Il fiume ha molti nomi.
Presso vari popoli, Danubio e Istro
indicavano rispettivamente
il corso superiore e quello inferiore
ma talora anche quello
intero: Plinio, Strabone e Tolomeo
si chiedevano dove finisse
l’uno e iniziasse l’altro, forse in Illiria o alle Porte di
Ferro.
Il fiume «bisnominis»,
come lo chiamava Ovidio, trascina la civiltà tedesca,
col suo sogno dell’odissea
dello spirito che torna a casa, verso oriente e la mescola ad altre
civiltà, in tante meticce metamorfosi nelle quali la sua storia
trova il suo compimento e la sua caduta.
Magris,
Danubio
«Vi do qui notizie del vastissimo e
gloriosissimo paese di Maghrebinia. Inutilmente lo cercherete sulla
carta. Non è segnato in alcun atlante, né si rintraccia su alcun
mappamondo. Alcuni sostengono che si trovi a sud-est, o persino che
con esso s’intende il sud-est per antonomasia. Ma cos’è poi il
sud-est, per piacere? Per dirla nella lingua corrotta dell’ovest:
un concetto estremamente relativo nel sistema copernicano».
È l’incipit con il quale von
Rezzori destruttura le frontiere di un immaginario e metaforico
territorio sud-orientale, tendenzialmente – e tendenziosamente –
austro-ungarico, nel libro di aneddoti e storie sulla Maghrebinia
pubblicato nel 1953.
Silloge d’immagini e di scene dall’Oriente europeo e dall’Austria
fin-de-siècle, omaggio alla tradizione di una continuità e
molteplicità culturale sentita già lontana, geografia della
percezione e della rappresentazione – il volume è illustrato da
disegni dello scrittore –, la fantasmagoria di Rezzori accompagna
il tempo della storia e il corso del fiume, come se riprendesse – a
somiglianza del Maradagál di Gadda – uno spazio della scrittura
che allude, senza aderirvi necessariamente, alla complessa
frammentaria varietà delle terre danubiane: del passato e del secolo
scorso. Tabucchi parla in proposito, anziché dell’«autonomia del
personaggio» attribuita alla finzione narrativa, dell’«autonomia
del luogo», in relazione all’uso di una metafora che, coincidendo
con il reale, «crea un doppio identico a se stesso»:
definendo alla potenza siti ove la memoria non è perduta ma perdura.
Sono pagine che si pongono come limes, limaccioso o mobile, in
cui lo sguardo divergente dell’autore trasforma il paesaggio
storico-culturale in frammentismo per una narrazione mimeticamente
barocca, secondo la tipologia centro-europea. Scrive von Rezzori: «Lo scampanìo echeggiante dei campanili a cipolla delle chiese
(veramente non sono campanili a cipolla, bensì ad aglio […] ), lo
scampanìo polifonico dunque, echeggiante dai campanili ad aglio
delle chiese nelle province settentrionali ed occidentali, s’imbatte
nei richiami prolungati dei muezzin
provenienti dai puntuti
minareti delle numerose moschee delle province meridionali ed
orientali […]».
In un processo di accumulo e giustapposizione cromatico-linguistica,
la percezione dello scrittore-disegnatore trasforma la visione
frontale, o da lontano, secondo assi di rifrazione che potrebbero
connettere sottosuolo e colline, reperti archeologici e alzati delle
costruzioni, musicalità della parola e campiture della pittura. E i
campanili «ad aglio» possono ricordare raffigurazioni pittoriche di
Egon Schiele, come la Chiesa di Stein sul Danubio, del 1913:
qui, lo spazio di superficie, contratto e teso tra il piano
orizzontale e quello verticale, si struttura intorno alla massa
liquida centrale che campeggia come elemento costruttivo di una
percezione bidimensionale. Verrebbe da ritornare, per il piccolo
agglomerato di Stein, alle parole di Rezzori che, dopo aver ricordato
«Vastissima è la Maghrebinia», aggiunge: «È un paese in cui si parlano cento lingue e soltanto un
linguaggio: quello carico di discernimento di cuori saggi, saturi
d’aglio».
