bta.it Frontespizio Indice Rapido Cerca nel sito www.bta.it Ufficio Stampa Sali di un livello english
L’icona liquida di Melbourne: Australian Centre for Contemporary Art  

Morena Auteri
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 2 Maggio 2016, n. 805
http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00805.html
Precedente
Successivo
Tutti
Area Architettura

Melbourne, la “capitale culturale dell’Australia”, ospita l’Australian Centre for Contemporary Art, altrimenti detto ACCA, commissionato nel 1998 agli architetti australiani Roger Wood e Randal Marsh e completato nel 2002, anno della sua inaugurazione.

Wood e Marsh rifiutano la concezione del museo visto come un insieme di spazi sequenziali ampi nei quali mostrare, sempre in maniera seriale, opere d’arte. ACCA contesta dunque la tipica narrazione proposta dai musei attraverso pareti e materiali non convenzionali.

Questo spazio atipico, nel cuore della zona artistica di Melbourne, nel Southbank, crea una nuova logica per la quale un museo è concepito come un sistema invisibile dove le ideologie sono espresse attraverso l’estetica; infatti, il duo australiano si impegna per creare un’architettura iconica in un settore sempre più ossessionato dall’immagine.

Formalmente l’Australian Centre for Contemporary Art è letto come una scultura dove all’interno visualizzare arte contemporanea; il suo linguaggio architettonico riesce a far comprendere la sua funzione e di conseguenza il suo significato ai visitatori.

ACCA non è mai stato e mai sarà un museo tradizionale, i suoi spazi e il suo design la rendono il luogo ideale dove esporre  arte contemporanea.

Infatti, esso soddisfa quel desiderio che gli abitanti di Melbourne avevano da anni: un luogo sofisticato, intellettuale, in cui artisti locali e internazionali potessero esprimersi: un vero e proprio “solido laboratorio per la sperimentazione” [1] come fu definito dal duo Wood-Marsh.

Entrambi australiani di nascita, dopo la laurea presso la Royal Melbourne Institute of Technology, nel 1983 aprono uno studio privato, il Wood/Marsh Pty Ltd Architecture, riconosciuto a livello nazionale e internazionale per aver ottenuto più di cinquanta premi di architettura dall’Australian Institute of Architects Awards.

I progetti firmati da Wood e Marsh riguardano non solo interni, ma anche lavori urbani e grandi infrastrutture pubbliche, tra le quali si possono annoverare numerosi ponti stradali, pareti antirumore e collegamenti pedonali. Senza tralasciare le residenze private (case e complessi multi-residenziali) alle quali hanno lavorato, significativo è il loro contributo nel campo della moda, per la realizzazione di scene e installazioni per sfilate, e nel mondo dell’arte, per la creazione di performance e mostre di visual art.

Le caratteristiche che contraddistinguono i lavori del Wood/Marsh Pty Architecture sono la qualità  scultorea delle forme esterne e l’alternanza tra solidità  e trasparenze.

In questi progetti lo spazio è concepito come un’opportunità per dare sfogo alla fantasia e creare un’architettura contemporanea che sia anche senza tempo. Tutto ciò accade grazie al distacco che Roger Wood e Randal Marsh hanno nei confronti dei loro colleghi e delle mode del momento; il loro dialogo costante ha permesso di creare dei prodotti senza pari, sia per la qualità eccelsa sia per il design innovativo.

L’Australia è uno dei posti migliori al mondo per la crescita di un giovane architetto: attraverso le sue terre e il sua popolazione, disposta a sperimentare nuove idee lasciando il passato alle spalle, gli architetti emergenti hanno potuto esprimere tutta la fantasia e tutto il loro ingegno per costruzioni fino ad allora mai concepite in quel territorio, proiettandolo nel futuro.

L’analisi del contesto urbano è fondamentale per capire le ragioni che li hanno spinti a utilizzare un determinato stile ma soprattutto dei particolari materiali per la realizzazione di tutti i loro progetti.

È importante sottolineare come il duo australiano faccia costantemente riferimento all’ambiente circostante per la progettazione di qualsiasi edificio, siano essi privati, pubblici o urbani.

Il motivo di questo forte interesse riguarda il legame che c’è tra i due architetti e la loro terra natia: i loro progetti non hanno l’intento di stravolgere il contesto, il paesaggio e la storia del Paese, ma di essere parte attiva dello stesso, ponendo l’attenzione sul rispetto dell’identità culturale australiana.

