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Suggestioni artistiche sulla xilografia dell'Elefante Obeliscoforo del Polifilo Hypnerotomachia Poliphili, scheda della xilografia n. 12

Irene Alfuso
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 8 Maggio 2015, n. 770
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Il passo che segue è tratto dall’opera, complessa ed anonima, “Hypnerotomachia Poliphili” in cui il protagonista Polifilo, nel suo “sogno sognato”, incontra l’elefante obeliscoforo, ritratto nella xilografia (Fig.1) inclusa nell’opera stessa e che costituisce l’oggetto di questo lavoro.


Elefante Obeliscoforo, xilografia n. 12
dell'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499.

 

 

Ove etiam, non troppo distante dal magno caballo, ad libella se offeritte uno maximo Elephante di nigricante petra, più che Obsidio, scintillata d’oro, et mice argentee copiosamente quale pulvisculo disperse, et per la petra micante.

La contumace duritudine dilla quale, apertamente indicava il suo chiaro lustro. Imperoché in essa omni obiecto representantissi proprio il remitteva in quella parte, excepto, ove il metallo havea diffuso il suo verdaceo erugine. Et questo congruamente, perché nella summitate dil suo amplissimo dorso, havea uno meraveglioso Ephippio Aeneo, cum due stringente Cingule circumacte al monstroso corpulento. Tra le quale pergrande ligature cum fibule necte dilla medesima petra, si ritinia uno quadrangulo correspondente alla crassitudine di lo Obelisco di supernate collocato.

Diciò che niuno perpendicolo di pondo, non debi sotto sé havere aire overamente vacuo.

Perché essendo intervacuo, non è solido, né durabile.

La quale parte quadrangulare per ciascuna dille tre facie di charactere aegyptio bellamente era liniata.

Dunque questo dorsuario monstro, non sencia miraveglia diligentissimamente expresso, et exacto, quanto meglio per regula artificiosamente fingere et statuare si potesse.

Et nella sopra dicta sella di molti sigilli, et bulle, et historiette et fictione probatamente ornata, firmatissimamente fundato uno Obelisco di petra lacedaemonia verdegiante sustentava.

Di llatitudine nelle aequate facie, quanto lo imo diametro d’uno passo, et multiplicata al septeno numero, tanto era fino alla aculeata summitade graciliscentisse.

Nel fastigio dunque dil quale infixo promineva uno rotondissimo Trigone, et di materia perspicua et perlucida.

Stava dunque compositamente questa grandissima fera, cusì nobilmente figmentata sopra la aequata piana de uno vasto basamento di durissimo Porphyro, perpolitamente liniato.

Cum dui exerti et grandi denti di una petra candidissima et illustre appositi et appacti.

Et dalla aenea sella infibulato pendeva uno egregio pectorale, di vario ornamento dilla materia dilla sella, in medio dil quale era in latino idioma scripto. Cerebrum est in capite.

Et similmente circunducta per lo extremo del collo, alla grande testa coniuncto, ambiva una maestrevole ligatura. Dalla quale uno ambitioso ornato, summamente notabile di eramento traiectato per sopra il suo amplissimo fronte pendeva, di dui quadrati composito, cum liniamenti elegante.

Nella planitie dil quale (di foliatura undiculare circundata) vidi alcune littere Ionice, et Arabe, le quale cusì dicevano: ΓΟΝΟΣ ΚΑΙ ΕΥΦΥΙΑ.

Hora el suo vorace proboscide, non si continiva cum il piano dil basamento, ma sublevato, pensile si stava, converso alquanto verso il fronte cum le sulcate auricule largissime demisse, overo cancellate.

Il quale simulachro nella sua vastitate unquantulo meno monstrava, che il naturale.

Et nella oblonga circuitione dil basamento erano coelati hieraglyphi, overo characteri aegyptici. Depolito decentemente cum il debito Areobato, cum il latastro, gula, thoro, et orbiculo, cum sui Astragali, overo nextruli, cum inversa Sima al pedamento.

Et di sopra non meno cum la proiecta Sima resupina, et torque trochili et denticuli cum gli Astragali.

Secondo che alla crassitudine expediva eximie Symmetriati.

La longitudine, latitudine, et altecia, passi, duodeci, cinque, et tre.

Le extremitate dil quale in forma hemicycla formate.

Nella posteriora parte hemicycla dil recensito basamento, trovai uno scalinato ascenso di sette gradi exscalpato scansile sopra la plana superficie. Per la quale avido di novitate io montai.

Et verso al riservato quadrangulo, subiecto al perpendicolo dil Ephippio, vidi una porticula excavata. Cosa di magna admiratione, in tanta pugnacitate di materia, et tanto habile intervacuo se praestava, che per alcuni stipiti di metallo al modo scalario infixi, per gli quali commodo ascenso, se concedeva ad intrare nella Elephantina machina exviscerata.


