«Occorre poi tener presente che una città
non è destinata solo ad uso d’abitazione;
dev’essere
bensì tale che in essa siano riservati spazi piacevolissimi
e
ambienti sia per le funzioni civiche sia per le ore di svago
in
piazza, in carrozza, nei giardini, a passeggio, in piscina etc.».
«E
avremo sempre presente il detto di Socrate: quella soluzione nella quale
risulti evidente che nulla si possa mutare se non in peggio, è da reputare la
migliore. Stabiliremo dunque che una città
dev’essere interamente priva di tutti gli svantaggi esaminati nel primo libro;
dev’essere inoltre provvista di tutti quei requisiti che esigono le necessità
della vita civile. Avrà terreni sani, molto vasti, di diversi tipi, ridenti,
fertili, ben difesi, assai produttivi, provvisti di frutti e di sorgenti in
abbondanza. Nel territorio dovranno trovarsi
fiumi e laghi, ed essere agevole la via verso
il mare, attraverso cui procurarsi ciò che manca ed esportare ciò che avanza.
Infine per instaurare nel modo migliore e far fiorire le attività civili e
militari, occorre che siano a disposizione tutti i mezzi atti ad abbellire la
città e a difendere i cittadini, a renderla ben accetta agli amici e temibile
ai nemici».
Rivisitazione-superamento del De architectura di Vitruvio, rielaborazione concettuale nell’ambito
di un’estetica e di una metodologia conoscitiva del costruire che si propone di
riformulare anche linguisticamente partizioni e suddivisioni antiche, i dieci
libri del De re ædificatoria di Leon Battista Alberti
pongono al centro dell’attenzione questioni di carattere urbanistico e formale, strutturando in modo decisivo –
con il contributo di considerazioni presenti in altre opere dell’architetto-umanista
– tematiche come quelle della collocazione del sito cittadino, della sua
tipologia, del rapporto con il territorio circostante: all’interno e
all’esterno del perimetro abitato, si riflette sulla forma urbis.
Che l’urbanitas
coincida con la civilitas emerge
persino da vicende apparentemente secondarie come l’episodio della sorella di
Tersite nel satirico Momus, ove la
bellezza è esibita nei crocicchi cittadini mentre la bruttezza trova rifugio, o
cerca rimedi, nell’indefinitezza dell’area rurale. All’insegna della medietas
e della ripresa di modelli che da Esiodo giungono al suo tempo appare
nell’opuscolo Villa la mitizzazione
albertiana della vita rustica, presente anche in altri suoi scritti: ma
comunque essenziale si configura il ruolo della città, pure in ambito
economico. Poiché si suggeriscono investimenti per metà in campagna e per metà
nel centro abitato, l’una è da intendersi come luogo della produzione, l’altro
come spazio della distribuzione ed entrambi come sedi di un parco consumo: e
interconnettono quella che si potrebbe definire, alla Le Corbusier, un’ “unità
di abitazione” familiare con l’intimità e gli equilibri della parentela,
sentiti da Alberti tanto importanti e fragili da fargli costruire un intero trattato su di essi.
Se nei Libri della famiglia,
con un andamento che sembra anticipare l’afflato machiavelliano del Principe, il Prologo di Leon Battista si
dispiega in una proposizione positiva del
rapporto tra fortuna e virtù – con esempi tratti dalla storia antica orientati
a definire le fattive potenzialità dell’umano calato nella storia, sino
all’apice rappresentato dalla romanità –, in misura analoga, nel Prologo del De re ædificatoria, si coglie la valenza
antropomorfa della costruzione architettonica: «Anzitutto abbiamo rilevato che l’edificio è un corpo, e, come tutti gli
altri corpi, consiste di disegno e materia: il primo elemento è in questo caso
opera dell’ingegno, l’altro è prodotto dalla natura […]».
Comparando i Libri
della famiglia con l’elaborazione architettonico-urbanistica di Palazzo
Rucellai a Firenze (fig. 1) – ridisegnata dimora di famiglia del committente,
arricchita dalla Loggia aperta sulla città –, il trattato appare definire il luogo della gloria, lo spazio della
corretta nomea come civica estensione modulare dell’abitazione. Il costruttore-umanista si diletta
di celebrare una triplice immagine della città toscana. S’intersecano e
s’inverano di luce reciproca la Firenze dei primi decenni del Quattrocento:
cantiere della coeva “modernità” architettonica umanistico-rinascimentale, ove
Brunelleschi lavora alla Cupola di Santa Maria del Fiore
dal 1420; la Firenze del passato: quella della celebrata morigeratezza e
dell’evocazione rassicurante-celebrativa della «nostra
famiglia Alberta»; e infine la città
dell’avvenire, quella nella quale Leon Battista
si accinge a introdurre segni e tracce del suo
raffinato umanesimo: edicole ed emblemi, ordini e lesene, trabeazioni e
partiture (fig. 2).
