I
critici hanno ragione quando vedono il “ritorno alla Grecia”
come un regressivo desiderio di morte, come una fuga dai conflitti
contemporanei nelle mitologie e nelle speculazioni di un mondo
fantastico. […] “Rinascimento” (rinascita) sarebbe una parola
priva di significato senza l'implicita dissoluzione, la morte stessa
da cui quella rinascita proviene.
JAMES HILLMAN, Saggio su Pan
Rovinismo
e alchimia: una lettura mitologica e psicoanalitica
Nel
sesto capitolo dell'Hypnerotomachia
Poliphili,
Polifilo attraversa la magna
porta
in uno stato di estasi contemplativa. Dopo aver ampiamente lodato la
costruzione, Polifilo medita sul piacere che deriva da tale visione:
«Si
gli fragmenti dilla sancta antiquitate et rupture et ruinamento et
quodammodo le Scobe ne ducono in stupenda admiratione, et ad tanto
oblectamento di mirarle, quanto farebbe la sua integritate?».
La magna
porta
non è il primo né l'ultimo dei monumenti incontrati dal
protagonista nel corso del suo peregrinare onirico; la riflessione
sull'integrità perduta delle rovine viene formulata anche in altri
momenti del romanzo. Prima della magna
porta vengono
fatte delle considerazioni sulla grandezza delle rovine solo in altri
due momenti: dopo la prima serie di rovine (la fabbrica con la
piramide, l'equus
infelicitatis,
il colosso e l'elefante obeliscoforo) e davanti alla facciata della
porta suddetta. Polifilo in queste occasioni dice: «O sancti patri
antiqui artifici, quale immanitate invase tanta vostra virtute, che
con vui nella sepultura, portasti di tante divitie la
exhaereditatione nostra?»,
e poi «Veneno exitiale, che misero fai che da te è laeso, quante
magnifice opere sono ruinate et parte interdicte?».
In entrambi i casi Polifilo fa riferimento alla morte: i santi padri
si sono portati nella tomba tanta virtù e il veleno mortale
immiserisce le opere umane. Lo stato di Fortuna perduta e il pensiero
malinconico sulla morte si inseriscono perfettamente nello stato di
nigredo
alchimistica (che, come dice Jung, corrisponde psicologicamente
all'incontro con l'Ombra).
Questa si manifesta in diversi passi dell'opera e sembra terminare
dopo la fuga dal drago e il superamento degli oscuri sotterranei in
cui Polifilo si perde in preda alla paura. Le grotte ipogee,
l'ambientazione silvana di molti luoghi dell'Hypnerotomachia,
il panico provato prima nell'Hercynia
silva
e poi in luoghi sotterranei sono tutti elementi che ci rimandano a
Pan, il dio-capro della natura. A proposito Hillman si esprime così:
«La paura esiste per essere affrontata e vinta dall'eroe nel suo
cammino verso la virilità, e l'incontro con la paura ha un ruolo
preminente nelle cerimonie iniziatiche»,
e più avanti, relativamente alle due facce della paura (panico e
angoscia), afferma: «Può esservi paura panica, una sorta di fuga
precipitosa, ad esempio; può esservi angoscia panica come in un
sogno. In entrambi i casi l'esito può essere la morte». Hillman
soggiunge inoltre che è possibile «distinguere il sogno d'angoscia
dall'incubo nel senso classico. L'incubo classico è la terrificante
visitazione da parte di un demone che opprime forzatamente il
sognatore paralizzandolo, mozzandogli il respiro, e la liberazione
giunge attraverso il movimento».
Polifilo sogna di sognare, dichiara dunque di trovarsi in un luogo
profondo della psiche. È vero che si tratta di una finzione
letteraria e di un'allegoria rinascimentale, ma le puntuali analogie
con gli archetipi della psicologia analitica di Jung, ripresa da
Hillman, impressionano. Secondo la tesi di Roscher il dio Pan è il
demone dell'incubo nell'antichità, «a causa della natura satiresca-
|
Fig. 1 – Xilografia dall'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499. Semper festina tarde
|
caprigna-fallica
di Pan, sia l'angoscia panica dell'incubo sia i suoi aspetti erotici
possono essere sussunti sotto un'unica e medesima figura».