Ove anche, non troppo distante dal grande cavallo, si offriva al livello della vista un grandissimo Elefante di pietra nereggiante, più dell’ossidiana, scintillante d’oro, e briciole argentee copiosamente disperse quale pulviscolo, e per la pietra rilucenti.

L’ostinata durezza della quale, apertamente mostrava la sua limpida lucentezza.

Poiché in essa ogni oggetto che si presentava veniva in quella parte riflesso, eccetto, là dove il metallo aveva diffuso la sua verdastra ruggine.

E questo coerentemente, perché sopra al suo ampissimo dorso aveva una meravigliosa sella Aenea [dal latino aeneus: "bronzea"], con due cinghie avvolte intorno al corpo mastodontico.

Tra le quali per mezzo di una grande stringa con borchie della stessa pietra, era fermata una base quadrangolare corrispondente alla grandezza dell’obelisco collocato superiormente.

Ciò perché nessun peso a perpendicolo, deve avere sotto di sé uno spazio completamente vuoto.

Perché se vuoto nel mezzo, non è né solido, né durevole.

La quale base quadrangolare per ciascuna delle tre facce era bellamente istoriata con caratteri egizi.

Dunque questo dorso prodigioso, non senza meraviglia molto diligentemente riprodotto, con esattezza, era quanto di meglio si potesse artificialmente copiare e scolpire a regola d’arte.

E la sopra detta sella, di molti sigilli, e borchie, e storie e finzioni debitamente ornata, sosteneva un obelisco di pietra lacedemone verdeggiante molto fermamente fissato.

Di larghezza le eguali facce, erano quanto il piccolo diametro di un passo, che moltiplicata per il numero sette dava quanto era fino all’acuminata sottilissima sommità.

Nella fastosità dunque del quale si alzava infisso un rotondissimo trigone [da trigon: palla da gioco] di materia trasparente e translucida.

Stava dunque compostamente questa grandissima fiera, così nobilmente fissata sopra il piano liscio di un vasto basamento di durissimo Porfido, lucidamente istoriato.

Con due prominenti e grandi denti, apposti ed appaiati, di una pietra bianchissima e luminosa.

E dalla sella Aenea pendeva infilato un magnifico pettorale, variamente ornato del materiale della sella, nel mezzo del quale era scritto nella lingua latina: “Cerebrum est in capite”.

E similmente girata intorno all’estremo del collo, congiunto alla grande testa, cingeva una magistrale allacciatura. Dalla quale gettato sopra la sua amplissima fronte pendeva un ambizioso ricamo, sommamente notevole, composto di due quadrati, con eleganti contorni istoriati.

Nel centro del quale (circondato da una ondeggiante decoro di foglie) vidi alcune lettere Ioniche ed Arabe, le quali così dicevano: fatica e operosità.

Ora la sua vorace proboscide non si congiungeva con il piano del basamento, ma sollevata, stava pensile, rivolta alquanto verso la fronte con le grinzose larghissime orecchie abbassate, ovvero a guisa di grata.

Il qual simulacro nella sua grandezza era qualcosa meno che al naturale.

E nella oblunga circonferenza del basamento erano celati geroglifici, ovvero caratteri egizi.

Decorosamente levigato ai suoi piedi con il dovuto zoccolo, con il plinto, la modanatura curvilinea, il toro, e l’orbicolo, ovvero delle cordicelle, con opposta cimasa alla base.

E non di meno sopra con la cimasa resupina e aggettante e con una modanatura ritorta a dentelli in basso.

A seconda dello spessore si sviluppavano meravigliosamente simmetrici.

La lunghezza, la larghezza e l’altezza di dodici, cinque e tre passi.

Le estremità del quale erano a forma di emiciclo.

Nella parte dell’emiciclo posteriore del basamento passato in rassegna, trovai una scalinata ascendente di sette gradini scolpiti, facili da salire fino alla superficie piana. Per la quale io salii avido di novità.

E in direzione del quadrangolo isolato, sottostante perpendicolarmente alla sella, vidi scavata una porticina. Cosa di grande ammirazione, in una materia tanto dura, un tanto appropriato vano essere ricavato, poiché attraverso alcune sbarre di metallo infisse a mo’ di scala, con comoda salita, si poteva entrare nella pancia eviscerata dell’Elefante.



Al momento dell’incontro con l’elefante obeliscoforo ci troviamo davanti a quel «praelibato aedificio» che si rivelerà essere la dimora della Fortuna, verso cui Polifilo si era rivolto dopo lunghe peregrinazioni nella selva descritte all’inizio del racconto. Questa «grande fabrica di struttura antiquaria» rammenta, seppur nei contorni incerti, tipici dello stato onirico, il santuario situato a Palestrina dedicato alla Fortuna Primigenia. Ciò non stupisce se si segue la tesi, ormai nota, dello studioso Maurizio Calvesi che riconosce quale autore dell'Hypnerotomachia Francesco Colonna, romano signore di Preneste.

Innanzi al Tempio della Fortuna, c’è una «platea tetragona» lastricata a «quadrature marmoree» dove si trovano: un cavallo, un colosso e l'elefante obeliscoforo ritratto nella xilografia.