Nucleo generatore di una teoretica che attinge
all’etica del fare di Brunelleschi, la visione albertiana trae
alimento anche dalla tradizione dei libri di mercanti fiorentini,
riattualizzati attraverso rimembranze personali e capacità di legare
“geneticamente” storie di famiglia e geometrico-simboliche costruzioni dello
spazio nella città: come la trama della facciata di Palazzo Rucellai riveste, trasforma e connota i pregressi
costrutti architettonici facendo di essi unità di segni nel tutto urbano (fig.
3). Il messaggio di Leon Battista
corona la stagione dell’umanesimo civile
fornendo elementi essenziali – nel privato della famiglia e nel pubblico della
costruzione urbana – all’esaltazione dell’operosità umana rivendicata da
Giannozzo Manetti nel De
dignitate et excellentia hominis: «Nostre
infatti, e cioè umane perché fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono,
tutte le case, i villaggi, le città, infine tutte le costruzioni della terra,
che sono tante e tali, che per la loro grande eccellenza dovrebbero a buon
diritto essere ritenute opere piuttosto di angeli che di uomini. Sono nostre le
pitture, nostre le sculture, le arti, le scienze; nostra la sapienza […] Nostre
sono infine […] tutte le invenzioni, nostra opera tutti i generi delle varie
lingue e delle varie lettere […]».
L’apporto albertiano sembra dunque
stagliarsi nell’orizzonte sapiente e fiducioso, raccontato e architettato, ove
la stagione civile fiorentina si
coniuga con la definizione dello spazio come divenire urbano (fig. 4).
Luogo deputato della riflessione albertiana sull’arte
del costruire, il Proemio del De re
ædificatoria indica i nuclei tematici costituenti la struttura del
trattato. Oltre le qualità e le conoscenze richieste alla figura professionale
del doctus artifex – «Architetto chiamerò colui che con metodo
sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente […] opere che nel modo
migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo» – la caratterizzazione
epistemologica albertiana va nel senso della sottolineatura del ruolo civile e
fondativo dell’abitare insieme. Se è tradizionalmente indicata la disponibilità
di acqua e di fuoco come «cagione» del convivere, partendo dalla valenza protettiva
dell’abitazione – «ma
noi, considerando quanto un tetto e delle pareti siano convenienti, anzi indispensabili,
ci convinceremo che queste ultime cause ebbero indubbiamente maggiore
efficacia a riunire e mantenere insieme degli esseri umani» –, l’Alberti intende evidenziarne
anche la fondamentale funzione commemorativa, come sede di memorie condivise,
riconnettendosi alle articolazioni pubblico-privato, alla funzionalità
socio-economica e alla simbologia etico-protettiva del nucleo familiare prima
illustrata: «All’architetto
tuttavia dobbiamo riconoscenza non soltanto perché ci fornisce un accogliente
e gradito riparo […], ma anzitutto per i suoi innumerevoli ritrovati che
riescono di indubbia utilità, sia privata che pubblica […]». E in uno dei passi albertiani nei
quali la struttura protettiva dell’abitazione si abbina alla percezione – anche
affettiva – dello spazio urbano, si osserva: «Quante
casate nobilissime, decadute per l’ingiuria del tempo, sarebbero scomparse
dalla nostra città e da tante altre in tutto il mondo, se il focolare domestico
non ne avesse mantenuti riuniti i superstiti, quasi accolti in grembo agli
antenati!».È in questo continuum tra vita privata e abitazione incastonata nello spazio
pubblico che si situa la stagione fiorentina di Alberti, teorico e visionario di un mondo
d’idealizzato equilibrio già lontano nel tempo, destinato poi ad essere
riassorbito in una concezione monumentale della costruzione, ove l’oggetto –
nelle sue geometrie comunicanti – è forma ideale che esprime visione dello
spazio e rivisitazione della storia.
Se, come osserva Portoghesi, molte «delle virtualità della rivoluzione culturale
iniziata dal Brunelleschi erano rimaste senza ascolto»
e appare alla metà del Quattrocento smarrito «quel
lievito universalistico che aveva dato alle opere brunelleschiane il valore di
fondamenti per un nuovo metodo»,
il senso ultimo del contributo albertiano all’arte del costruire e alla
percezione del mondo come “volontà e rappresentazione” risiederebbe nella
delineazione di una forma urbis come
nuova potenziale forma orbis.