Altre due raffigurazioni di Schiele riprendono, nel 1913, le medesime
caratteristiche cromatiche, rendendo il campanile elemento
strutturante la composizione e diluendo l’elemento fluviale nella
sofferta volumetria del paesaggio. Differente è invece la visione di
Stein sul Danubio vista da sud, ove, accanto all’alto
campanile della chiesa, ne compare un altro – effettivamente ad
aglio, secondo la definizione di Rezzori –, che costituisce il
centro dell’immagine con una tonalità di rosso complementare alle
orizzontali stesure di verde. E, nelle Storie
di Maghrebinia, lo scrittore della
Bucovina presenta, tra piccole notazioni grottesche, un’osservazione
paradossale sulla manutenzione delle strade come possibile
alternativa alla loro costruzione: sorta, anche, d’indiretta
demistificazione della ricerca archeologica:
« La cultura del paese è antica. Qualche anno
fa, per esempio, fu deciso di lastricare la più importante arteria
di traffico della capitale Metropolsk […]. Squadre di operai
rimossero la melma. Così risultò che quella strada era già stata
lastricata in precedenza».
Immagini verbali che, nel loro giustapporsi in
modo apparentemente destrutturato, fanno pensare – come Tragedia
civile, ovvero il muro ricoperto
d’oro in fogli esposto per la prima volta nel 1975 da Jannis
Kounellis con voluti riferimenti al mondo asburgico-viennese – agli
elementi “musivi” delle raffigurazioni klimtiane: tessere,
lamine, « fessure incise come lame nelle
quinte del teatro quotidiano»,
osserva Magris ne L’infinito
viaggiare. Viaggi non solo nello
spazio – « pure i viaggiatori
danubiani amano il mare e forse, come quelli del mio Danubio,
attraversano le grandi pianure della Mitteleuropa sotto cieli pesanti
soprattutto per raggiungere il mare»,
ricorda lo scrittore triestino –, ma
attraverso il tempo, le memorie, le mobili frontiere di lente
trasformazioni.
E lo snodarsi del fiume fra terre e città
definisce contrapposizioni ed incontri, come quello – nel nome
della fusione urbana – tra Buda e Pest, rese stabilmente
comunicanti dal Ponte delle Catene, inaugurato nel 1849.
La progressiva definizione di un nuovo assetto urbanistico – con la
capitale magiara che ingloba
nel suo tessuto metropolitano il Danubio – elabora in chiave
ottocentesca il tema antico dell’incrocio frontaliero e del limes,
ripreso anche, con una diversa caratterizzazione fluida,
da Orhan Pamuk, ove la dimensione acquatica può non solo
corrispondere alla modulazione delle rive asiatica ed europea, ma
anche a un salto all’indietro nel tempo:
«Vidi delle scale di legno dalla parte del Corno d’Oro e scesi
giù. Qui scorsi un piccolo battello delle Linee marittime della
città che stava per partire. Il capitano, il macchinista e
l’ormeggiatore erano tutti raggruppati dove era ancorato il
battello, e sembravano accogliere i pochi viaggiatori come
l’equipaggio di una nave passeggeri, bevendo il tè e
chiacchierando tra loro. Salii sul battello [...] facendomi catturare
da questa atmosfera, e mi parve di conoscere da molto tempo i
passeggeri stanchi con i loro cappotti, berretti, sciarpe e borse per
la spesa [...]. Quando l’imbarcazione partì silenziosamente,
questo sentimento di comunità, la sensazione di appartenere al cuore
di Istanbul mi strinse in un abbraccio così forte che fui colto da
un’altra idea folgorante: mentre sopra si viveva un pomeriggio di
marzo del 1972, [...] noi giù eravamo in un’epoca molto più
vecchia, più larga e pesante. Scendendo dalle scale che avevo visto
per caso, fino allo scalo del Corno d’Oro, mi sembrò di essere
tornato indietro di trent’anni, nei giorni in cui la città era più
isolata, più povera e triste».
Sul versante delle cesure, di terra, d’acqua
o dell’immaginario, ecco allora Magris sottolineare che «Non
c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche,
linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle
invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città,
quelle tra le persone […]» e aggiungere un’osservazione
essenziale, presente anche in Pamuk: «Viaggiare non vuol dire
soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire
di essere sempre pure dall’altra parte».
