da ammirare: ritrovarsi qui mentre si
è lì, Non parto non resto, e telegrammi
ad enumerare giorni, mentre il tempo è sempre rovesciato, come un elemento da
affrontare con la dialettica.
«… Ci sono cinque sensi e il sesto è il pensiero ovvero la
cosa più straordinaria che l’uomo possieda, e che non ha niente a che vedere
con la natura. Per cui se io devo dire quali sono state le grandi emozioni
della mia vita, confesso che non sono state di ordine materiale… le grandi
emozioni, secondo me, si provano ascoltando Mozart, leggendo una poesia, perché
c’è un pensiero fatto di mille coincidenze, sincronismo, ricordi quasi
biologici, forse di tempi antichissimi in cui eravamo un’altra cosa… quando
eravamo forse più vicini agli dei …»: queste considerazioni rappresentano la
chiave d’accesso all’universo di Alighiero Boetti.
Nato a Torino nel 1940, ha vissuto la stagione dell’“Arte Povera”
che, tra il capoluogo sabaudo e Roma, ha portato artisti come – tra gli altri –
Calzolari, Kounellis, Mario e Marisa Merz, Paolini a confrontarsi insieme su
alcuni punti nodali del dibattito vita/arte politica/arte, e ha costituito un
momento di “guerriglia” artistica in relazione/scontro con le tematiche del
’68: «Il '67 è stato un anno esplosivo, per me e per tutti. Era un momento di
grande eccitamento, anche a livello materiale: la scoperta, l'entusiasmo dei
materiali, che hanno portato alla nausea. Era tutto molto empirico allora ...».
Se la relazione arte/vita è uno dei temi fondanti della ricerca artistica, essa
assume particolare rilevanza “esistenziale” nel percorso di Boetti che, in
parallelo alla virata concettuale impressa al proprio lavoro con Niente da vedere, niente da nascondere,
(1969) – una vetrata da
contemplare appoggiata da una parete – comincia a definire un itinerario di
“raddoppiamento”: con Gemelli
spedisce una cinquantina di cartoline con la propria immagine che tiene per la
mano un altro se stesso, definendo un correlativo iconico alla sigla
artistico-umana che assumerà: Alighiero e Boetti.
Raddoppiare, accumulare, inventariare sono operazioni
mentali che si sostanziano dei viaggi e delle esperienze dell’artista. Tra
vagabondaggi iniziatici e itinerari artistici, Boetti si pone sulle tracce di
un suo lontano antenato: Giovanni Battista Boetti, frate domenicano piemontese,
vissuto tra il 1743 e il 1794, leggendaria e misteriosa figura di combattente
caucasico alla testa della resistenza contro l’avanzata dei russi, celebrato
come Al Mansur, Il Vittorioso. E i fili s’intrecciano, con l’artista che giunge
per la prima volta in Afghanistan nel 1971, facendone la sua seconda patria.
Intrisi di colori e di sentori afghani sono così i tessuti
che Boetti fa realizzare, con ottica serial-concettuale che da occidentale si
fa astrazione zen, ricamo sulla pelle del mondo. A Kabul nasce 16 dicembre 2040-11 luglio 2023, ricamo
con il centenario della sua nascita e la presunta data di morte.
Al rientro dal primo soggiorno afghano, la serie dei
telegrammi, che scandisce il tempo sulla base della logica del raddoppio. Poi
il ritorno in Afghanistan, nel settembre 1971, e la nascita della Mappa:
fusione fra tradizione plurisecolare di tessitura e pacifismo dell’avanguardia
occidentale, il planisfero si costruisce con le bandiere nazionali a
sostanziare gli stati, tessere di un mosaico avvertito come elezione di un
incontro, possibilità di ordinata percorribilità. E i testi, a volte in
italiano altre volte nelle parlate locali, punteggiano il ricamo che è segno di
armonia, geografia cosmopolita e non “tappeto di guerra”: «Il lavoro della
Mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho
fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com'è e non
l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io,
insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l'idea base, il
concetto, tutto il resto non è da scegliere».
