Il
passo che segue è tratto dall’opera, complessa ed anonima,
“Hypnerotomachia Poliphili” in cui il protagonista Polifilo, nel
suo “sogno sognato”, incontra l’elefante
obeliscoforo, ritratto
nella xilografia (Fig.1) inclusa nell’opera stessa e che
costituisce l’oggetto di questo lavoro.
Elefante Obeliscoforo, xilografia n. 12
dell'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499.
|
Ove
etiam, non troppo distante dal magno
caballo, ad libella se offeritte uno maximo Elephante di
nigricante petra, più che
Obsidio, scintillata d’oro, et mice argentee copiosamente quale
pulvisculo disperse, et per la petra micante.
La
contumace duritudine dilla quale, apertamente indicava il suo
chiaro lustro. Imperoché in essa omni obiecto representantissi
proprio il remitteva in quella parte, excepto, ove il metallo
havea diffuso il suo verdaceo erugine. Et questo congruamente,
perché nella summitate dil suo amplissimo dorso, havea uno
meraveglioso Ephippio Aeneo, cum due stringente Cingule circumacte
al monstroso corpulento. Tra le quale pergrande ligature cum
fibule necte dilla medesima petra, si ritinia uno quadrangulo
correspondente alla crassitudine di lo Obelisco di supernate
collocato.
Diciò
che niuno perpendicolo di pondo, non debi sotto sé havere aire
overamente vacuo.
Perché
essendo intervacuo, non è solido, né durabile.
La
quale parte quadrangulare per ciascuna dille tre facie di
charactere aegyptio bellamente era liniata.
Dunque
questo dorsuario monstro, non sencia miraveglia
diligentissimamente expresso, et exacto, quanto meglio per regula
artificiosamente fingere et statuare si potesse.
Et
nella sopra dicta sella di molti sigilli, et bulle, et historiette
et fictione probatamente ornata, firmatissimamente fundato uno
Obelisco di petra lacedaemonia verdegiante sustentava.
Di
llatitudine nelle aequate facie, quanto lo imo diametro d’uno
passo, et multiplicata al septeno numero, tanto era fino alla
aculeata summitade graciliscentisse.
Nel
fastigio dunque dil quale infixo promineva uno
rotondissimo Trigone, et di materia perspicua et perlucida.
Stava
dunque compositamente questa grandissima fera, cusì nobilmente
figmentata sopra la aequata piana de uno vasto basamento
di durissimo Porphyro, perpolitamente liniato.
Cum
dui exerti et grandi denti di una petra candidissima et illustre
appositi et appacti.
Et
dalla aenea sella infibulato pendeva uno egregio pectorale, di
vario ornamento dilla materia dilla sella, in medio dil quale era
in latino idioma scripto. Cerebrum est in capite.
Et
similmente circunducta per lo extremo del collo, alla grande testa
coniuncto, ambiva una maestrevole
ligatura. Dalla quale uno ambitioso ornato, summamente notabile di
eramento traiectato per sopra il suo amplissimo fronte pendeva, di
dui quadrati composito, cum liniamenti elegante.
Nella
planitie dil quale (di foliatura undiculare circundata)
vidi alcune littere Ionice, et Arabe, le quale cusì dicevano:
ΓΟΝΟΣ ΚΑΙ ΕΥΦΥΙΑ.
Hora
el suo vorace proboscide, non si continiva cum il piano dil
basamento, ma sublevato,
pensile si stava, converso alquanto verso il fronte cum le sulcate
auricule largissime
demisse, overo cancellate.
Il
quale simulachro nella sua vastitate unquantulo meno monstrava,
che il naturale.
Et
nella oblonga circuitione dil basamento erano coelati hieraglyphi,
overo characteri aegyptici. Depolito decentemente cum il debito
Areobato, cum il latastro, gula, thoro, et orbiculo, cum sui
Astragali, overo nextruli, cum inversa Sima al pedamento.
Et
di sopra non meno cum la proiecta Sima resupina, et torque
trochili et denticuli cum gli Astragali.
Secondo
che alla crassitudine expediva eximie Symmetriati.