Pan, dio del Tutto è dio della natura, che nell'immaginario antico
corrisponde all'Arcadia, luogo fisico e psichico. Le oscure grotte in
cui si poteva incontrare Pan vengono estese dai neoplatonici «fino a
indicare i recessi materiali in cui risiede l'impulso, gli oscuri
fori della psiche da cui nascono desiderio e panico».
Egli è allo stesso tempo distruttore e preservatore. L'aspetto
protettivo si rivela nella sua affinità con i pastori e anche nel
suo ruolo nel corteo di Dioniso, in quanto custode dello scudo del
Dio. Inoltre Pan protegge Psiche dal suicidio nella favola narrata da
Apuleio: Psiche (l'Anima) presa dal panico si butta nel fiume che la
rigetta. Pan qui si rivela con la saggezza della natura: «la
saggezza è quella del corpo che entra in connessione col divino,
come il panico con Pan».
Polifilo dunque incontra un mostro demoniaco (il drago, simbolo anche
del serpens
mercurii che
rappresenta la prima
materia),
scende in caverne oscure (si confronta dunque con l'Ombra, l'elemento
sotterraneo, il male) per poi uscirne e ritrovarsi in un bosco. A
questo punto del romanzo Polifilo ha superato un grande pericolo e il
panico che ne consegue, la strada è più sicura e questa sicurezza
si materializza con la visione del ponte: «Quando
la vittoria diventa stabile è perché la strada si è fatta ponte:
ha saltato l'ostacolo, ha unito le due "rive" opposte
facendone una stessa cosa; una continuità visiva che supera e fa
dimenticare la
frattura».
Il
ponte è un luogo sia di passaggio (congiungimento delle due rive)
sia di stabilità (attraversamento sicuro di un fiume, per sua natura
mobile e in divenire), per Polifilo rappresenta il passaggio dallo
stato di paura a un nuovo regno, quello della regina Eleutherillyde,
ossia quello del Libero arbitrio che, in quanto libera scelta fatta
con coscienza, presuppone saggezza e prudenza, significato profondo
del motto festina
lente.
Il motto si presenta all'interno del romanzo due volte ed entrambe le
volte è proposto durante l'attraversamento di un ponte. Il primo
ponte permette a Polifilo di entrare nel regno di Eleutherillyde,
dopo la fuga dal drago, il secondo gli permette di uscire dallo
stesso regno e conduce alle tre porte. All'interno di questo regno
Polifilo,
|
Fig. 2 – Xilografia dall'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499 Velocitatem sedendo, tarditatem tempera surgendo
|
tra
le altre cose, si lava dentro delle terme insieme a delle ninfe e
incontra numerose fontane. Il regno del “Libero arbitrio” è
dunque caratterizzato dalla presenza dell'acqua, questo elemento
caratterizza la fase alchimistica dell'albedo,
stadio di purificazione nel processo di trasmutazione della materia,
che per noi, in questo caso, è l'anima di Polifilo. A proposito
dell'alchimia Jung dice: «L'alchimia
forma infatti una sorta di corrente sotterranea di quel cristianesimo
che regna alla superficie. Il rapporto tra alchimia e cristianesimo è
equivalente a quello fra sogno e coscienza, e come il sogno compensa
i conflitti della coscienza, così l'alchimia tende a colmare quelle
lacune che la tensione dei contrari presente nel cristianesimo ha
lasciato aperte».
Questa considerazione da parte dello psicanalista svizzero può
spiegare come l'alchimia abbia potuto interessare anche uomini di
Chiesa, infatti Francesco Colonna, barone di Palestrina e autore
dell'Hypnerotomachia
Poliphili,
è stato canonico secolare in San Giovanni in Laterano, protonotario
apostolico partecipante e canonico in San Pietro. Il Polifilo
chiaramente non è un trattato alchemico, ma solo «un
racconto allegorico che assume dall'alchimia filosofica alcuni luoghi
e riferimenti, assai più diffusi di quanto non si pensi».