Distante dalla personale epistemologia della famiglia
tracciata nei Libri del trattato – ma
è presente il riferimento ad «amici eruditi» – e sorta di ridotto scheletro matematico della
plurima monumentalità del De re
ædificatoria, sul tessuto intellettuale del confronto con l’immagine della
città l’albertiana Descriptio Urbis Romae
è momento fondante: riappropriazione fisica e mentale, ricostruzione matematica
che s’intreccia alla memoria storica, visita che si fa visitazione, topografia
come rifondazione dello spirito, «in teoria
una pianta della città di Roma, ma in pratica una lista di coordinate polari
che permettono al lettore di ridisegnare l’immagine della pianta di Roma nella
scala desiderata a partire dalle coordinate di 175 punti salienti».
L’incipit albertiano ritraccia il
contesto ed esplicita il progetto: «Ho
rilevato quanto più diligentemente possibile, con l’ausilio di mezzi
matematici, il contorno delle mura della città di Roma, il percorso del fiume e
delle strade, il luogo e la collocazione dei templi, delle opere pubbliche,
delle porte e dei monumenti commemorativi e le delimitazioni dei colli ed anche
l’area che è occupata dalle abitazioni, così come li conosciamo in questo
nostro tempo. Ho inoltre escogitato un metodo per cui chiunque […] possa con
precisione e con facilità disegnarli su una superficie grande quanto si voglia.
Mi hanno spinto a fare ciò amici eruditi, i cui desideri ho ritenuto
ragionevole assecondare».
Continuatore della tradizione vitruviana, con il De Architectura pervenutoci privo di
illustrazioni, della Geografia di
Strabone – i cui diciassette libri delineano una cosmografia dell’antichità senza rappresentare alcun disegno –,
l’Alberti, abbreviatore apostolico dal 1432, riconosce negli spazi e nei resti
della classicità l’antitesi di un Trecento che a Roma è stato a-pontificio, senza configurarsi come
costruzione di un’identità urbana altra.
La Descriptio riprende la metodica
della Geografia di Tolomeo – fornire
ad ogni studioso i mezzi matematici per costruire una mappa –, passando dalla
dimensione globale (oltre 8.000 punti sono individuati dalle coordinate
tolemaiche) al perimetro urbano. Evidenziata dall’Alberti, l’identità dell’Urbe
comincia a ritrovare dignità spaziale, sebbene in forma semplificata e
parziale.
Il «contorno delle
mura della città di Roma» riporta il discorso
alla forma urbis come rapporto tra
centralità ed espansione, tra abitato e circostante contado, richiamando la
concezione aristotelica secondo la quale città ben configurata è quella
sinotticamente percepibile nella sua interezza, che comprende l’insieme del
territorio; ove
le mura non svolgono mera funzione utilitaria ma possono essere «d’ornamento alla città».
Così circoscritta, la città per Aristotele ha tre punti di riferimento sociali
e spaziali: l’area templare, quella degli edifici pubblici, la piazza del mercato.
E sulle diverse tipologie di edifici osserva Alberti: «alcuni
sono Sacri, alcuni Secolari, alcuni Pubblici, alcuni Privati, alcuni fatti per
necessità, alcuni per piacere […]».
La lettura albertiana, avvicinabile a una percezione “funzional-zonizzata” della
città, verte visioni aristoteliche degli spazi urbani in una prospettiva
umanistico-modulare dell’edificare – la «suddivisione» – che si articola dimensionandosi su vari livelli: «La suddivisione infatti è rivolta a
commisurare l’intero edificio nelle sue parti. […] E se è vero il detto dei filosofi, che la
città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città, non si
avrà torto sostenendo che le membra di una casa sono esse stesse piccole
abitazioni […]». Bisogna curare con attenzione le
singole componenti edilizie – «Occorre
perciò studiare con la massima cura e diligenza questi elementi, che hanno
importanza per l’opera intera; e adoprarsi perché anche le parti più piccole
risultino eseguite a regola d’arte
[…]»
–, ricordando che, per converso, la variazione dimensionale opera anche su
vasta scala, con i necessari adattamenti.
Se Aristotele individua punti di riferimento focali e
sociali nella città, la percezione albertiana dell’organizzazione urbana, con
la citazione di Platone, riconnette il settore del mercato all’area ove far
alloggiare i forestieri, nel timore di una loro perniciosa influenza
sull’ordinato e tradizionale vivere della cittadinanza: «Ad una ben costumata ed ordinata città, dice Platone, bisogna
provvedere per via di legge, che non vi s’introducano le delicatezze de’
forestieri […] Presso de’ Greci […] era usanza di non ricevere dentro nella
città que’ popoli che non erano in lega insieme […], ma nè anche scacciarli, e
però gli alloggiavano lungo le mura, non lungi dal mercato delle cose da
vendersi».