La
longitudine, latitudine, et altecia, passi, duodeci, cinque, et
tre.
Le
extremitate dil quale in forma hemicycla formate.
Nella
posteriora parte hemicycla dil recensito basamento, trovai uno
scalinato ascenso di sette gradi exscalpato scansile sopra la
plana superficie. Per la quale avido di novitate io montai.
Et
verso al riservato quadrangulo, subiecto al perpendicolo dil
Ephippio, vidi una porticula excavata. Cosa di magna admiratione,
in tanta pugnacitate
di materia, et tanto habile intervacuo se praestava, che per
alcuni stipiti di
metallo al modo scalario infixi, per gli quali commodo ascenso, se
concedeva ad intrare nella Elephantina machina exviscerata.
|
|
Ove
anche, non troppo distante dal grande cavallo, si offriva al
livello della vista un grandissimo Elefante di pietra nereggiante,
più dell’ossidiana, scintillante d’oro, e briciole argentee
copiosamente disperse quale pulviscolo, e per la pietra rilucenti.
L’ostinata
durezza della quale, apertamente mostrava la sua limpida
lucentezza.
Poiché
in essa ogni oggetto che si presentava veniva in quella parte
riflesso, eccetto, là dove il metallo aveva diffuso la sua
verdastra ruggine.
E
questo coerentemente, perché sopra al suo ampissimo dorso aveva
una meravigliosa sella Aenea [dal latino aeneus: "bronzea"], con due cinghie avvolte intorno al
corpo mastodontico.
Tra
le quali per mezzo di una grande stringa con borchie della stessa
pietra, era fermata una base quadrangolare corrispondente alla
grandezza dell’obelisco collocato superiormente.
Ciò
perché nessun peso a perpendicolo, deve avere sotto di sé uno
spazio completamente vuoto.
Perché
se vuoto nel mezzo, non è né solido, né durevole.
La
quale base quadrangolare per ciascuna delle tre facce era
bellamente istoriata con caratteri egizi.
Dunque
questo dorso prodigioso, non senza meraviglia molto
diligentemente riprodotto, con esattezza, era quanto di meglio si
potesse artificialmente copiare e scolpire a regola d’arte.
E
la sopra detta sella, di molti sigilli, e borchie, e storie e
finzioni debitamente ornata, sosteneva un obelisco di pietra
lacedemone verdeggiante molto fermamente fissato.
Di
larghezza le eguali facce, erano quanto il piccolo diametro di un
passo, che moltiplicata per il numero sette dava quanto era fino
all’acuminata sottilissima sommità.
Nella
fastosità dunque del quale si alzava infisso un rotondissimo
trigone [da trigon: palla da gioco] di materia trasparente e translucida.
Stava
dunque compostamente questa grandissima fiera, così nobilmente
fissata sopra il piano liscio di un vasto basamento di durissimo
Porfido, lucidamente istoriato.
Con
due prominenti e grandi denti, apposti ed appaiati, di una pietra
bianchissima e luminosa.
E
dalla sella Aenea pendeva infilato un magnifico pettorale,
variamente ornato del materiale della sella, nel mezzo del quale
era scritto nella lingua latina: “Cerebrum est in capite”.
E
similmente girata intorno all’estremo del collo, congiunto alla
grande testa, cingeva una magistrale allacciatura. Dalla quale
gettato sopra la sua amplissima fronte pendeva un ambizioso
ricamo, sommamente notevole, composto di due quadrati, con
eleganti contorni istoriati.
Nel
centro del quale (circondato da una ondeggiante decoro di foglie)
vidi alcune lettere Ioniche ed Arabe, le quali così dicevano:
fatica e operosità.
Ora
la sua vorace proboscide non si congiungeva con il piano del
basamento, ma sollevata, stava pensile, rivolta alquanto verso la
fronte con le grinzose larghissime orecchie abbassate, ovvero a
guisa di grata.
Il
qual simulacro nella sua grandezza era qualcosa meno che al
naturale.
E
nella oblunga circonferenza del basamento erano celati
geroglifici, ovvero caratteri egizi.