L’Australian Centre for Contemporary Art è stato realizzato nel rispetto più totale dell’ambiente circostante: esso riflette i colori (marrone e rosa) dei deserti australiani, evocando così la realtà arida del continente, tanto da sembrare un affioramento geologico del terreno.

La sua forma scultorea allude contemporaneamente al passato del sito, dunque all’era industriale, e alle morfologie naturali del continente australiano.

ACCA in realtà sembra una costruzione notevolmente extraurbana: una fusione tra una creatura preistorica, un affioramento geologico e un capannone agricolo arrugginito.

Se la principale finalità  di progettazione dell’Australian Centre for Contemporary Art è in riferimento alla sua funzione, cioè essere essa stessa una scultura nella quale mostrare l’arte, il suo secondo scopo è fare riferimento alla storia industriale del sito che occupa.

Questo intento è riscontrabile attraverso la scelta dei materiali utilizzati per la costruzione del Centro, che rimandano alle fonderie, i magazzini e le fabbriche che prima del rinnovamento urbano della fine degli anni Ottanta del Novecento occupavano la zona a sud di Melbourne, come anche i resti del primo porto.

Ecco spiegato il particolare design di ACCA simile a un capanno o una stalla, il quale richiama non solo il mondo industriale, ma anche la morfologia naturale del continente australiano.

Le sue pareti sono porose e allo stesso tempo protettive grazie all’acciaio colorato di rosso che ricorda i mattoni degli edifici industriali preesistenti.

Oltre all’aspetto esteriore, dunque, ciò che meglio rievoca l’occupazione storica del sito è la scelta del materiale di rivestimento dell’edificio: grandi lastre isolanti in acciaio Corten.

Questo particolare acciaio dal colore rosso ha un’elevata resistenza alla corrosione degli agenti atmosferici, per questo è utilizzato per facciate esterne di edifici e strutture all’aperto.

L’Australian Centre for Contemporary Art presenta quattro grandi sale espositive diverse per dimensioni e proporzioni, distinte dall’ingresso. Le sale singolarmente sono enormi con angoli divergenti, soffitti alti e scarsa luce naturale. Lo spazio complessivo della galleria non vanta di una grande estensione, infatti, possono svolgersi contemporaneamente solo una o due mostre. Gli interni riprendono il modello europeo del XIX secolo sviluppato per le gallerie.

Ancora oggi l’obiettivo principale di ACCA è quello di “raccogliere opere d’arte” essendo una vera e propria Kunsthalle, ossia una sala espositiva che commissiona piuttosto che collezionare opere d’arte contemporanea. Il Centro infatti non presenta collezioni permanenti come succede per la maggior parte delle gallerie d’arte pubbliche, ed è l’unico in Australia a operare con questo stile, segnando una svolta nella storia dell’organizzazione artistica.

Leon van Schaik, professore di architettura al RMIT, è uno dei più grandi sostenitori dell’Australian Centre for Contemporary Art che definì come uno dei più importanti edifici pubblici realizzati a Melbourne negli ultimi dieci anni. Il professore sottolinea l’importanza della poetica che Wood e Marsh hanno infuso nella realizzazione del Centro: «Their work is highly burnished with the desire to make a unique experience for us all to enjoy». [2]

Rispettando in pieno il codice anticlassico, l’ingresso del Centro australiano per l’arte contemporanea non è enfatizzato, come avviene nella tradizione classica, né collocato al centro, bensì risulta quasi nascosto.

Dunque l’ingresso non è la prima cosa che si nota guardando la costruzione, inoltre, tutte le aperture verso l’esterno sono ridotte al minimo, una sorta di spirito di conservazione nei confronti delle opere là esposte. Le pareti risultano prive di finestre proprio perché devono essere considerate delle vere e proprie tele bianche sulle quali gli artisti hanno la possibilità  di esporre opere o proiettare video in estrema libertà, senza alcun vincolo o condizionamento da parte dell’intera struttura.

Per l’entrata, le pareti inclinate, i volumi astratti che collidono tra loro, le forme frammentarie e non rettilinee, le distorsioni e la dislocazione degli elementi importanti, ACCA risulta atipica ad uno sguardo esterno stereotipato.