Il significato simbolico dell’elefante si contrappone a quello del cavallo in quanto si tratta delle personificazioni rispettivamente della Fortuna e della Sapienza. Queste due entità sono le vere protagoniste celate dietro le complesse vicende dell'Hypnerotomachia. Infatti, anche la ricerca ossessiva da parte del protagonista dell'amata Polia, filo conduttore dell’opera, si rivela essere nient'altro che l'allegoria della ricerca spasmodica dell'amore per la Sapienza, continuamente ostacolato dagli alterni influssi della Fortuna che ora sorride a Polifilo e ora gli volta le spalle.

Secondo il Colonna Fortuna e Sapienza rappresentano i due cammini opposti davanti ai quali ognuno si trova a fare una scelta. Come sovente accade ad un bivio, tra le due c'è una strada più semplice, quella della Fortuna, e una più impervia, quella della Sapienza. Ma, come in tante storie, si tratta solamente di una prima impressione. Infatti, Polifilo ci mette in guardia dallo scegliere quello che solo apparentemente potrebbe sembrarci il cammino più facile: affidarsi alla Fortuna potrebbe rivelarsi fatale. Questo perché la Fortuna gira, non dura mai a lungo ed è molto difficile da afferrare. Al contrario, l’impervio cammino verso la Sapienza, costellato di fatica et industria, assicura infine un guadagno stabile.

Per sottolineare il carattere instabile della Fortuna il Colonna ce la descrive, appunto, come una statua girevole che si erge sopra una sfera (contrapposta alla stabilità del cubo su cui poggia invece l’elefante), situata sopra l'obelisco che corona la struttura piramidale del tempio. È quasi completamente calva, se non per un ciuffo di capelli sulla fronte, da afferrare al momento giusto. Questa è l’iconografia correntemente utilizzata, non solo all’interno del racconto, per rappresentare la Fortuna. Al contrario, nel doppio sogno di Polifilo la Fortuna ricorre, e sarà raffigurata, anche con altre iconografie 1 , originali, sebbene ispirate all'antico pensiero secondo cui ella ha sempre due facce, una ridibonda e l'altra lachrymosa. Calvesi sottolinea come quello delle due fortune sia «un tema caro agli umanisti e copiosamente attestato nella tradizione, dai classici al Petrarca 2 » riportando, in particolare, le Praenestinae sorores di Stazio attraverso le parole di Alessandro Alessandri citate dal Cartari: «Per la qual cosa due erano credute le Fortune, una buona l'altra ria, da quella venivano i beni, e le felicità, e da questa le disavventure tutte, e gli altri mali. 3 »

Alla Fortuna si contrappone la Sapienza come affermano già Orazio, Seneca, e Plutarco nel De Fortuna Romanorum: virtù e fortuna «multa et magna certamina sustituerunt 4 ». La Sapienza non ha, al contrario, un’immagine iconografica canonica: già Cesare Ripa distingue diversi tipi di rappresentazione a seconda che ci si voglia riferire alla sapienza umana o a quella divina.

Il tema dell’opposizione tra Fortuna e Sapienza si trovava già nella Tabula Cebetis, tradotta dal greco alla fine del Quattrocento, che il Colonna, come afferma Calvesi, doveva certamente conoscere. Verrà successivamente ripreso nell’illustrazione del 1501 del Liber de sapiente di Charles de Bovelles del 1501: una di fronte all’altra, Fortuna e Sapienza siedono, rispettivamente, e ancora una volta, su una sfera e su un cubo (Cfr. COLONNA S. 2012).

Eccoci arrivati, dunque, all'immagine da cui siamo partiti: lo scontro di Fortuna e Sapienza rappresentate dal cavallo e dall'elefante che si sfidano, quasi come in una singolare partita a scacchi, sulla «platea tetragona» lastricata a «quadrature marmoree». A fronteggiare la Sapienza, quindi, il signore di Palestrina pone la faccia cattiva della Fortuna. Forse per suggerirci, fin dall’inizio, chi sarà l'indiscussa vincitrice di questa eterna sfida. La mala Fortuna ha infatti le sembianze dell’equus infoelicitatis (Fig. 2), ovvero quelle di un prodigioso caballo che porta in groppa diversi fanciulli che invano tentano di cavalcarlo: «Niuno di essi fermo sopraretinerse valeva, per la sua soluta velocitate, et dura succussatura. Diqué alcuni cadevano, quali stavano praecipitabondi. Alcuni supini, et tali resupinati, et altri innixi ascendevano, tali involtati (rapiti nelle stringente mane) li longi crini vanamente tenivansi.» L'immagine che ne risulta è quella di un cavallo incavalcabile che ben incarna il senso di precarietà ed instabilità che caratterizza la dea Fortuna.