Decorosamente
levigato ai suoi piedi con il dovuto zoccolo, con il plinto, la
modanatura curvilinea, il toro, e l’orbicolo, ovvero delle
cordicelle, con opposta cimasa alla base.
E
non di meno sopra con la cimasa resupina e aggettante e con una
modanatura ritorta a dentelli in basso.
A
seconda dello spessore si sviluppavano meravigliosamente
simmetrici.
La
lunghezza, la larghezza e l’altezza di dodici, cinque e tre
passi.
Le
estremità del quale erano a forma di emiciclo.
Nella
parte dell’emiciclo posteriore del basamento passato in
rassegna, trovai una scalinata ascendente di sette gradini
scolpiti, facili da salire fino alla superficie piana. Per la
quale io salii avido di novità.
E
in direzione del quadrangolo isolato, sottostante
perpendicolarmente alla sella, vidi scavata una porticina. Cosa di
grande ammirazione, in una materia tanto dura, un tanto
appropriato vano essere ricavato, poiché attraverso alcune sbarre
di metallo infisse a mo’ di scala, con comoda salita, si poteva
entrare nella pancia eviscerata dell’Elefante.
|
Al
momento dell’incontro con l’elefante obeliscoforo ci troviamo
davanti a quel «praelibato
aedificio»
che si rivelerà essere la dimora della Fortuna, verso cui Polifilo
si era rivolto dopo lunghe peregrinazioni nella selva descritte
all’inizio del racconto. Questa «grande
fabrica
di struttura
antiquaria»
rammenta, seppur nei contorni incerti, tipici dello stato onirico, il
santuario situato a Palestrina dedicato alla Fortuna Primigenia. Ciò
non stupisce se si segue la tesi, ormai nota, dello studioso Maurizio
Calvesi che riconosce quale autore dell'Hypnerotomachia Francesco
Colonna, romano signore di Preneste.
Innanzi
al Tempio della Fortuna, c’è una «platea
tetragona»
lastricata a «quadrature
marmoree»
dove si trovano: un cavallo, un colosso e l'elefante obeliscoforo
ritratto nella xilografia.
Il
significato simbolico dell’elefante si contrappone a quello del
cavallo in quanto si tratta delle personificazioni rispettivamente
della Fortuna e della Sapienza. Queste due entità sono le vere
protagoniste celate dietro le complesse vicende dell'Hypnerotomachia.
Infatti, anche la ricerca ossessiva da parte del protagonista
dell'amata Polia, filo conduttore dell’opera, si rivela essere
nient'altro che l'allegoria della ricerca spasmodica dell'amore per
la Sapienza, continuamente ostacolato dagli alterni influssi della
Fortuna che ora sorride a Polifilo e ora gli volta le spalle.
Secondo
il Colonna Fortuna e Sapienza rappresentano i due cammini opposti
davanti ai quali ognuno si trova a fare una scelta. Come sovente
accade ad un bivio, tra le due c'è una strada più semplice, quella
della Fortuna, e una più impervia, quella della Sapienza. Ma, come
in tante storie, si tratta solamente di una prima impressione.
Infatti, Polifilo ci mette in guardia dallo scegliere quello che solo
apparentemente potrebbe sembrarci il cammino più facile: affidarsi
alla Fortuna potrebbe rivelarsi fatale. Questo perché la Fortuna
gira, non dura mai a lungo ed è molto difficile da afferrare. Al
contrario, l’impervio cammino verso la Sapienza, costellato di
fatica
et industria,
assicura infine un guadagno stabile.
Per
sottolineare il carattere instabile della Fortuna il Colonna ce la
descrive, appunto, come una statua girevole che si erge sopra una
sfera (contrapposta alla stabilità del cubo su cui poggia invece
l’elefante), situata sopra l'obelisco che corona la struttura
piramidale del tempio. È quasi completamente calva, se non per un
ciuffo di capelli sulla fronte, da afferrare al momento giusto.