Guardando le strutture preesistenti, adiacenti alle costruzioni di Roger Wood e Randal Marsh, non si può non notare il divario enorme che esiste tra queste costruzioni: le prime fanno riferimento alla geometria euclidea, mentre i progetti del duo australiano riprendono i costrutti della geometria frattale, dunque esulano dall’ordine, dalla schematicità  e dalla semplicità, richiamando invece forme presenti in natura.

La geometria frattale è lo strumento di cui si servono gli artisti e gli architetti (ma non solo) per spiegare le forme e i fenomeni naturali.

Questa particolare geometria nasce all’inizio del XX secolo parallelamente agli studi del matematico francese Gaston Maurice Julia, e si è potuta sviluppare grazie all’invenzione di software che permettono la visualizzazione degli insiemi frattali.

La parola “frattale” deriva dal latino fractus e significa “interrotto, irregolare”; è stata coniata da Benoit Mandelbrot nel 1970, il quale successivamente sviluppò le idee di Julia e le concretizzò attraverso uno dei primi programmi di grafica al computer.

La geometria frattale, come la teoria del caos, ha permesso all’uomo di guardare la realtà  in un modo completamente nuovo, a migliorare la sua capacità  di percezione e di comprensione della realtà .

Tale geometria si occupa dei cosiddetti “oggetti frattali”, ossia oggetti matematici complessi che possono essere prodotti attraverso algoritmi. Il perimetro di tali oggetti è infinito, mentre l’area ha una misura finita, essi soddisfano a pieno una particolare proprietà che prende il nome di “autosomiglianza” o “auto similitudine”, ossia riprendono, in scala sempre più piccola, la loro forma, e una o più parti è precisamente omotetica al tutto.

I frattali utilizzati nel mondo dell’arte sono diventati il mezzo per la nascita di una nuova forma estetica dove l’irregolarità  non è più repressa ma considerata una nuova forma di armonia.

Proprio da questo concetto nel 1930 il matematico statunitense George David Birkhoff sviluppò la “misura della bellezza” attraverso una formula matematica:

M = O/C

dove M è la misura estetica o bellezza, O è l’ordine mentre C è la complessità.

Birkhoff unisce in un unico paradigma i tre concetti di bellezza, ordine e complessità  per poter raggiungere un’idea di “perfezione”; ma l’arte puntava a forme caotiche, superando la geometria euclidea. La geometria, infatti, non può spiegare il processo genetico dell’immagine, né fornire uno strumento di verifica.

«Pensare l’architettura in termini geometrici implica vederla staticamente, spazio dipinto e non vissuto; in pratica, ucciderla». [3]

Negli anni Settanta del Novecento Bruno Zevi afferma come «L’antigeometria, la forma libera, perciò l’asimmetria e l’antiparallelismo, sono invarianti del linguaggio moderno. Significano l’emancipazione della dissonanza». [4]

Gillo Dorfles, architetto e critico d’arte, ha concentrato parte dei suoi studi intorno a questa querelle della simmetria, dichiarando come il conflitto costante tra simmetria e asimmetria è alla base stessa dello sviluppo o della regressione delle civiltà.

Da sempre il chiodo fisso dell’uomo è il problema della simmetria; egli si ritrova costantemente di fronte a quesiti di tale natura proprio perché la sua stessa costituzione fisica e psichica, nonché quella dell’universo, è regolata da “leggi” che rispondono al principio di simmetria.

Dorfles conclude dicendo «[…] per le stesse condizioni della sua costituzione fisiologica, l’uomo sia portato a valersi dell’asimmetrico, a superare sempre ogni situazione simmetrica anche quando questa sia in apparenza “consustanziale” con il suo stesso organismo. L’uomo, dunque, tende oggi sempre più verso l’asimmetrico perché i legami e le implicazioni che la – solo parziale – sua costituzione simmetrica gli impongono non gli permetterebbero una feconda evoluzione». [5]

Dorfles studiò, in merito all’argomento, il comportamento di pazienti schizofrenici, essendo anche uno psicanalista; egli notò, attraverso i disegni e le pitture da loro realizzati, come essi sentano il bisogno di tornare a una situazione simmetrica. Questa necessità può essere considerata come un momento di regressione.

Nel mondo creativo tutto ciò che è asimmetrico, nuovo, differente genera paura, come anche i rischi della vita, le incertezze, ciò che è fuori dal controllo dell’uomo.