La mostra dell’estate 2013 alla GNAM di Roma, « Il
Tempo della modernità. Pittura ungherese 1905-1925»,
ha sottolineato aspetti molteplici della sensibilità artistica del
primo Novecento magiaro, sospeso fra tradizione e innovazione: come
quando si evidenzia in Ungheria una certa attenzione per il Futurismo
italiano, fino ad ospitare nella capitale, nel 1913, capolavori del
movimento (La risata,
1911, di Umberto Boccioni; La
rivolta, 1911, di Luigi Russolo; I
funerali dell’anarchico Galli,
1910-1911, di Carlo Carrà).
Aperture verso il nuovo portano in Francia
József Rippl-Rónai (1861-1927), dal 1889 a Pont-Aven in contatto
col gruppo dei Nabis.
Alternando soggiorni all’estero e in patria – ove gli viene
dedicata una grande esposizione a Budapest –, momenti di vivacità
ed altri di ripiegamento, diviene egli stesso l’emblema di un Paese
che entra nel XX secolo senza rinnegare le proprie caratteristiche:
in un sentire condiviso che si propone, anche attraverso le
composizioni e le ricerche di Béla Bartók – ammiratore degli
Impressionisti durante il suo primo soggiorno parigino nel 1905 –,
di riprendere l’emblematico fluire del fiume, come nel suo Corso
del Danubio (A
Duna folyása) per violino e
pianoforte.
E, prima di una sorta di rappel
à l’ordre presente negli anni
Venti in Ungheria come in Italia, ricerche pittoriche svolte a
Nagybánya, area di grandi risorse minerarie, si focalizzano in
chiave locale sul confronto con il paesaggio, rappresentato con
ricchezza coloristica: drammaticamente rovesciata, questa visione
della natura, il 30 gennaio del 2000 dal riversarsi di tonnellate di
cianuro da una miniera d’oro nel fiume
Someş
e, da quest’ultimo, nel Danubio. A proposito di quest’area,
racconta Tabucchi di un suo peregrinare tra chiese dagli alti
campanili sottili, segnate da periodi e tecniche differenti, ma
accomunate dalla funzione costruttivo-strutturale dell’architettura
in legno:
« Nel distretto di Maramureş,
la zona carpatica della Romania del Nord-ovest, sorgono le antiche
chiese dichiarate patrimonio universale dall’Unesco. Più austere
dei monasteri della Bucovina […], caratterizzate da straordinari
affreschi nelle pareti esterne, sono costruite in legno, con
campanili aguzzi e tetti a pagoda […] Nella remota regione di
Maramureş,
di stretto rito ortodosso, […], si trova il monastero di legno di
fondazione più antica (1393) di tutta la Romania […]».
Se, come scrive Calvino ne Le
città invisibili, «I fiumi
in piena hanno trascinato foreste di travi destinate a sostenere
tetti […]» e si
«contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e
sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico
d’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di
gerarchie, gonfio, teso, greve»,
possiamo ancora seguire il corso del Danubio tra queste terre in un
gioco di riflessi, ove fluire e proseguire verso il sud-est può
anche significare guardare a nord-ovest.
Nel primo volume della sua trilogia autobiografica, La lingua
salvata, Elias Canetti (1905-1944) ripercorre l’ambiente della
città natale – l’odierna Ruse sulla sponda bulgara del Danubio –
descrivendo un piccolo universo solcato da incroci e torsioni. Al di
là delle molteplici caratterizzazioni biografiche dell’autore, è
il topos – in senso geografico – ad assumere rilevanza
nell’ottica delle terre e delle province attraversate dal grande
fiume: di fronte alla località rumena di Giurgiu, e a duecento
kilometri dal Mar Nero, il luogo d’infanzia e di prima formazione
di Canetti diviene immagine di fondo di tempi lontani, ove la
modernità e le trasformazioni possono intuirsi, ma sono comunque
altrove, oltre questo babelico microcosmo con
caratterizzazioni fantastiche:
«Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un
bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in
Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa
Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno
si potevano sentire sette o otto lingue».
Spinte verso la modernità liberale o retaggi generazionali
condensati dal Talmud divengono per il giovane Canetti anche tensioni
che risalgono, alla lettera, il corso fluviale: e dall’atmosfera
ferma, talvolta letteralmente congelata del sito d’infanzia
– «In qualche raro inverno il Danubio gelava e a questo proposito
si narravano storie straordinarie. In gioventù la mamma era andata
più volte con la slitta fino in Romania»,
– si guarda alla lontana, luminosa modernità di Vienna, da
raggiungere in quattro giorni di navigazione fluviale:
«Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già
accaduto a Rustschuk. Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa
e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che
andava in Europa. L’Europa cominciava là dove un tempo finiva
l’impero ottomano».