Questa è l’iconografia correntemente utilizzata, non solo
all’interno del racconto, per rappresentare la Fortuna. Al
contrario, nel doppio sogno di Polifilo la Fortuna ricorre, e sarà
raffigurata, anche con altre iconografie ,
originali, sebbene ispirate all'antico pensiero secondo cui ella ha
sempre due facce, una ridibonda
e l'altra lachrymosa.
Calvesi sottolinea come quello delle due fortune sia «un tema caro
agli umanisti e copiosamente attestato nella tradizione, dai classici
al Petrarca »
riportando, in particolare, le Praenestinae
sorores
di Stazio attraverso le parole di Alessandro Alessandri citate dal
Cartari: «Per
la qual cosa due erano credute le Fortune, una buona l'altra ria, da
quella venivano i beni, e le felicità, e da questa le disavventure
tutte, e gli altri mali. »
Alla
Fortuna si contrappone la Sapienza come affermano già Orazio,
Seneca, e Plutarco nel De
Fortuna Romanorum:
virtù e fortuna «multa et magna certamina sustituerunt ».
La Sapienza non ha, al contrario, un’immagine iconografica
canonica: già Cesare Ripa distingue diversi tipi di rappresentazione
a seconda che ci si voglia riferire alla sapienza umana o a quella
divina.
Il
tema dell’opposizione tra Fortuna e Sapienza si trovava già nella
Tabula
Cebetis,
tradotta dal greco alla fine del Quattrocento, che il Colonna, come
afferma Calvesi, doveva certamente conoscere. Verrà successivamente
ripreso nell’illustrazione del 1501 del Liber
de sapiente
di Charles de Bovelles del 1501: una di fronte all’altra, Fortuna e
Sapienza siedono, rispettivamente, e ancora una volta, su una sfera e
su un cubo (Cfr. COLONNA S. 2012).
Eccoci
arrivati, dunque, all'immagine da cui siamo partiti: lo scontro di
Fortuna e Sapienza rappresentate dal cavallo e dall'elefante che si
sfidano, quasi come in una singolare partita a scacchi, sulla «platea
tetragona»
lastricata a «quadrature
marmoree».
A fronteggiare la Sapienza, quindi, il signore di Palestrina pone la
faccia cattiva della Fortuna. Forse per suggerirci, fin dall’inizio,
chi sarà l'indiscussa vincitrice di questa eterna sfida. La mala
Fortuna ha infatti le sembianze dell’equus
infoelicitatis (Fig.
2), ovvero quelle di un prodigioso
caballo
che porta in groppa diversi fanciulli che invano tentano di
cavalcarlo: «Niuno
di essi fermo sopraretinerse valeva, per la sua soluta velocitate, et
dura succussatura. Diqué alcuni cadevano, quali stavano
praecipitabondi. Alcuni supini, et tali resupinati, et altri innixi
ascendevano, tali involtati (rapiti nelle stringente mane) li longi
crini vanamente tenivansi.»
L'immagine che ne risulta è quella di un cavallo incavalcabile che
ben incarna il senso di precarietà ed instabilità che
caratterizza la dea Fortuna.
|
Fig. 2 Equus Infoelicitatis, xilografia n. 6
dell'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499
|
«Non
troppo distante dal magno caballo, ad libella se offeritte uno maximo
Elephante di nigricante petra»:
si tratta del nostro elefante obeliscoforo.
Fin
dall’antichità l’elefante rappresenta la Sapienza a causa della
straordinaria longevità che caratterizza questo animale. Gli si
attribuisce grande memoria e saggezza, è dotato di straordinaria
forza fisica, di prudenza, di religiosità e, secondo Plinio, di
sensibilità all'amore. Cecco d'Ascoli nel poema allegorico didattico
L'Acerba,
dove ritroviamo, nello stesso schema del Polifilo, una donna
angelica, probabilmente simbolo della Sapienza al pari dell'amata
Polia, affermava: «Sopra
onne animal che non ha intellecto, ha più de conoscenza l'elefante
che, quasi per rason, fa onne effecto ».