Questa paura è evidente nell’inclinazione dell’uomo verso strutture geometriche regolate da principi di simmetria, obbedienti, quindi, a leggi. Tali regole portano alla realizzazione di forme tutte uguali, procedendo, dunque, meccanicamente.

Strutture in cui vige la casualità, il disordine, la complessità, (quindi tutto ciò che è represso nelle strutture classiche), traggono ispirazione dalle forme presenti in natura.

L’arte ha tratto ispirazione dalla natura da sempre: «L’architettura è la prima manifestazione dell’uomo che crea l’universo, e lo crea a immagine della natura, aderente alle leggi della natura, alle leggi che reggono la nostra natura, il nostro universo». [6]

Gli ostacoli proposti dalla società che l’arte, in generale, e l’architettura, in particolare, devono affrontare sono senza dubbio complessi.

Il linguaggio moderno di Wood e Marsh ricerca un’alternativa all’architettura tradizionale attraverso forme fluide che si adattano perfettamente al nuovo concetto di “spazio” e i suoi legami con la società.

Nella società post-moderna lo spazio non esiste più, esso è sostituito dal luogo, ossia un posto che dà significato all’esperienza.

La nascita del  ciberspazio e dei nuovi mondi virtuali della rete ha trasformato il modo in cui le persone si relazionano e il loro rapporto con i luoghi.

La continua evoluzione e modifica che interessa la vita come anche la comunicazione oggi sono alla base della cosiddetta “modernità  liquida”, tema affrontato dal sociologo e filosofo polacco di origine ebraica, Zygmut Bauman, i cui studi gli hanno permesso una rilettura della società moderna e postmoderna secondo la metafora della liquidità.

Mentre nell’età moderna tutto era basato su costruzioni solide, oggi qualsiasi aspetto può essere rimodellato in maniera artificiale: tutto è labile e incline al cambiamento.

«Lo slogan dei nostri tempi è la flessibilità: qualsiasi forma deve essere duttile, qualsiasi situazione temporanea, qualsiasi configurazione suscettibile di ri-configurazione». [7]

Secondo Bauman la società moderna è caratterizzata dalla «convinzione sempre più forte che l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza». [8]

Il passaggio solido-liquido è avvenuto proprio perché le certezze su cui si basa la modernizzazione sono venute a mancare e sono state sostituite dai rapporti tra individui della società che, come sappiamo, sono divenuti mutevoli e flessibili nella nuova era.

La configurazione della società moderna è in continua evoluzione, tanto che non riesce a conservare la propria forma: la sua disposizione confusa e camaleontica può essere elaborata e compresa solo attraverso l’ausilio della Rete.

«[…] ciò di cui il pensiero ha bisogno oggi è una nuova architettura della complessità che rappresenti, e al contempo articoli, la logica incarnazione della rete». [9]

L’apparato culturale di ogni società e i suoi aspetti tecnologici hanno ridefinito l’architettura del mondo reale. Pilastro di questo mondo contemporaneo in tutte le sue sfaccettature, metafora rappresentativa del pensiero in rete e dispositivo delle reti del pensiero è il concetto di “architettura liquida”.

Tutto ciò che nell’architettura classica è ritenuto stabile e durevole viene dissolto nel mondo liquido: le nuove tecnologie multimediali rendono flessibili e dinamiche le strutture architettoniche per soddisfare le esigenze della società  liquida, la cui forma è in continua trasformazione, proprio perché gli individui che la compongono e le loro relazioni sono in continuo mutamento.

Questo tipo di architettura «smaterializzata, danzante, difficile, del ciberspazio, fluttuante, eterea, instabile, trasmissibile simultaneamente a tutte le parti del mondo ma tangibile solo in modo indiretto, può diventare l’architettura più duratura che sia mai stata concepita». [10]

L’Australian Centre for Contemporary Art supera molti costrutti trascendenti dell’architettura, come i principi forma/funzione ora non più oppressi dall’umanesimo, dalle immagini storiche e la tradizionale concezione di uno spazio in cui presentare opere d’arte.

Il Centro australiano dunque si libera dalle oppressione dei costrutti ereditati dalle architetture passate e presenti.

I riferimenti di ACCA alla traccia o alla cancellazione sono costruiti e decostruiti per trovare un nuovo significato alla struttura che facesse riferimento anche alla storia del sito e al futuro del Centro.