Fig. 2

Fig. 2 Equus Infoelicitatis, xilografia n. 6
dell'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499


«Non troppo distante dal magno caballo, ad libella se offeritte uno maximo Elephante di nigricante petra»: si tratta del nostro elefante obeliscoforo.

Fin dall’antichità l’elefante rappresenta la Sapienza a causa della straordinaria longevità che caratterizza questo animale. Gli si attribuisce grande memoria e saggezza, è dotato di straordinaria forza fisica, di prudenza, di religiosità e, secondo Plinio, di sensibilità all'amore. Cecco d'Ascoli nel poema allegorico didattico L'Acerba, dove ritroviamo, nello stesso schema del Polifilo, una donna angelica, probabilmente simbolo della Sapienza al pari dell'amata Polia, affermava: «Sopra onne animal che non ha intellecto, ha più de conoscenza l'elefante che, quasi per rason, fa onne effecto 5 ».

Nella cultura cristiana l'elefante è considerato simbolo di castità ed incarnazione della Legge di Dio, dei profeti e anche del Cristo 6 , secondo quanto riporta il Physiologus 7 . Tuttavia, nell’Hypnerotomachia il compito di rappresentare la Sapienza non è affidato solo all’elefante, ma anche all’obelisco col quale forma un tutt’uno. L’obelisco indica la sapienza egizia, una cultura pagana ma considerata illuminata. Questa tradizione risale al Rinascimento ed è dovuta all’attribuzione del significato di “vita futura” ad uno dei geroglifici che, avendo la forma di una T, sembrava prefigurare la Santa Croce: gli egiziani avrebbero dunque ricevuto, preventivamente, l’annuncio della venuta di Cristo e, per questo, erano considerati portatori di una sapienza divina. L'unione dell'elefante e dell'obelisco starebbe quindi a rappresentare l’incarnazione di due anime, sacra e profana, in una stessa entità, un tema ricorrente 8 e che emerge anche in altri punti del Sogno.

Ad analizzare l'immagine della xilografia, essa risulta semplice e stilizzata, sia se messa a paragone con le altre presenti nel poema allegorico, sia in ragione della complessità del discorso che vi ruota attorno.

La stessa nigredine dell'elefante non viene restituita dall'immagine, anche se risulta esserne elemento caratterizzante niente affatto secondario. La nerezza dell'elefante permette un'interpretazione in linea con la cultura alchemica del Colonna, come si vedrà più avanti, e, inoltre, potrebbe essere anche un simbolo delle virtù del protagonista. Già Calvesi sostiene che l’elefante sarebbe un «autoritratto cifrato di Francesco Colonna 9 », inoltre diverse fonti dell'araldica 10 , sebbene più tarde rispetto all'Hypnerotomachia, ci danno ulteriori indizi in tal senso. L'Araldo Veneto riporta che: «L'elefante nero in Campo d'oro rappresenta Religioso stabilito su la base della Lealtà. L'elefante nero in Campo d'Argento significa Cavalier giusto, che tiene sempre la volontà ristretta nei limiti della clemenza.» Proprio l'equilibrio e la rettitudine sono effettivamente virtù che hanno caratterizzato la vita e le scelte del nostro Francesco Colonna: che sia allora per questo che l'elefante viene descritto non solo nero, ma scintillante di pulviscoli d'oro e d'argento ?

Nella xilografia anche il percorso che Polifilo intraprende all'interno dell'elefante viene soltanto accennato con un'apertura ritratta sul basamento. Spetterà poi alle due successive immagini del libro ritrarre i sarcofagi con il re e la regina che il protagonista incontrerà all’interno dell’elefante. Nelle sue viscere si celano, infatti, due sepolcri sormontati da due statue di regnanti che recano dei messaggi scritti in tre lingue: ebraico, greco e latino 11 . Il re sorregge uno scudo con il motto: «Sarei nudo, se non mi coprisse la bestia. Cerca e troverai. Lasciami»; mentre la regina tiene una tavoletta con su scritto: «Chiunque tu sia, prendi quanto ti piaccia di questo tesoro. Ma attenzione: portati via la testa non toccare il corpo». Calvesi, ne Il sogno di Polifilo Prenestino 12 legge l'incontro con il re e la regina come uno dei luoghi del racconto dove si fa riferimento all'alchimia ovvero «quell'antichissima Sapienza che è il culto di Polifilo e che risulta essere, sul versante allegorico, Polia stessa» 13 . Re e regina sono le figure archetipe dell'alchimia nella condizione iniziale dell'opus, cioè in stato di nigredo, come l'elefante; si trovano nel suo ventre perché sono arcani che vanno occultati e protetti. «Di qui risulta anche il senso della prima scritta: l'arcano non va svelato; se l'elefante (cioè la mente sapiente) non lo coprisse, l'arcano sarebbe messo a nudo. La seconda scritta allude invece ai tesori dell'alchimia (e più in generale della Sapienza) che sono esclusivamente spirituali e non materiali: riguardano cioè la testa e non il corpo 14 ». La Sapienza allora, benché vada cercata a lungo, una volta che si conquista serve a “vestirci” e a caratterizzarci come individui. Non deve scoraggiare lo stato di nerezza iniziale che la prospettiva del lungo cammino da percorrere necessariamente comporta, perché la presenza del re e della regina sono promessa della luce e dell'unione future: sono un riferimento alla coniunctio oppositorum, ovvero l'unione degli opposti, tramite la quale si supera la nigredo.