Le teorie alchemiche concorrono a denotare l'antica sapienza, fatta
oggetto di culto da Polifilo e da lui personificata allegoricamente
nella figura di Polia. Per raggiungere tale sapienza vale il motto
festina
lente,
presente due volte nell'Hypnerotomachia
nella
variante semper
festina tarde
e vicino all'altro adagio greco del μηδὲν
ἄγαν
(equivalente del latino ne
quid nimis),
per indicare che tutto il bene sta nella giusta misura.
Festina
lente
Il
motto festina
lente
deriva dal greco σπεῦδε
βραδέως
ed è attribuito all'imperatore Augusto da Svetonio (De
vita Caesarum,
25), Aulo Gellio (Noctis
Atticae,
10, 11) e da Macrobio (Saturnalia,
6, 8, 9). Si tratta di un invito morale
e politico: la frase è basata sull'ossimoro che unisce i movimenti
opposti dell'affrettarsi e del muoversi con lentezza, una frase con
cui Augusto ammoniva i suoi generali affinché agissero allo stesso
tempo con tempestività e prudenza. L'immagine dell'ancora con
delfino si ritrova anche su delle monete imperiali in qualità di
signum in
onore a Nettuno: un aureo e un denario argenteo di Tito del 79-80
d.C., due denarî
argentei di Domiziano dell' 81 d.C.
Una prima allusione al legame tra il motto e l'emblema si trova in
una lettera di Aldo Manuzio ad Alberto III Pio da Carpi datata 14
ottobre 1499,
cioè due mesi prima della pubblicazione dell'Hypnerotomachia,
opera in cui per la prima volta l'emblema è chiaramente connesso al
motto. Infatti nel Polifilo
il
motto viene raffigurato da due geroglifici: nel primo vengono
accostati il circolo (che allude all'ouroboros,
simbolo dell'eterno scorrere del tempo), l'ancora (simbolo di
fermezza), il delfino (animale noto per la sua incredibile velocità),
da cui si ricava la frase semper
festina tarde (fig.
1); nel secondo una donna (nel testo incoronata da una serpe) è
seduta con la natica destra mentre la gamba sinistra è in atto di
alzarsi e, in opposizione significativa, tiene nella mano destra due
ali mentre nella mano sinistra una tartaruga, da cui la frase
velocitatem
sedendo, tarditatem tempera surgendo (fig.
2). Il motto in connessione con l'emblema viene trattato
negli Adagia di Erasmo
da Rotterdam pubblicati per la seconda volta a Venezia da Aldo
Manuzio nel 1508: secondo Erasmo la corrispondenza fra motto e
simbolo deriverebbe da un'antica “pictura” geroglifica
dell'egizio Cheremone, dove il delfino e l'ancora sono raffigurati in
un circolo. In realtà l'unione fra
l'adagio e l'emblema viene fatta per primo dal Colonna. Erasmo è
usato come fonte dall'Alciati nei suoi Emblemata,
opera edita ad Augusta nel 1531. Riportiamo qui l'emblema
XXI [1531, c. B2r; 1534, p.25] intitolato: Princeps
subditorum incolumitatem procurans (il
principe che ha cura dell'incolumità dei sudditi).
Titanij quoties conturbant
aequora fratres,
Tum miseros nautas anchora iacta iuvat.
Hanc pius erga homines delphin complectitur, imis
Tutius ut possit figier illa vadis.
Quan decet haec memores gestare insignia reges,
Anchora quod nautis, se populo esse suo.
(Tutte le volte che i fratelli Titani sconvolgono le onde marine,
allora gettare l'ancora aiuta gli sventurati naviganti.
Benevolo verso gli uomini il delfino l'avvince,
affinché possa essere fissata più sicura al fondale.
Ben conviene che i re portino questa insegna, memori
di
essere per il loro popolo ciò che l'ancora è per i naviganti).