Qualsiasi utente ad un primo sguardo può leggere in maniera diversa e interpretare soggettivamente la costruzione, come avviene per un testo scritto.

La facciata che possiamo definire “fratturata” circonda le pareti non rettilinee e altera la distribuzione e i rapporti tra le sale interne; qui, i volumi astratti si uniscono per creare una vera e propria performance scultorea.

La distorsione in tale contesto non è più vista come un errore, un fallimento o qualcosa di sbagliato ma come una nuova possibilità dell’architettura, concetto alla base del decostruttivismo architettonico.

L’intenzione degli architetti australiani Wood e Marsh fu di suscitare nello spettatore un effetto di spaesamento nel momento in cui entrasse nella struttura, la quale ha il compito di “sfidare” in un certo qual modo l’occupante.

La manipolazione e la distorsione imprevedibile di superfici non rettilinee, la combinazione di geometrie arcane e contorte, la materialità dell’acciaio Corten offrono allo spettatore un ampio spettro di interpretazioni fondate sui canoni australiani.

Il design dell’Australian Centre for Contemporary Art, attraverso l’inclinazione delle sue pareti e i materiali utilizzati per i rivestimenti, contesta agli altri musei la loro architettura convenzionale e il loro ruolo coercitivo in quanto istituzione.

Le forme irregolari, le altezze di dimensioni diverse, le pavimentazioni discordanti giocano un ruolo importante in una concezione logocentrica.

Da sempre l’arte è stata definita come un’attività umana senza uno scopo preciso, mentre l’architettura, oltre ad avere un ruolo estetico, è funzionale. Di conseguenza se la scelta delle forme architettoniche non è specificatamente collegata a finalità esterne, il fattore artistico diviene la parte dominante.

Roger Wood e Randal Marsh adottarono tattiche di architettura iconica che possono essere facilmente interpretabili, anche da una macchina in corsa. Queste strategie, infatti, non sono adottate solo per comunicare visivamente il programma del Centro, ma anche per dare un punto di riferimento all’automobilista.

La zona dell’ingresso principale si articola in maniera analoga: la superficie non è da considerare come una semplice apertura, in quanto l’elemento appuntito di due metri, che sovrasta la costruzione ed esce fuori dall’edificio come un monòlito, è un vero e proprio elemento architettonico-linguistico. Grazie ad esso il RAIA (Royal Australian Institute of Architects) nel 2003 ha consegnato agli architetti australiani Roger Wood e Randal Marsh un premio per la forma scultorea monolitica dell’Australian Centre for Contemporary Art.

Ancora una volta ritroviamo un riferimento ben preciso alla morfologia del paesaggio australiano: l’elemento appuntito che sovrasta l’ingresso principale di ACCA rimanda al più grande monòlito del continente, l’Uluru, o Ayers Rock, lungo circa 3 kilometri e largo 2 con una circonferenza di 9 kilometri situato nel Parco nazionale Uluru-Kata Tjuta, 450 km a sudovest della città di Alice Springs.

Wood e Marsh non fecero riferimento solo alla forma dell’Uluru, ma anche ai suoi colori: l’alba e il tramonto, dunque i cambiamenti climatici ma anche i diversi mesi dell’anno, comportano alterazioni del tipico colore marrone-rossastro della parete rocciosa, il cielo stesso riflette una gamma di colori che va dal rosa al viola al rosso scuro, questo avviene perché la parete rocciosa contiene minerali come i feldspati che riflettono particolarmente la luce del sole, mentre il suo tipico colore rosso è dovuto all’ossidazione.

Come per l’Uluru, anche per l’Australian Centre for Contemporary Art la luce è una questione di notevole importanza per il risultato visivo finale: dall’esterno il Centro sembra essere illuminato dalla luce del sole anche di notte, grazie all’attenta posizione degli impianti che ricreano giochi di luce ed ombra simili a quelli che vediamo durante il giorno.

ACCA vanta una storia lunga ben trent’anni: le sue origini risalgono al 1983, quando il Ministero per le Arti (Ministry for the Arts), formato da un piccolo gruppo di sostenitori d’arte locali, sotto la guida di Race Mathews, propose di creare un luogo dove gli artisti e l’arte contemporanea potessero esprimersi.

Dal primo momento il Centro promosse pratiche artistiche contemporanee e innovative, supportò gli artisti nel loro lavoro, incoraggiò e promosse la fruizione di arte contemporanea, incoraggiando tutti i settori delle arti visive in Australia.