Nella
cultura cristiana l'elefante è considerato simbolo di castità ed
incarnazione della Legge di Dio, dei profeti e anche del Cristo ,
secondo quanto riporta il Physiologus .
Tuttavia, nell’Hypnerotomachia il compito di rappresentare la
Sapienza non è affidato solo all’elefante, ma anche all’obelisco
col quale forma un tutt’uno. L’obelisco indica la sapienza
egizia, una cultura pagana ma considerata illuminata. Questa
tradizione risale al Rinascimento ed è dovuta all’attribuzione del
significato di “vita futura” ad uno dei geroglifici che, avendo
la forma di una T, sembrava prefigurare la Santa Croce: gli egiziani
avrebbero dunque ricevuto, preventivamente, l’annuncio della venuta
di Cristo e, per questo, erano considerati portatori di una sapienza
divina. L'unione dell'elefante e dell'obelisco starebbe quindi a
rappresentare l’incarnazione di due anime, sacra e profana, in una
stessa entità, un tema ricorrente
e che emerge anche in altri punti del Sogno.
Ad
analizzare l'immagine della xilografia, essa risulta semplice e
stilizzata, sia se messa a paragone con le altre presenti nel poema
allegorico, sia in ragione della complessità del discorso che vi
ruota attorno.
La
stessa nigredine
dell'elefante non viene restituita dall'immagine, anche se risulta
esserne elemento caratterizzante niente affatto secondario. La
nerezza dell'elefante permette un'interpretazione in linea con la
cultura alchemica del Colonna, come si vedrà più avanti, e,
inoltre, potrebbe essere anche un simbolo delle virtù del
protagonista. Già Calvesi sostiene che l’elefante sarebbe un
«autoritratto cifrato di Francesco Colonna »,
inoltre diverse fonti dell'araldica ,
sebbene più tarde rispetto all'Hypnerotomachia, ci danno ulteriori
indizi in tal senso. L'Araldo Veneto riporta che: «L'elefante nero
in Campo d'oro rappresenta Religioso stabilito su la base della
Lealtà. L'elefante nero in Campo d'Argento significa Cavalier
giusto, che tiene sempre la volontà ristretta nei limiti della
clemenza.» Proprio l'equilibrio e la rettitudine sono
effettivamente virtù che hanno caratterizzato la vita e le scelte
del nostro Francesco Colonna: che sia allora per questo che
l'elefante viene descritto non solo nero, ma scintillante di
pulviscoli d'oro e d'argento ?
Nella
xilografia anche il percorso che Polifilo intraprende all'interno
dell'elefante viene soltanto accennato con un'apertura ritratta sul
basamento. Spetterà poi alle due successive immagini del libro
ritrarre i sarcofagi con il re e la regina che il protagonista
incontrerà all’interno dell’elefante. Nelle sue viscere si
celano, infatti, due sepolcri sormontati da due statue di regnanti
che recano dei messaggi scritti in tre lingue: ebraico, greco e
latino .
Il re sorregge uno scudo con il motto: «Sarei nudo, se non mi
coprisse la bestia. Cerca e troverai. Lasciami»; mentre la regina
tiene una tavoletta con su scritto: «Chiunque tu sia, prendi quanto
ti piaccia di questo tesoro. Ma attenzione: portati via la testa non
toccare il corpo». Calvesi, ne Il
sogno di Polifilo Prenestino legge
l'incontro con il re e la regina come uno dei luoghi del racconto
dove si fa riferimento all'alchimia ovvero «quell'antichissima
Sapienza che è il culto di Polifilo e che risulta essere, sul
versante allegorico, Polia stessa» .
Re e regina sono le figure archetipe dell'alchimia nella condizione
iniziale dell'opus, cioè in stato di nigredo, come l'elefante; si
trovano nel suo ventre perché sono arcani che vanno occultati e
protetti. «Di qui risulta anche il senso della prima scritta:
l'arcano non va svelato; se l'elefante (cioè la mente sapiente) non
lo coprisse, l'arcano sarebbe messo a nudo. La seconda scritta allude
invece ai tesori dell'alchimia (e più in generale della Sapienza)
che sono esclusivamente spirituali e non materiali: riguardano cioè
la testa e non il corpo ».