Si
tratta di un invito al buongoverno del sovrano e alla tutela dei
sudditi. Nell'emblema ritornano i simboli dell'ancora e del delfino.
La
frase proverbiale σπεῦδε
βραδέως
è seguita da un verso greco che Erasmo pensava fosse un tetrametro
tratto da un dramma classico, è il verso 599 delle Fenicie
di Euripide. Al verso appartiene ςτρατελάτης
con cui Svetonio terminava la sua citazione, σπεῦδε
βραδέως
invece non vi appartiene.
Wind mette in relazione il concetto di festina
lente alla
matura
celeritas,
riporta come esempio una medaglia
di Altobello Averoldi, governatore di Bologna, con l'iscrizione
matura celeritas.
(National Gallery of Art, Washington, n. A1208-470A) inventata per
lui da Achille Bocchi e presente nelle Symbolicae
quaestiones come “consiglio a
un governatore”. Nella raffigurazione il filosofo si rivolge al
sovrano e tiene in mano uno sprone attaccato a una briglia mentre,
sullo sfondo, un saggio anziano ammonisce un giovane con cornucopia:
si tratta dell'iconografia del puer senex,
oppure paedogeron
(lemma usato da Calcagnini accompagnondolo alla spiegazione “id est
puer senex” nella sua traduzione del De Iside et Osiride
di Plutarco, pubblicata col titolo De rebus Aegyptiacis),
ossia il “giovane vegliardo”, uomo in cui si manifestano vitalità
e cautela simultaneamente. Secondo Wind la medaglia si ricollega a un
affresco del Palazzo ducale a Mantova, dipinto nello stile del
Mantegna: vi è raffigurato un giovane trattenuto da Virtù, stante
su base quadrata, che insegue Fortuna, poggiata su una base sferica,
rappresentata calva con un solo ciuffo di capelli lunghi mossi nella
direzione del giovane. Questa immagine, secondo Wind, rappresenta il
motto festina lente,
in quanto l'azione del giovane è impaziente e ferma al tempo stesso.
La
marca tipografica di Aldo Manuzio
L'emblema
dell'ancora con delfino sarà usata come marca tipografica da Aldo
Manuzio a partire dalla pubblicazione dei Poetae
Christiani
del 1502. Il motto, nella sua sua forma greca, appare per la prima
volta nella prefazione di Aldo alle opere di Poliziano (Opera varia,
in-folio)
pubblicati nel luglio del 1498. Manuzio lo cita nella lettera
dedicatoria a Marino Sanudo. La forma latina appare per la prima
volta nella lettera del 14 ottobre 1499 ad Alberto Pio da Carpi, la
seconda nella prefazione dedicatoria a gli Astronomici
veteres
(in-folio)
del giugno - novembre 1499.
Il prototipo appare nel Polifilo
in una configurazione orizzontale. La marca appare per la prima volta
nel folio [*]8v del secondo volume dei Poetae Christiani
Veteres, datato 1501 per il
testo e giugno 1502 per la lettera dedicatoria di Manuzio a Daniel
Clario,
e misura 55 x 48 mm. Questa prima versione, caratterizzata dal doppio
bordo, compare solo una volta a conclusione della prefazione che
introduce il Sedulius.
Nella seconda versione della marca il doppio bordo viene eliminato e
al suo posto vi sono una serie di puntini. Questa appare nell'agosto
1502 nella stampa di Dante e Sofocle.
Un ulteriore passo avviene tra settembre e febbraio, tra le date del
colophon dell'edizione
in-folio di Erodoto e
i due volumi in 8° di Euripide. La seconda variante della marca è
usata nel verso finale di Erodoto, ma nel titolo ne viene usata una
senza punti (rovinando però la punta destra dell'ancora), variante
che compare nel verso finale delle opere di Euripide, stampate nel
febbraio del 1503. La terza variante vera e propria è una nuova
incisione pulita che riprende la marca originale, appare nel novembre
del 1502 e diventerà lo standard. Questa nuova versione misura 53 x
47 mm e appare per la prima volta nel frontespizio del primo volume
delle Metamorfosi di
Ovidio del 1502-1503. Nell'ottobre 1512, data dell'edizione del
Lascaris, la marca appare senza AL // DUS nel frontespizio. Fletcher
individua fino a 9 varianti. L'ultima analizzata è quella degli anni
'30 del Cinquecento, al tempo di Paolo Manuzio, descritto come
«wide-eye
and culy haired»,
soppiantato nel decennio successivo da marche di stile
fondamentalmente diverso “«having
nothing to do with the austere grace of Aldus' preffered design. Much
more three-dimensional, they will evolve into devices of
late-Renaissance voluptuousness and baroque clutter».