Il primo luogo che sembrò adatto ad accogliere quel tipo di arte che si stava diffondendo in quel periodo fu un pittoresco cottage su una collinetta dei Royal Botanic Gardens, presso Dallas Brooks Drive, sembrò il posto perfetto per presentare opere d’arte contemporanea, piuttosto che raccoglierle. Nonostante le sue potenzialità, il cottage era però lontano dal centro città.

ACCA riuscì a connettere la città di Melbourne con le maggiori istituzioni internazionali di arte contemporanea, promuovendo così un importante scambio culturale. La città fu rigenerata attraverso il nuovo audace design degli spazi espositivi qui presenti.

Dei finanziamenti stanziati nel 1997 per l’arte contemporanea potè beneficiare anche il Centro riuscendo così a quadruplicare il suo spazio: il nuovo edificio progettato da Wood e Marsh (vincitori del concorso indetto nel 1998) fu edificato nella zona delle arti di Malthouse Plaza, precisamente nella 111 Sturt Street, nei sobborghi di Southbank. I due architetti diedero il via ad una fase rivoluzionaria nella storia di ACCA.

Dall’apertura del nuovo Centro il numero di visitatori è aumentato del 300% ed è continuato ad accrescere anno dopo anno.

Nonostante ciò, la nuova ACCA ha iniziato la sua vita in una condizione economica precaria, per questo motivo furono necessari ulteriori investimenti pubblici per il sostentamento del Centro, delle sue istallazioni e le crescenti esigenze dei visitatori.

ACCA incrementò sempre più il numero dei visitatori, superando qualsiasi aspettativa. Le riviste internazionali iniziarono a parlare del Centro e delle sue iniziative, andando a consolidare così la sua crescente reputazione internazionale. Inoltre, artisti di tutto il mondo divennero sostenitori di ACCA, sponsorizzandola nel loro ambiente e tra i colleghi.

Per avere sempre più visitatori, ACCA decise di introdurre nel suo programma diverse opportunità per migliorare la fruizione da parte dei suo fans: ingressi VIP alle mostre, raccolte fondi annuali e un Art Tour internazionale.

Nel corso della sua storia lunga ben trent’anni, l’Australian Centre for Contemporary Art ha lavorato con più di 2.300 artisti, curatori e scrittori; presentato quasi quattrocento mostre e prodotto quasi trecento pubblicazioni.

È stata la prima galleria ad avere un profilo online attivo, ad essere presente sui vari Social Network e a digitalizzare i suoi trent’anni di storia in un archivio online accessibile a tutti e in qualsiasi momento.

L’arte e il pubblico sono stati il motivo del successo di ACCA: chiunque entrasse in questa galleria non solo ammirava le opere lì esposte, ma, cosa più importante, le condivideva postandole su Facebook e Twitter, ne parlava sui vari blog dedicati all’argomento, favorendo così la divulgazione e la diffusione dell’arte contemporanea.

L’Australian Centre for Contemporary Art oggi non è solo un’icona di Melbourne, ma è soprattutto una struttura architettonica identificabile in tutto il mondo.

L’impegno di ACCA è ancora quello di connettere gli artisti locali con quelli internazionali, commissionando opere d’arte contemporanea ambiziose e provocatorie.







NOTE

[1] Haig BECK, Jackie COOPER, Wood/Marsh: Australian Centre for Contemporary Art, in UME20, 2006.

[2] M. O’BRIEN, They’re adamant about Yve, in “The Age”, 15 luglio 2006.

[3] B. ZEVI, Guida al codice anticlassico, Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi, 214), 1973, p. 106.

[4] Ivi p.28.

[5] B. ZEVI, Guida al codice anticlassico, Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi, 214), 1973,p. 147.

[6] LE CORBUSIER, Vers une Architecture, Parigi, Cres, 1923; trad. it. a cura di P. Cerri e P. Nicolin, Verso una Architettura, Bergamo, Loganesi, 2010, p. 56.

[7] Z. BAUMAN, Vita liquida, Editori Laterza, 2006, p. 103.

[8] Z. BAUMAN, Modernità  liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 132.

[9] M. TAYLOR, Il momento della complessità. L'emergere di una cultura a rete, Codice Editore, 2005, pag. 295.