Limes liquido, separatore ed unificatore, traccia naturale fra
terre drammaticamente aderenti alla propria storia, se si giunge alla
foce del fiume - al Mar Nero e ad altre fluide transizioni -,
possiamo osservare che le raggelate «storie straordinarie»
dell’infanzia di Canetti trovano un’eco perfettamente rispondente
nelle pagine memoriali di Orhan Pamuk, che scrive:
«Un’altra delle meraviglie meteorologiche di questo tipo, che io
ricordo dalla mia infanzia e che unì la comunità, fu l’arrivo di
blocchi di ghiaccio dal Danubio al Mar Nero, blocchi che scendendo da
nord erano entrati nel Bosforo. C’era gente che raccontava ancora,
a distanza di anni, questo fenomeno, che aveva spaventato e
meravigliato l’intera Istanbul […] e allo stesso tempo, essendo
un ricordo indimenticabile, l’aveva rallegrata».
NOTE
Gregor
von
Rezzori, Storie
di Maghrebinia,
1953, ediz. ital. Pordenone, Studio Tesi, 1990, p. 7.
Cfr.
Antonio Tabucchi, Viaggi
e altri viaggi,
Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 220-221.
Gregor
von
Rezzori, op.
cit.,
p. 7.
Ivi,
p. 9.
Ibidem.
Claudio
Magris,
L’infinito
viaggiare,
Milano, Mondadori, 2005, p. 5 versione digitale.
Ivi,
p. 7.
Costruito
da William
Tierney Clark (1783-1952) sul modello del Marlow Bridge di Londra
(1832).
Orhan
Pamuk,
Istanbul,
2003, ediz. ital. Torino, Einaudi, 2006, p. 140 versione digitale.
Claudio
Magris,
op.
cit.,
p. 4.
Mostra
a cura di Mariann Gergely e di György Szücs, curatore anche del
catalogo; Commissario interno della mostra romana Martina De Luca,
della Galleria Nazionale di Arte Moderna: cfr.
http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1487810113.html
Antonio
Tabucchi, op.
cit.,
p. 63.
Italo
Calvino, Le
città invisibili,
Torino, Einaudi, 1972, p. 33.
Elias
Canetti, La lingua
salvata,
1977, ediz. ital.
Milano, Adelphi, 1980, p. 2 versione
digitale.
Ivi,
p. 5.
Ivi,
p. 3.
BIBLIOGRAFIA
CALVINO 1972
Italo Calvino, Le città invisibili,
Torino, Einaudi, 1972.
CANETTI 1977
Elias Canetti, La lingua salvata, 1977, ediz. ital.
Milano, Adelphi, 1980.
MAGRIS 2005
Claudio Magris, L’infinito
viaggiare, Milano, Mondadori, 2005.
PAMUK 2003
Orhan Pamuk,
Istanbul,
2003, ediz. ital. Torino, Einaudi, 2006.
TABUCCHI 2010
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi,
Milano, Feltrinelli, 2010.
VON REZZORI 1953
Gregor von Rezzori, Storie
di Maghrebinia, 1953, ediz. ital.
Pordenone, Studio Tesi, 1990.
Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA
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Fig. 1
EGON SCHIELE, Chiesa di Stein sul Danubio, 1913,
olio su tavola,
collezione privata
Fig. 2
EGON SCHIELE, Stein sul Danubio vista da Kreuzberg, 1913,
olio su tela, 90.4 x 90.4 cm.,
Vienna, Leopold Museum
Fig. 3
EGON SCHIELE, Stein sul Danubio vista da sud, 1913,
89.8 x 89.6 cm.,
collezione privata
Fig. 4
JANNIS KOUNELLIS, Senza titolo (Tragedia civile), 1975,
oro in fogli, attaccapanni, cappello, cappotto, lampada a petrolio,
Napoli, Galleria Lucio Amelio (prima presentazione)
Fig. 5
JÓZSEF RIPPL-RÓNAI, Alberi di visciole in fiore, 1909,
olio su cartone, 68 x 90 cm.,
Kaposvár, Rippl-Rónai Museum
Foto cortesia di Ettore Janulardo
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