L'emblema del delfino
e l'ancora viene ripreso da una moneta imperiale in possesso di
Pietro Bembo e da lui suggerita ad Aldo Manuzio, che l'aveva adottata
come sua personale insegna già nella dedica a Guidobaldo negli
Astronomica veteres (1499).
Il Polifilo non è
opera solo pagana, ma è il prodotto della sintesi tra dottrina
classica e rivelazione cristiana; la fede di Aldo era molto fervida e
la
figura dell'ancora con il delfino diviene la sua marca tipografica
nell'edizione dei Poetae
Christiani,
«interpretata autenticamente da Demetrio da Trivoli (correttore di
Aldo, poi domenicano di san Marco, monaco all'Athos e in Russia) come
insegna religiosa, è illuminante».
|
Fig. 3 – Marca tipografica di Aldo Manuzio il Vecchio. Festina lente http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/9a/Aldus-symbol.jpg
|
APPENDICE
Si
riportano in appendice i brani dell'Hypnerotomachia
Poliphili
in cui vengono descritti i bassorilievi relativi al motto festina
lente.
«La
apertione dunque per la quale fora uscivi di quelle abditissime
latebre alquanto era nella montagna alta tutta arbustata. Et quanto
che io poteva coniecturare. Fu al incontro dill’altra antedicta
fabricata, comprehendeva et similmente questa essere stata mirifica
operatura, postica et quella antica. Ma l’invida et aemula
antiquitate et di accesso arcta et per gli murali arbusculi maxime di
edera et d’altre frasche l’havea silveculata. Che apena illo
cerniva essere exito, overo hiato alcuno. Loco solamente di uscire,
ma non di regresso indicante suprema difficultate. Alhora ad me tanto
facillimo, perché io el mirava tutto circumcirca foltamente
infrondato et lavernato. Per la quale conditione, non si saperia
quasi ad essa remeare. Tra le fauce dilla vallecula, cum superextense
rupe, fusco assiduamente per gli concepti vapori. Onde quella luce
atra, maiore mi se praestoe, che a Delo il divino parto. Hora da
questa frondificata et obturata porta, per alquanta proclinatione
dilapso partitomi, perveni ad uno denso dumeto di Castane al pedi dil
monte, statione suspicando de Pana o Silvano, cum humecti pascui et
cum grata umbra, per sotto la quale cum piacere transeunte, trovai
uno marmoreo et vetustissimo ponte di uno assai grande, et alto arco.
Sopra dil quale dagli singuli lateri degli appodii era
percommodamente constructi sedili. Gli quali quantunque ad la mia
lassitudine che nel mio uscire opportuni se offerirono, niente di
manco alhora al mio excitato progresso grati niente gli aestimai. Nel
medio degli quali appodii alquanto superemineva a llibella dil
supremo dil cuneo dil subiecto arco uno Porphyritico quadrato, cum
uno egregio cimasio, di polito liniamento, uno da uno lato, et uno
pariforme dal altro ma di lapide Ophites. Nel dextro alla mia via,
vidi nobilissimi hieraglyphi aegyptici di tale expresso. Una
antiquaria galea cum uno capo di cane cristata. Uno nudo capo di bove
cum dui rami arborei infasciati alle corna di minute fronde, et una
vetusta lucerna. Gli quali hieraglyphi exclusi gli rami, che io non
sapea si d’abiete, o pino, o larice, o iunipero, o di simiglianti
si fusseron, cusì io li interpretai. PATIENTIA EST ORNAMENTUM
CUSTODIA ET PROTECTIO VITAE.