Applicazione della variatio dalla
retorica all’arte di definire forme e mura urbane, il testo di Alberti
prescrive e riferisce: «variare il circuito di
essa Città, e il modo del distribuire le parti, secondo la varietà de luoghi
[…]».
Una provvisoria conclusione di queste osservazioni non
può che mettere in evidenza l’articolata capacità di sintesi albertiana, che
contempera in poche righe disegno, pittura, modelli – «io
certo lodo sempre grandemente, lo antico costume degli edificatori, che non
solamente con disegno di linee, e con dipintura, ma con modelli ancora […]»
– si consacrano alla forma urbis. Concettualmente
teso a riportare nel tempo presente
modalità operative e artigianali del passato e, in ottica
panoramico-prospettica, a considerare valenza e articolazione del sito nel
territorio – «Nel fare i modelli ti si porgerà
occasione di vedere, e ben considerare la ragione, e la forma, che debba avere
il sito nella regione […]»
– il costruttore-umanista tali modalità riporta, storicizzate, in prospettiva,
delineando una traccia che
si dispiega verso l’avvenire. La riflessione albertiana fa del suo
tempo una forma aperta, uno sporgersi nella storia, da contrassegnare e
ridisegnare.
NOTE
[1] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, L’architettura,
traduzione a cura di Giovanni Orlandi, Milano 1966, p. 290.
[2] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, op.cit.,
pp. 276-278.
[3] Trattato
redatto tra il 1443 il 1445 oppure, secondo altre fonti, tra il 1447 e il 1452.
[4] L.
B. Alberti, Momus, Momo o del Principe,
traduzione a cura di R. Consolo, Genova 1986, p. 81 versione elettronica http://www.e-text.it.
[5] Redatti
a Roma, ove Leon Battista è abbreviatore apostolico dal 1432, i primi
tre libri del trattato risalgono agli anni tra il 1433 e il 1434, mentre il
quarto è composto a Firenze intorno al 1440. Per queste e altre considerazioni
sui Libri della famiglia, si riprende
in parte quanto presentato in E. Janulardo, L’architettura
della famiglia nei “Libri” dell’Alberti, in Atti del Convegno
Internazionale “Vita pubblica e vita privata nel Rinascimento”, Firenze
2010.
[6] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit.,
Prologo, p. 14.
[7] G.
Manetti, De dignitate et excellentia hominis, II 37-47 III 20-21, cit. da E.
Garin, Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze 1942, p. 239.
[8] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit.,
Prologo, p. 1.
[12] P.
Portoghesi, Introduzione a L. B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit.,
p. XIV.
[13] M.
Carpo – F. Furlan, Riproducibilità e trasmissione
dell’immagine tecnico-scientifica nell’opera dell’Alberti e nelle sue fonti,
Introduzione a L. B. Alberti, Descriptio
Urbis Romae, Firenze 2005.
[14] L.
B. Alberti, Descriptio Urbis Romae,
Firenze 2005. Per le considerazioni sulla Descriptio
Urbis Romae, si riprende in parte quanto presentato in E. Janulardo, Costruzioni e visioni: Roma e il mecenatismo spirituale alla metà del '400, in Bollettino Telematico dell'Arte, 29 Luglio 2011, n. 616, http://www.bta.it/txt/a0/06/bta00616.html.
[15] Cfr.
M. Carpo – F. Furlan, op. cit.
Osserva Carpo: “L’Alberti può già creare, ma non può ancora comunicare immagini
moderne”.
[16] Cfr.
Aristotele, Politica, Libro VII, 4,
5, Roma-Bari 1973, p. 85 versione elettronica
http://www.centrogramsci.it/classici/pdf/politica_aristotele.pdf.
[17] Cfr.
Aristotele, Politica, Libro VII, 11,
p. 90.
[18] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, L’Architettura,
trad. da Cosimo Bartoli, p. 166 versione elettronica https://books.google.it.
[19] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, op. cit.,
p. 64.
[21] L.
B. Alberti, De re ædificatoria, L’Architettura,
op. cit., p. 201.
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Ettore Janulardo, Costruzioni e visioni: Roma e il mecenatismo spirituale alla metà del '400, in Bollettino Telematico dell'Arte, 29 Luglio 2011, n. 616,
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