Poi, insieme a un laboratorio di ricamo, sarà aperto nella
capitale afghana anche un albergo, il “One Hotel”; dalla città partirà inoltre
la corrispondenza che costituirà l’opera 720
lettere da Kabul. Viaggi, mostre e realizzazioni punteggiano la vita
dell’artista, impegnato in una serie di lavori a penna – Mettere al mondo il mondo – e nella promozione di ricami con parole
e frasi: Ordine e disordine (1972).
La micro-storia di Boetti, che è anche racconto di
un’esperienza politico-concettuale di incontri e di arti, riannoda i fili del
passato ritrovando, due secoli dopo l’antenato domenicano in Caucaso, la
macro-storia dello scontro con la Russia. Nel settembre del 1979 l’artista
compie il suo ultimo viaggio a Kabul, invasa in dicembre dai sovietici. Il laboratorio afghano, ove le ricamatrici realizzano gli arazzi-planisfero
che seguono cromaticamente i mutamenti geo-politici del mondo, subisce
direttamente le conseguenze delle mutazioni intercorse, trasferendosi nei campi
profughi di Peshawar in Pakistan. Tra la sede di Kabul e quella pakistana, sono
così realizzate circa duecento mappe in più di venti anni di attività.
Ma la relazione col
paese adottivo non s’interrompe del tutto, facendosi rielaborazione e rapporto
collaterale. La natura, una faccenda
ottusa (1981) ripropone le considerazioni sulle facoltà del pensiero umano
e nello stesso tempo è critica naturale alla “proliferazione dei regni” che si
fa istanza politica, resistenza intellettuale all’occupazione che è innanzitutto
spoliazione mentale, privazione della libertà di movimento e costrizione nel
regime dell’immoto, come avverrà anche nei successivi anni del predominio
talebano.
Spazialmente lontano, ritorna l’Afghanistan nella dimensione
paradigmatica di un inchiostro su carta intelata che è reclusione del sé,
quando il resto è imprigionato: sagoma di un territorio come nucleo generativo,
motore di pensiero, propulsione di ricordi da mutare in opera, mentre il tempo
scorre senza più consentire il ritorno. Seriale contabilità del tempo è anche la collaborazione
dell’artista col quotidiano “Il Manifesto”, sul quale pubblica, dal dicembre
1980, un disegno al giorno per circa cinque mesi, come a ribadire un bisogno
d’ordine che sia misura di creatività.
Dal 1988 dà inizio a Tutto,
ciclo di arazzi ricamati di grandi dimensioni. Boetti e i suoi collaboratori
riempiono ogni centimetro quadro della superficie da ricamare con varie figure
strettamente abbinate, lasciando alle ricamatrici la libertà di scegliere gran
parte dei colori utilizzati. E l’intento non è mai selettivo, bensì
aleatoriamente onnicomprensivo, come dichiara a “Il Corriere della Sera” del 19
gennaio 1992: «Per non creare gerarchie tra i colori li uso tutti. Il mio
problema infatti è di non fare scelte secondo il mio gusto ma d'inventare
sistemi che poi scelgono per me».
Infine, dopo un ulteriore soggiorno in Giappone per lavori
calligrafici su carta di riso, il cerchio s’avvia a chiudersi, nelle vicinanze
del paese impressosi nella sua interiorità: fa così realizzare la tessitura in
Pakistan, nel 1991, di cinquanta kilim su composizioni grafiche di studenti di
accademie francesi. Oltre questo, rimane un progetto: inchiostro su carta
intelata per un grande tappeto su cui volar via. Non a Torino né a Kabul, Boetti si spegne a Roma il 24
aprile 1994.
Fig. 8
ALIGHIERO BOETTI, Tutto, 1988
Ricamo su tessuto / arazzo, cm. 223 x 223
Emanuel Hoffmann - Stiftung, deposito presso l'Öffentlichen Kunstsammlung Basel
Fig. 9
ALIGHIERO BOETTI, Alternando da 1 a 100 e viceversa, 1993
Tappeto kilim, cm. 289,6 x 279,4
Courtesy Gagosian Gallery, New York
Fig. 10
ALIGHIERO BOETTI, Senza titolo (Progetto per grande tappeto), 1993-94
Inchiostro e gouache su carta intelata, cm. 350 x 242
Joseph H. Hirshhorn Purchase Fund, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Washington DC
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