La Sapienza allora, benché vada cercata a lungo, una volta che si
conquista serve a “vestirci” e a caratterizzarci come individui.
Non deve scoraggiare lo stato di nerezza iniziale che la prospettiva
del lungo cammino da percorrere necessariamente comporta, perché la
presenza del re e della regina sono promessa della luce e dell'unione
future: sono un riferimento alla coniunctio
oppositorum,
ovvero l'unione degli opposti, tramite la quale si supera la nigredo.
Per
tornare all'analisi stilistica della xilografia, si può affermare
che quasi certamente l'immagine dell'elefante obeliscoforo sia una
creazione del Colonna.
Infatti,
gli elefanti sono ritratti generalmente, ad esempio nei bestiari
medievali, sormontati da una torre perché: «questa specie di
animale è adatta alle imprese belliche »
e «Persiani e Indiani, collocate sul loro dorso torri di legno,
combattevano da lì con i giavellotti come da un bastione ».
Anche
lo straordinario esempio in pietra (Fig. 3) presente nel Sacro Bosco
di Bomarzo segue questa iconografia tradizionale sebbene, com'è
noto, la costruzione del bosco sia stata influenzata dalle
suggestioni del sogno di Polifilo .
L'elefante con la torre è anche il simbolo del prestigioso Ordine
dell'Elefante danese, istituito nel 1478, abbastanza vicino quindi
agli anni del Polifilo, da Cristiano I che «essendo in Roma domandò
a Papa Sisto IV la licenza di potere istituire quest'ordine ad onore
della Passione del nostro Signore Gesù Cristo, e che i Re di
Danimarca ne fossero sempre i capi ».
Il simbolo, che contraddistingueva le personalità appartenenti
all'Ordine dell'Elefante, è proprio un collare
che, sebbene esistente in molteplici varianti, generalmente risulta
formato da «una catena d'oro, da cui pende sul petto un elefante
d'oro smaltato di bianco avente sul dorso un castello d'argento con
linee di colore nero; e quest'elefante è posto sopra una prominenza
verde smaltata di fiori ».
Un esempio in oro, smalto, diamanti e perle della collana dell'Ordine
si conserva nella stanza del tesoro del castello di Rosemborg a
Copenaghen (Fig. 4).
|
Fig. 4 - Simboli dell'Ordine dell'Elefante, Stanza del tesoro del castello di Rosenborg, Copenaghen. In alto a sinistra la più antica effigie dell'Ordine conosciuta con il motto e il monogramma di Frederick II (1534 - 1588), re di Danimarca e Normandia dal 1559, realizzata nel 1580 da Hans Raadt, probabilmente su disegno di Melchior Lorck. In basso a destra un'altra miniatura dell'Ordine dell'Elefante usata da Christian IV (1577 - 1648) successore di Frederick II, databile tra il 1633 e il 1634. Foto cortesia di Irene Alfuso.
|
Molto presente nella tradizione danese,
l'elefante diventerà anche il sostegno ed il simbolo della fabbrica
dei famosi coniugi Carlsberg: collezionisti d'arte e produttori
dell'omonima birra. Qui due mastodontici elefanti che giocano con una
palla sorreggono, ancora oggi, l'edificio della fabbrica, seguendo
l'iconografia degli elefanti turriti (Fig. 5).
|
Fig. 5 - Ponte degli elefanti, 1901. Fabbrica Carlsberg, Gamle Carlsberg Vej 11, Copenaghen. Foto cortesia Irene Alfuso.
|
Ben
presto l'originalità iconografica della xilografia del Polifilo
contagerà numerosi artisti: dal Bernini, passando per Salvator Dalì,
per giungere al contemporaneo Pablo Echaurren.
Il
più noto esempio è quello del Bernini (Fig. 6):
|
Fig. 6 - ERCOLE FERRATA su disegno di GIAN LORENZO BERNINI, Obelisco della Minerva, 1667, Piazza Santa Maria della Minerva, Roma. Foto cortesia Irene Alfuso.
|
si tratta di una
vera e propria trasposizione in marmo di quella che è la xilografia.