Per tornare all'analisi stilistica della xilografia, si può affermare che quasi certamente l'immagine dell'elefante obeliscoforo sia una creazione del Colonna.

Infatti, gli elefanti sono ritratti generalmente, ad esempio nei bestiari medievali, sormontati da una torre perché: «questa specie di animale è adatta alle imprese belliche 15 » e «Persiani e Indiani, collocate sul loro dorso torri di legno, combattevano da lì con i giavellotti come da un bastione 16 ».

Anche lo straordinario esempio in pietra (Fig. 3) presente nel Sacro Bosco di Bomarzo segue questa iconografia tradizionale sebbene, com'è noto, la costruzione del bosco sia stata influenzata dalle suggestioni del sogno di Polifilo 17 .


Fig. 3

Fig. 3 - Elefante, Sacro Bosco di Bomarzo, http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bomarzo_parco_mostri_elefante.jpg


L'elefante con la torre è anche il simbolo del prestigioso Ordine dell'Elefante danese, istituito nel 1478, abbastanza vicino quindi agli anni del Polifilo, da Cristiano I che «essendo in Roma domandò a Papa Sisto IV la licenza di potere istituire quest'ordine ad onore della Passione del nostro Signore Gesù Cristo, e che i Re di Danimarca ne fossero sempre i capi 18 ». Il simbolo, che contraddistingueva le personalità appartenenti all'Ordine dell'Elefante, è proprio un collare 19 che, sebbene esistente in molteplici varianti, generalmente risulta formato da «una catena d'oro, da cui pende sul petto un elefante d'oro smaltato di bianco avente sul dorso un castello d'argento con linee di colore nero; e quest'elefante è posto sopra una prominenza verde smaltata di fiori 20 ». Un esempio in oro, smalto, diamanti e perle della collana dell'Ordine si conserva nella stanza del tesoro del castello di Rosemborg a Copenaghen (Fig. 4).


Fig. 4

Fig. 4 - Simboli dell'Ordine dell'Elefante, Stanza del tesoro del castello di Rosenborg, Copenaghen. In alto a sinistra la più antica effigie dell'Ordine conosciuta con il motto e il monogramma di Frederick II (1534 - 1588), re di Danimarca e Normandia dal 1559, realizzata nel 1580 da Hans Raadt, probabilmente su disegno di Melchior Lorck. In basso a destra un'altra miniatura dell'Ordine dell'Elefante usata da Christian IV (1577 - 1648) successore di Frederick II, databile tra il 1633 e il 1634. Foto cortesia di Irene Alfuso.


Molto presente nella tradizione danese, l'elefante diventerà anche il sostegno ed il simbolo della fabbrica dei famosi coniugi Carlsberg: collezionisti d'arte e produttori dell'omonima birra. Qui due mastodontici elefanti che giocano con una palla sorreggono, ancora oggi, l'edificio della fabbrica, seguendo l'iconografia degli elefanti turriti (Fig. 5).


Fig. 5

Fig. 5 - Ponte degli elefanti, 1901. Fabbrica Carlsberg, Gamle Carlsberg Vej 11, Copenaghen. Foto cortesia Irene Alfuso.


Ben presto l'originalità iconografica della xilografia del Polifilo contagerà numerosi artisti: dal Bernini, passando per Salvator Dalì, per giungere al contemporaneo Pablo Echaurren.

Il più noto esempio è quello del Bernini (Fig. 6):


Fig. 6

Fig. 6 - ERCOLE FERRATA su disegno di GIAN LORENZO BERNINI, Obelisco della Minerva, 1667, Piazza Santa Maria della Minerva, Roma. Foto cortesia Irene Alfuso.