Da
l’altra parte tale elegante scalptura mirai. Uno circulo. Una
ancora sopra la stangula dilla quale se rovolvea uno delphino. Et
questi optimamenti cusì io li interpretai. ΑΕΙ ΣΠΕΥ∆Ε
ΒΡΑ∆ΕΩΣ. Semper festina tarde».
COLONNA
F. 2004, pp. 68 – 69.
L'apertura,
attraverso la quale uscii fuori da quei luoghi profondamente nascosti
e segreti, stava abbastanza in alto sulla montagna ed era ricoperta
da alberi e, da quanto potevo presumere, compresi che stava in
corrispondenza dell'altra suddetta porta: la porta posteriore,
similmente a quella anteriore, era un'opera mirabile. Ma il tempo
antico, invidioso e geloso, l'aveva coperta di selva con rampicanti,
specialmente edere e altre frasche, rendendola un'entrata stretta, un
po' una fenditura. Il luogo, però, era fatto solamente per uscirne e
non per ritornarvi e mostrava supreme difficoltà. In quel momento mi
sembrò facilissimo, perché
l'osservai da fuori nella sua interezza tutto ricoperto dalla
vegetazione. E per tale condizione era come se non si potesse tornare
indietro. L'imboccatura stretta della valletta, con rupi molto
estese, era assiduamente buia per l'ammasso di vapori. Per cui quella
luce mi si presento più scura che a Delo al tempo del parto divino.
Ora
da questa porta ostruita dalle molte fronde, partii come disperso
verso una discreta pendenza, pervenni a una densa macchia di castagni
ai piedi del monte, supponendo fosse la dimora di Pan o Silvano, con
umido prato e gradita ombra, ove stetti con piacere fugace e trovai
un antichissimo ponte di marmo con un solo arco assai grande e alto.
Sopra il quale sui singoli lati
erano
costruite delle mensole, sedili disposti in modo molto conveniente. I
quali, sebbene si fossero offerti all'uscita e opportuni alla mia
stanchezza, li stimai per nulla graditi, perché si presentarono
proprio nel momento di maggiore progresso. A metà di questi,
all'altezza della chiave dell'arco sottostante, si distinguevano
notevolmente un quadrato in porfido da un lato, con un'egregia cimasa
di raffinato disegno, e uno in ofite dall'altro, della stessa
dimensione. Alla mia destra, vidi dei nobilissimi geroglifici egizi
con il seguente rilievo: un elmo con una cresta canina, un bucranio
con due rami d'albero fasciati alle corna, con poca fronda, e
un'antica lucerna. Esclusi i rami, di cui non sapevo se fossero
d'abete o pino, larice o ginepro o di simili, interpretai questi
geroglifici in tal modo: LA PAZIENZA È
ORNAMENTO, CUSTODIA E PROTEZIONE DELLA VITA. Dall'altra parte guardai
la seguente scultura: un cerchio, un'ancora sul fusto della quale si
arrotolava un delfino e questi ottimamente li interpretai: AFFRETTATI
SEMPRE LENTAMENTE.
«Et
cusì cum honesti et approbatissimi parlamenti, festivissimamente ad
uno lepidissimo fiume pervenissimo. Sopra le rive del quale, vidi uno
gratioso Plataneto, oltra gli altri verdissimi arbusculi, et aquatici
germini optimamente dispositi, et situati, cum intercalate lothi. Ove
traiectava uno lapideo et superbo ponte di tre archi, cum gli capiti
alle ripe sopra gli firmatissimi subici, cum le pille dagli dui
fronti carinate, ad continere la structura firmissima, et cum
nobilissime sponde. In le quale nel mediano repando del substituto
cuneo del arco, de qui et de lì, perpolitamente, excitata promineva
una porphyritica quadratura fastigiata, continente una cataglyphia
scalptura di hieraglyphi. Nella dextra al nostro transito, vidi una
matrona d’uno serpente instrophiolata, solum cum una nate sedente,
et cum l’altra gamba in acto de levarse, cum la mano dilla sua
sessione, uno paro di ale, et nel altro del levarse una testudine
teniva. Obvio era uno circulo, il centro dil quale dui spirituli
tenendo, cum gli pectioli terga vertendo alla circunferentia.