Da quest’ultima la scultura differisce solo per il posizionamento
della proboscide. L’opera, conosciuta come “pulcin della
Minerva ”,
si trova in Piazza di Santa Maria Sopra la Minerva a Roma. Questo
luogo è stato per anni cava di reperti egizi, tra cui molti degli
obelischi della città eterna ,
ed ospita l'elefante obeliscoforo
a partire dal pontificato di Alessandro VII Chigi. L'obelisco venne
scoperto nel 1665 dai frati domenicani, durante i lavori di scavo per
la costruzione delle fondamenta di un nuovo muro attorno ai giardini
della loro chiesa, e fu collocato sul dorso dell'elefante marmoreo,
scolpito da Ercole Ferrata, solo dopo una lunga gestazione che vide
il Bernini quale autore dei progetti per la scultura. L'artista aveva
pensato a una soluzione compositiva più audace che prevedeva un
Ercole che sosteneva in bilico, con le proprie braccia, l'oscillante
monolito. Scartata questa idea, egli ripiega su un suo precedente
progetto realizzato per erigere una guglia nel giardino segreto di
palazzo Barberini. D'Onofrio riporta che «a Windsor si conserva un
bel disegno del Bernini nel quale un piccolo elefante volto con la
testa alla sua sinistra fa da sostegno ad un obelisco, sulla cui
vetta le api (emblema dei Barberini) potrebbero accennare ad un
progetto del tempo di Urbano VIII (1623-1644). A questo disegno è
strettamente connesso un bozzetto in terracotta, già in palazzo
Barberini ed ora a Firenze nella collezione Corsini, raffigurante un
elefante volto a destra, sovrastato anche esso da un obelisco ».
Secondo Calvesi, la ripresa dell'illustrazione dell'Hypnerotomachia
nel disegno del Bernini si deve proprio all'influsso di questo primo
committente: il cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII.
Il cardinal Francesco, conoscitore di archeologia, si appassionò
alle antichità prenestine perché il feudo di Palestrina divenne
proprietà Barberini dal 1630. Molto probabilmente egli era dunque a
conoscenza dell'autentico significato allegorico che si celava
nell'elefante obeliscoforo dell'Hypnerotomachia.
Secondo
Anna Maria Partini, invece, lo stesso Alessandro VII avrebbe potuto
suggerire l'iconografia dell'elefante in quanto: «nel Fondo Chigi
tra gli stampati c'è una copia dell’Hypnerotomachia attentamente
postillata dal papa ad ogni pagina, cosa che dimostra il suo
interesse per l'argomento, testo che ancora oggi possiamo consultare
alla Biblioteca Apostolica Vaticana tra gli incunamboli chigiani (ms.
chigiano II-610) ».
È comunque certo che sia stato il pontefice stesso a dettare la
scritta alla base dell'elefante: «Sapientis
Aegypti insculptas obelisco figuras ab elephanto belluarum fortissima
gestari quisquis hic vides. Documentum intellige robustae mentis esse
solidam sapientiam sustinere».
Cioè una solida Sapienza, simbolizzata dall'obelisco con i
geroglifici, dev'essere sostenuta da una mente valida e robusta,
impersonata dall’elefante.
Quale
che sia stata la paternità del riferimento alla xilografia del
Polifilo così si spiega la pesantezza del progetto berniniano:
infatti, per seguire l'assunto secondo cui «niuno
perpendicolo di pondo, non debi sotto sé havere aire overamente
vacuo. Perché essendo intervacuo, non è solido, né durabile»,
l'artista inserisce un cubo tra le zampe dell'animale pregiudicandone
in, tal modo, la grazia.