si tratta di una vera e propria trasposizione in marmo di quella che è la xilografia. Da quest’ultima la scultura differisce solo per il posizionamento della proboscide. L’opera, conosciuta come “pulcin della Minerva 21 ”, si trova in Piazza di Santa Maria Sopra la Minerva a Roma. Questo luogo è stato per anni cava di reperti egizi, tra cui molti degli obelischi della città eterna 22 , ed ospita l'elefante obeliscoforo 23 a partire dal pontificato di Alessandro VII Chigi. L'obelisco venne scoperto nel 1665 dai frati domenicani, durante i lavori di scavo per la costruzione delle fondamenta di un nuovo muro attorno ai giardini della loro chiesa, e fu collocato sul dorso dell'elefante marmoreo, scolpito da Ercole Ferrata, solo dopo una lunga gestazione che vide il Bernini quale autore dei progetti per la scultura. L'artista aveva pensato a una soluzione compositiva più audace che prevedeva un Ercole che sosteneva in bilico, con le proprie braccia, l'oscillante monolito. Scartata questa idea, egli ripiega su un suo precedente progetto realizzato per erigere una guglia nel giardino segreto di palazzo Barberini. D'Onofrio riporta che «a Windsor si conserva un bel disegno del Bernini nel quale un piccolo elefante volto con la testa alla sua sinistra fa da sostegno ad un obelisco, sulla cui vetta le api (emblema dei Barberini) potrebbero accennare ad un progetto del tempo di Urbano VIII (1623-1644). A questo disegno è strettamente connesso un bozzetto in terracotta, già in palazzo Barberini ed ora a Firenze nella collezione Corsini, raffigurante un elefante volto a destra, sovrastato anche esso da un obelisco 24 ». Secondo Calvesi, la ripresa dell'illustrazione dell'Hypnerotomachia nel disegno del Bernini si deve proprio all'influsso di questo primo committente: il cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII. Il cardinal Francesco, conoscitore di archeologia, si appassionò alle antichità prenestine perché il feudo di Palestrina divenne proprietà Barberini dal 1630. Molto probabilmente egli era dunque a conoscenza dell'autentico significato allegorico che si celava nell'elefante obeliscoforo dell'Hypnerotomachia.

Secondo Anna Maria Partini, invece, lo stesso Alessandro VII avrebbe potuto suggerire l'iconografia dell'elefante in quanto: «nel Fondo Chigi tra gli stampati c'è una copia dell’Hypnerotomachia attentamente postillata dal papa ad ogni pagina, cosa che dimostra il suo interesse per l'argomento, testo che ancora oggi possiamo consultare alla Biblioteca Apostolica Vaticana tra gli incunamboli chigiani (ms. chigiano II-610) 25 ». È comunque certo che sia stato il pontefice stesso a dettare la scritta alla base dell'elefante: «Sapientis Aegypti insculptas obelisco figuras ab elephanto belluarum fortissima gestari quisquis hic vides. Documentum intellige robustae mentis esse solidam sapientiam sustinere». Cioè una solida Sapienza, simbolizzata dall'obelisco con i geroglifici, dev'essere sostenuta da una mente valida e robusta, impersonata dall’elefante.

Quale che sia stata la paternità del riferimento alla xilografia del Polifilo così si spiega la pesantezza del progetto berniniano: infatti, per seguire l'assunto secondo cui «niuno perpendicolo di pondo, non debi sotto sé havere aire overamente vacuo. Perché essendo intervacuo, non è solido, né durabile», l'artista inserisce un cubo tra le zampe dell'animale pregiudicandone in, tal modo, la grazia.

Un'altra trasposizione in pietra della xilografia è la Fontana con l'Elefante, detta “u Liotru” (Fig. 7), a Catania.


Fig. 7

Fig. 7 - GIOVAN BATTISTA VACCARINI, "U Lioutru", 1735, Piazza Duomo, Catania.


Il progetto di messa in posa di un obelisco sul dorso di un elefante di pietra lavica, di cui non si conoscono con certezza le origini, sulla base marmorea della fontana in Piazza Duomo è del 1735. Fu realizzato dall'architetto Gianbattista Vaccarini che, secondo l'opinione comune, si sarebbe ispirato al precedente berniniano a Roma. C'è la possibilità, però, che il Vaccarini abbia usufruito direttamente della fonte del Polifilo perché inserisce nella composizione la palla a sormontare l'obelisco, particolare assente in Piazza della Minerva a Roma 26 .

Facendo un salto nel Novecento, un artista che ha riprodotto più volte, deformandola, la figura dell'elefante obeliscoforo è il surrealista Salvador Dalì. L'elefante è un tema ricorrente nella sua opera: appare per la prima volta nel 1937 in Cigni che riflettono elefanti; successivamente nel mondo surreale di Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio del 1944 e nella Tentazione di Sant'Antonio del 1946. In Les elephants, del 1948, gli elefanti sono i protagonisti assoluti del dipinto, così come delle sculture che popolano il giardino della Casa-Museo di Gala Dalì a Pùbol in provincia di Girona. Fra tutti questi pachidermi se ne trovano sormontati da obelischi solamente nel Sogno e nella Tentazione. In particolare in La tentazione di sant'Antonio (Fig. 8), conservata a Bruxelles nel Musées Royaux, la processione di elefanti dalle lunghissime zampe, due dei quali sormontati da un obelisco, è preceduta da un cavallo imbizzarrito: un'altra immagine, quindi, che si può relazionare all'Hypnerotomachia. Il folle genio di Dalì, ossessionato dalle suggestioni del mondo onirico, doveva per forza conoscere il Sogno per eccellenza, raccontato nell'Hypnerotomachia. Questa tesi potrebbe costituire senz’altro argomento di studi futuri.