[10] Marcos NOVAK, Architetture liquide nel ciberspazio, in Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, F. Muzzio, 1993, p. 262.





BIBLIOGRAFIA

BAUMAN 2002

Zygmunt BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002.

BAUMAN 2006

Zygmunt BAUMAN, Vita liquida, Editori Laterza, Roma, 2006.

BECK, COOPER 2006

Haig BECK, Jackie COOPER, Wood/Marsh: Australian Centre for Contemporary Art, in UME20, 2006.

CIASTELLARDI 2009

Matteo CIASTELLARDI, Architetture liquide. Dalle reti del pensiero al pensiero delle reti, Led Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano, 2009.

COLONNA 2014

Stefano COLONNA, La dialettica classico/anticlassico tra Argan, Zevi e Novak per un definizione critico-estetica di "Architettura Liquida", in "BTA - Bollettino Telematico dell'Arte", 16 Giugno 2014, n. 715 <http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00715.html>.

DERRIDA 2011

Jacques DERRIDA, Adesso l’architettura, a cura di Francesco VITALE, Milano, Libri Scheiwiller, 2011.

DOVEY 2005

Kim DOVEY, Fluid city: transforming Melbourne’s urban waterfront, Psychology Press, 2005.

FLOYD 2003

Emily FLOYD, New 03: Melbourne: Australian Centre for Contemporary Art, 2003.

LE CORBUSIER 1923

LE CORBUSIER, Vers une Architecture, Parigi, Cres, 1923; trad. it. a cura di P. Cerri e P. Nicolin, Verso una Architettura, Bergamo, Loganesi, 2010.

MENIS 2005

Anne MENIS, Australian Themes in Architecture, in The Arts, 2005.

MURPHY

Liam MURPHY, Articulate architecture: semiotics and the Australian Centre of Contemporary Art, 11 November 2013.

NOVAK 1993

Marcos NOVAK, Architetture liquide nel ciberspazio, in Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993.

PETERSON 2003

PETERSON, Art outcrop: a strange abstracted intrusion of the outback enriches and completes (for now) Melbourne's adventurous Arts Precinct. (Centre for Contemporary Art, Melbourne, Australia, architecture by Wood-Marsh), Architectural Review  214, n. 1277, 2003.

PONGRAC 2013

Christopher PONGRAC, Australian Centre for Contemporary Art: Sculpting Deconstruction into Architecture, in Wordpress, 11 novembre 2013.

PONGRAC 2013

Christopher PONGRAC, Deconstruct it like Derrida; How Deconstructivist Theory can Assist Understanding of the Australian Centre for Contemporary Art, in Wordpress, 8 settembre 2013.

SALA, CAPPELLANO 2004

Nicoletta SALA, Gabriele CAPPELLANO, Architetture della complessità: la geometria frattale tra arte, architettura e territorio, Milano, F. Angeli, 2004.

TAYLOR 2005

William TAYLOR, The piety of rust. Thoughts on australian place-making, in Architecture Australia, Vol 94 n.3, Maggio 2005.

TAYLOR 2005

William TAYLOR, Il momento della complessità. L'emergere di una cultura a rete, Codice Editore, 2005.

ZEVI 1973

Bruno ZEVI, Guida al codice anticlassico, Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi, 214), 1973.

ZEVI 1979

Bruno ZEVI, Editoriali di architettura, Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi,214), 1979.








Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA









PDF

Fig. 1
Wood e Marsh, Australian Centre for Contemporary Art.

Fig. 2
Wood e Marsh, Australian Centre for Contemporary Art.

Fig. 3
Distretto artistico di Melbourne: Malthouse Theatre, Chuncky Move, ACCA.

Fig. 4
Australian Centre for Contemporary Art, rivestimento esterno (acciaio Corten).

Fig. 5
Australian Centre for Contemporary Art (vista dall'altro).

Fig. 6
Australian Centre for Contemporary Art, Progetto.

Fig. 7
Australian Centre for Contemporary Art, Interno.

Fig. 8
Australian Centre for Contemporary Art, Interno, pareti distorte.

Fig. 9
Australian Centre for Contemporary Art, Ingresso forma monolitica.

Fig. 10
Australian Centre for Contemporary Art, Ingresso forma monolitica.

Fig. 11
Australian Centre for Contemporary Art, Laterale con scritta specchiata.


Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

Risali



BTA copyright MECENATI Mail to www@bta.it