Un'altra
trasposizione in pietra della xilografia è la Fontana con
l'Elefante, detta “u Liotru” (Fig. 7), a Catania.
|
Fig. 7 - GIOVAN BATTISTA VACCARINI, "U Lioutru", 1735, Piazza Duomo, Catania.
|
Il progetto di
messa in posa di un obelisco sul dorso di un elefante di pietra
lavica, di cui non si conoscono con certezza le origini, sulla base
marmorea della fontana in Piazza Duomo è del 1735. Fu realizzato
dall'architetto Gianbattista Vaccarini che, secondo l'opinione
comune, si sarebbe ispirato al precedente berniniano a Roma. C'è la
possibilità, però, che il Vaccarini abbia usufruito direttamente
della fonte del Polifilo perché inserisce nella composizione la
palla a sormontare l'obelisco, particolare assente in Piazza della
Minerva a Roma .
Facendo
un salto nel Novecento, un artista che ha riprodotto più volte,
deformandola, la figura dell'elefante obeliscoforo è il surrealista
Salvador Dalì. L'elefante è un tema ricorrente nella sua opera:
appare per la prima volta nel 1937 in Cigni
che riflettono elefanti; successivamente
nel mondo surreale di Sogno
causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima
del risveglio del
1944 e nella Tentazione
di Sant'Antonio
del 1946. In
Les elephants, del
1948, gli elefanti sono i protagonisti assoluti del dipinto, così
come delle sculture che popolano il giardino della Casa-Museo di Gala
Dalì a Pùbol in provincia di Girona. Fra tutti questi pachidermi
se ne trovano sormontati da obelischi solamente nel Sogno
e nella Tentazione.
In particolare in La
tentazione di sant'Antonio (Fig. 8),
conservata a Bruxelles nel Musées Royaux, la processione di elefanti
dalle lunghissime zampe, due dei quali sormontati da un obelisco, è
preceduta da un cavallo imbizzarrito: un'altra immagine, quindi, che
si può relazionare all'Hypnerotomachia. Il folle genio di Dalì,
ossessionato dalle suggestioni del mondo onirico, doveva per forza
conoscere il Sogno per eccellenza, raccontato nell'Hypnerotomachia.
Questa tesi potrebbe costituire senz’altro argomento di studi
futuri.
|
Fig. 8 - SALVADOR DALÌ, La tentazione di Sant'Antonio, 1946, olio su tela 90 x 120 cm., Bruxelles, Musée Royaux des Beaux-Arts
|
Più
di recente, il tema dell'elefante obeliscoforo è reinterpretato
nell'opera Il
mio ombelisco (Fig. 9)
da
un artista contemporaneo: il romano Pablo Echaurren. Il grande
rinoceronte che porta sulla schiena un obelisco è popolato di una
serie di bestie, tra il reale ed il fantastico, seguendo il
caratteristico horror vacui che contraddistingue l'artista. L'opera è
stata realizzata in ceramica nella Bottega Gatti di Faenza nel 2004
ed è dichiaratamente ispirata all'elefantino berniniano,
costituendo, così, l’ultimo anello di una lunga catena, forgiata
dalla storia a partire dal genio artistico delle visioni
dell'Hypnerotomachia.
|
Fig. 9 - PABLO ECHAURREN, Il mio ombelisco, 2004, scultura maiolicata, h. 241, l. 155, p. 60 cm., MIC Faenza.
|
NOTE
BIBLIOGRAFIA
CALVESI 1980
Calvesi
Maurizio, Il
sogno di Polifilo Prenestino,
Roma,
Officina
Edizioni, 1980.
CALVESI 1996
ID.
La
“pugna d'amore in sogno” di Francesco Colonna romano,
Roma,
Lithos,
1996.
COLONNA
S. 2012
Colonna
Stefano, Hypnerotomachia
Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del
Rinascimento,
Gangemi, Roma, 2012
D'ONOFRIO 1967
D'Onofrio
Cesare, Gli
obelischi di Roma,
Bulzoni Editore, Roma, 1967
MONGENS
2009
Mongens
Bencard, Jørgen Hein, Rosenborg.
La
collezione dei re danesi,
Rosemborg, 2009
PARTINI
2007
Partini
Anna Maria,
Alchimia, architettura, spiritualità in Alessandro VII,
Roma,
Edizioni
Mediterranee, 2007.
Vedi nel BTA:
LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI
|