Fig. 8

Fig. 8 - SALVADOR DALÌ, La tentazione di Sant'Antonio, 1946, olio su tela 90 x 120 cm., Bruxelles, Musée Royaux des Beaux-Arts


Più di recente, il tema dell'elefante obeliscoforo è reinterpretato nell'opera Il mio ombelisco (Fig. 9) da un artista contemporaneo: il romano Pablo Echaurren. Il grande rinoceronte che porta sulla schiena un obelisco è popolato di una serie di bestie, tra il reale ed il fantastico, seguendo il caratteristico horror vacui che contraddistingue l'artista. L'opera è stata realizzata in ceramica nella Bottega Gatti di Faenza nel 2004 ed è dichiaratamente ispirata all'elefantino berniniano, costituendo, così, l’ultimo anello di una lunga catena, forgiata dalla storia a partire dal genio artistico delle visioni dell'Hypnerotomachia.


Fig. 9

Fig. 9 - PABLO ECHAURREN, Il mio ombelisco, 2004, scultura maiolicata, h. 241, l. 155, p. 60 cm., MIC Faenza.








NOTE

1  Originale risulta, a titolo di esempio, la xilografia della danza di figure bifronti situata sul piedistallo del cavallo. A lungo si è creduto erroneamente che rappresentasse Giano Bifronte: è ancora una volta Calvesi a riconoscerne, invece, una rappresentazione della Fortuna seguendo il filo della contrapposizione di Fortuna e Sapienza all'interno della trattazione.

2 Calvesi Maurizio, La “pugna d'amore in sogno” di Francesco Colonna romano, Roma, Lithos, 1996, pp. 282-299.

3 V. Cartari, Le imagini, con la spositione de i dei degl'antichi, Venezia 1556; ed. 1647 con “annotationi” di L. Pignoria, pp. 238-239; Alessandro degli Alessandri, Geiales Dies, Colonia 1551, lib. I, cap. XIII, p. 21; in Calvesi 1996, pp. 78-79.

4 Plutarco, De Fortuna Romanorum, I.

5 Cecco d'Ascoli, L'Acerba, libro III cap. XXXIX, Ediz. Carabba, Lanciano 1916 in Alchimia, architettura, spiritualità in Alessandro VII, Partini Anna Maria, Edizioni Mediterranee, 2007.

6 «Esiste nei monti un animale detto elefante. In questo animale non c'è brama di congiungimento carnale (..). L'elefante e la sua femmina sono dunque immagini di Adamo ed Eva: quando erano nelle delizie del paradiso prima della trasgressione, non conoscevano l'unione carnale e non pensavano all'accoppiamento. Ma quando la donna ha mangiato il frutto dell'albero, cioè della spirituale mandragora, e ne ha dato anche all'uomo, allora Adamo ha conosciuto la donna, e ha generato Caino sopra le acque malefiche, come ha detto Davide: «Salvami, o Dio, perché le acque sono penetrate fino all'anima mia» [Salmi, 68.2]. E' dunque venuto il grande elefante, cioè la Legge, e non è stato in grado di sollevarlo; poi sono venuti i dodici elefanti, cioè la schiera dei profeti, e neanche loro sono stati capaci di risollevare l'uomo caduto; dopo di tutti, è venuto il santo elefante spirituale e ha sollevato l'uomo da terra. Il più grande di tutti è divenuto lo schiavo di tutti: ha umiliato se stesso, assumendo la forma di uno schiavo, per salvare tutti». Francesco Zambon (a cura di), "Il Fisiologo", di Anonimo, Milano, Adelphi, 1975.

7 Il Fisiologo è un testo greco anonimo scritto tra II e il IV secolo d.C. che ha avuto una grande fortuna nel Medioevo.

8 Il sincretismo religioso, che si riscontra nei contenuti dell'Hypnerotomachia, rispecchia le idee dell'Accademia Romana di Pomponio Leto e di quella del cardinale Bessarione che ne ricalcava quasi la composizione. Sebbene non si sappia quasi nulla di un contatto diretto tra Pomponio Leto e il Colonna, ci sono diversi legami collaterali da tenere in considerazione sapientemente illustrati in Calvesi 1996; i contatti con il Bessarione sono invece attestati tramite l'amicizia comune con Nicola della Valle, dal fatto che la casa del porporato (sede dell'Accademia) era di proprietà Colonna e, infine, nei riferimenti al cardinale e alla sua dottrina che sono celati nell'episodio del banchetto della regina Eleuteryllide all'interno del Sogno di Polifilo.

9 Calvesi Maurizio, Il sogno di Polifilo Prenestino, Officina Edizioni, 1980, pag. 98.

10 Si fa riferimento a L'arte del blasone dichiarata per alfabeto. Con le figure necessarie per la intelligenza de' termini in molte tavole impresse in rame e tre indici, due delle voci in franzese, e latino, uno de' nomi delle famiglie, comunità e società, di cui vi sono l'arme blasonate. Del conte Marc'Antonio Ginanni. In Venezia, presso Guglielmo Zerletti, 1756. Qui, alla voce Elefante, viene evidenziato che se «è nero in campo d'argento, dimostra che il suo autore fosse un cavaliere giusto e insieme clemente». Dell'Araldo veneto, overo universale armerista, mettodico di tutta la scienza araldica. Di Giulio C. da Beaziano, Venetia, appresso Nicolò Pezzana , 1680, a p. 181 viene riportata la citazione nel testo.