Logistica etiam quivi me dixe. Poliphile, questi hieraglyphi io so
che tu non l’intendi. Ma fano molto al proposito, a cui tende alle
tre porte. Et però in monumento delli transeunti opportunissime sono
collocati. El circulo dice. Medium tenuere beati. L’altro.
Velocitatem sedendo, tarditatem tempera surgendo. Hora nella mente
tua discussamente rumina. El quale ponte poscia era cum moderato
prono, dimostrante la solerte disquisitione, et l’arte et lo
ingegno del perspicacissimo artifice et inventore, collaudava in esso
la aeterna soliditate, la quale non è cognita dagli caecucienti
moderni, et pseudoarchitecti, sencia litteratura, mensura et arte,
fucando, et di picture, et di liniamenti operiendo exta per omni modo
il fabricato inconcinno et difforme. Il quale era tuto di marmoro
Hymetio venustissimo».
COLONNA F. 2004, pp. 133-134.
E
così con discorsi onesti e molto onorevoli, arrivammo festosamente a
un fiume molto grazioso. Sulle sue rive vidi un grazioso bosco di
platani, oltre ad altri alberelli verdissimi e a germogli acquatici
ottimamente disposti fra i loti. Lo attraversava un magnifico ponte
di pietra a tre archi, il quale aveva alle estremità sulle rive
solidissimi sostegni e i pilastri carenati su entrambe le parti per
mantenere fermissima la struttura, aveva inoltre una raffinata
balaustra. Su tale balaustra all'altezza del punto mediano, sopra la
chiave d'arco, su entrambi i lati, sporgeva vivacemente e in maniera
elegante un pannello quadrato in porfido con timpano, contenente
geroglifici incisi. Alla nostra destra vidi una dama incoronata con
un serpente, seduta su una sola natica e nell'atto di alzarsi con
l'altra gamba, nella mano corrispondente alla parte seduta teneva un
paio d'ali, nell'altra teneva una testiuggine. Di fronte vi era un
cerchio tenuto al centro da due spiritelli, con piccoli petti e le
spalle rivolte verso la circonferenza. Logistica mi disse ancora:
“Polifilo, io so che tu non capisci questi geroglifici. Ma fanno a
proposito di chi va verso le tre porte e sono opportunamente
collocati come ricordo ai passanti. Il cerchio dice: BEATI QUELLI CHE
HANNO SEGUITO LA VIA DI MEZZO; l'altro MODERA SEDENDO LA VELOCITÀ,
ALZANDOTI LA LENTEZZA. Ora ripensaci ed esaminalo nella tua mente”.
Poi il ponte aveva una moderata inclinazione, che dimostrava la
solerte disquisizione, l'arte e l'ingegno dell'artefice, inventore
molto perspicace. Saggiava in esso la solidità eterna, la quale non
è conosciuta dai moderni ciechi e pseudoarchitetti, illetterati,
senza misura e arte, che imbellettano di pitture e coprono in ogni
modo di ornamenti la costruzione sproporzionata e difforme. Questo
invece era tutto di marmo Imezio bellissimo.
NOTE
BIBLIOGRAFIA
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Giorgio
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a cura di Mino GABRIELE, Adelphi, Milano, 2009.
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Architetto. Cultura architettonica e teoria artistica
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L'elefante con
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a cura di Alessandro ZUCCARI e Stefania MACIOCE, Roma, Logart Press,
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CECCARELLI PELLEGRINO1992
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CECCARELLI PELLEGRINO, Du
Bellay e il Polifilo: lettura pluriisotopica del Songe,
in “Studi di letteratura francese”, Milano, 1992, pp. 65-95
COLONNA
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Vedi nel BTA:
LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI
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