11 Per approfondimenti vedi LYDIA CONTINO, Le xilografie con iscrizioni ebraiche, arabe e greche dell'Hypnerotomachia Poliphili: censimento dei significati, degli errori e delle varianti, in "BTA - Bollettino Telematico dell'Arte", 11 Gennaio 2015, n. 749, http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00749.html

12 Ibidem, Calvesi, 1980.

13 Ibidem, pag. 231.

14 Ibidem.

15 XII libro delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia.

16 Ibidem.

17 Pier Francesco Orsini, detto Vicino, nell'ideazione e realizzazione del Sacro Bosco di Bomarzo si è sicuramente ispirato all'Hypnerotomachia Poliphili di cui si ritrovano diversi elementi, questo perché Giulia Farnese, moglie di Vicino ed a cui è dedicato il giardino, era imparentata con Francesco Colonna. Un'ulteriore analogia si riscontra nel fatto che sia il Colonna che l'Orsini dedicarono il racconto e il giardino alle rispettive donne amate e morte prematuramente. Per approfondimenti vedi: Cecilia Maria Paolucci, Il sacro bosco di Bomarzo, in "BTA - Bollettino Telematico dell'Arte", 24 Giugno 2003, n. 327, http://www.bta.it/txt/a0/03/bta00327.html

18 Pierre Helyot, Maximillien Bullot, Storia degli ordini monastici, religiosi, e militari, e delle congregazioni.., Tom. VIII., Giuseppe Salani, e Vincenzo Giuntini Editore, Lucca 1737-1739, digitalizzato da Google.

19 Il collare veniva utilizzato solo in particolari occasioni poiché il simbolo normalmente viene portato con un nastro di seta azzurra. L'Ordine dell'Elefante è ancora oggi esistente e viene assegnato prevalentemente ai membri della famiglia reale e capi di Stato.

20 Pierre Helyot, Maximillien Bullot, Storia degli ordini monastici, religiosi, e militari, e delle congregazioni.

21 La scultura venne così soprannominata dai romani in quanto risulta decisamente appesantita e perciò non si tardò a chiamare l'elefante porcino, che si tramutò poi in pulcin.

22 Anticamente nella zona di Santa Maria sopra Minerva, negli attuali confini di via di Sant'Ignazio a est e via del Gesù a ovest, a sud fino alla piazza di Santo Stefano del Cacco e da via del Seminario a nord, sorgeva l'Iseo: il maggiore santuario egizio di Roma. Costruito in epoca sillana, l'Iseo era stato restaurato prima da Caligola e poi arricchito da Domiziano. Da questo luogo provengono gli obelischi di Piazza Navona, Piazza della Rotonda, Piazza dei Cinquecento e lo stesso obelisco della Minerva.

23 L'obelisco sorretto dall'elefante misura poco più di cinque metri, risale al VI sec. a.C. Sorgeva anticamente a Sais, città del Basso Egitto che si trovava vicino ad Alessandria, sulla rotta per Roma. Nei suoi geroglifici ricorda l'ultimo libero Faraone Uahabra della dinastia XXVI che aveva lottato contro il re di Babilonia Nabucodonosor.

24 Cesare D'Onofrio, Gli obelischi di Roma, Roma, Bulzoni Editore, 1967.

25 Anna Maria Partini, Alchimia, architettura, spiritualità in Alessandro VII, Roma, Edizioni Mediterranee, 2007.

26 Santo Daniele Spina, Dossier: L'obelisco egittizzante di Catania. Nuova proposta di lettura del frammento dell'obelisco dell'elefante, in "Agorà", 13-15, a. IV, Apr. - Dic. 2003, http://www.editorialeagora.it/rw/articoli/27.pdf







BIBLIOGRAFIA

CALVESI 1980
Calvesi Maurizio, Il sogno di Polifilo Prenestino, Roma, Officina Edizioni, 1980.

CALVESI 1996
ID. La “pugna d'amore in sogno” di Francesco Colonna romano, Roma, Lithos, 1996.

COLONNA S. 2012
Colonna Stefano,
Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Gangemi, Roma, 2012

D'ONOFRIO 1967
D'Onofrio Cesare, Gli obelischi di Roma, Bulzoni Editore, Roma, 1967

MONGENS 2009
Mongens Bencard, Jørgen Hein,
Rosenborg. La collezione dei re danesi, Rosemborg, 2009

PARTINI 2007
Partini Anna Maria,
Alchimia, architettura, spiritualità in Alessandro VII, Roma, Edizioni Mediterranee, 2007.











	
Vedi nel BTA: LE XILOGRAFIE DELL'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI






 

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