Melbourne,
la “capitale culturale dell’Australia”, ospita l’Australian Centre for Contemporary Art, altrimenti detto ACCA,
commissionato nel 1998 agli architetti australiani Roger Wood e Randal Marsh e
completato nel 2002, anno della sua inaugurazione.
Wood
e Marsh rifiutano la concezione del museo visto come un insieme di spazi
sequenziali ampi nei quali mostrare, sempre in maniera seriale, opere d’arte.
ACCA contesta dunque la tipica narrazione proposta dai musei attraverso pareti
e materiali non convenzionali.
Questo
spazio atipico, nel cuore della zona artistica di Melbourne, nel Southbank, crea
una nuova logica per la quale un museo è concepito come un sistema invisibile
dove le ideologie sono espresse attraverso l’estetica; infatti, il duo
australiano si impegna per creare un’architettura iconica in un settore sempre
più ossessionato dall’immagine.
Formalmente
l’Australian Centre for Contemporary Art è
letto come una scultura dove all’interno visualizzare arte contemporanea; il
suo linguaggio architettonico riesce a far comprendere la sua funzione e di
conseguenza il suo significato ai visitatori.
ACCA
non è mai stato e mai sarà un museo tradizionale, i suoi spazi e il suo design
la rendono il luogo ideale dove esporre
arte contemporanea.
Infatti,
esso soddisfa quel desiderio che gli abitanti di Melbourne avevano da anni: un
luogo sofisticato, intellettuale, in cui artisti locali e internazionali
potessero esprimersi: un vero e proprio “solido laboratorio per la
sperimentazione”
come fu definito dal duo Wood-Marsh.
Entrambi
australiani di nascita, dopo la laurea presso la Royal Melbourne Institute of Technology, nel 1983 aprono uno studio
privato, il Wood/Marsh Pty Ltd
Architecture, riconosciuto a livello nazionale e internazionale per aver
ottenuto più di cinquanta premi di architettura dall’Australian Institute of Architects Awards.
I
progetti firmati da Wood e Marsh riguardano non solo interni, ma anche lavori
urbani e grandi infrastrutture pubbliche, tra le quali si possono annoverare
numerosi ponti stradali, pareti antirumore e collegamenti pedonali. Senza
tralasciare le residenze private (case e complessi multi-residenziali) alle
quali hanno lavorato, significativo è il loro contributo nel campo della moda,
per la realizzazione di scene e installazioni per sfilate, e nel mondo
dell’arte, per la creazione di performance e mostre di visual art.
Le
caratteristiche che contraddistinguono i lavori del Wood/Marsh Pty Architecture sono la qualità scultorea delle forme
esterne e l’alternanza tra solidità e trasparenze.
In
questi progetti lo spazio è concepito come un’opportunità per dare sfogo alla
fantasia e creare un’architettura contemporanea che sia anche senza tempo.
Tutto ciò accade grazie al distacco che Roger Wood e Randal Marsh hanno nei
confronti dei loro colleghi e delle mode del momento; il loro dialogo costante
ha permesso di creare dei prodotti senza pari, sia per la qualità eccelsa sia
per il design innovativo.
L’Australia è uno dei posti migliori al mondo per la crescita di un giovane architetto: attraverso
le sue terre e il sua popolazione, disposta a sperimentare nuove idee lasciando
il passato alle spalle, gli architetti emergenti hanno potuto esprimere tutta
la fantasia e tutto il loro ingegno per costruzioni fino ad allora mai
concepite in quel territorio, proiettandolo nel futuro.
L’analisi
del contesto urbano è fondamentale per capire le ragioni che li hanno spinti a
utilizzare un determinato stile ma soprattutto dei particolari materiali per la
realizzazione di tutti i loro progetti.
È importante sottolineare come il duo australiano faccia costantemente
riferimento all’ambiente circostante per la progettazione di qualsiasi
edificio, siano essi privati, pubblici o urbani.
Il
motivo di questo forte interesse riguarda il legame che c’è tra i due
architetti e la loro terra natia: i loro progetti non hanno l’intento di
stravolgere il contesto, il paesaggio e la storia del Paese, ma di essere parte
attiva dello stesso, ponendo l’attenzione sul rispetto dell’identità culturale
australiana.
L’Australian Centre for Contemporary Art è
stato realizzato nel rispetto più totale dell’ambiente circostante: esso
riflette i colori (marrone e rosa) dei deserti australiani, evocando così la
realtà arida del continente, tanto da sembrare un affioramento geologico del
terreno.
La
sua forma scultorea allude contemporaneamente al passato del sito, dunque
all’era industriale, e alle morfologie naturali del continente australiano.
ACCA
in realtà sembra una costruzione notevolmente extraurbana: una fusione tra una
creatura preistorica, un affioramento geologico e un capannone agricolo
arrugginito.
Se
la principale finalità di progettazione dell’Australian Centre for Contemporary Art è in riferimento alla sua
funzione, cioè essere essa stessa una scultura nella quale mostrare l’arte, il
suo secondo scopo è fare riferimento alla storia industriale del sito che
occupa.
Questo
intento è riscontrabile attraverso la scelta dei materiali utilizzati per la
costruzione del Centro, che rimandano alle fonderie, i magazzini e le fabbriche
che prima del rinnovamento urbano della fine degli anni Ottanta del Novecento
occupavano la zona a sud di Melbourne, come anche i resti del primo porto.
Ecco
spiegato il particolare design di ACCA simile a un capanno o una stalla, il
quale richiama non solo il mondo industriale, ma anche la morfologia naturale
del continente australiano.
Le
sue pareti sono porose e allo stesso tempo protettive grazie all’acciaio
colorato di rosso che ricorda i mattoni degli edifici industriali preesistenti.
Oltre
all’aspetto esteriore, dunque, ciò che meglio rievoca l’occupazione storica del
sito è la scelta del materiale di rivestimento dell’edificio: grandi lastre
isolanti in acciaio Corten.
Questo
particolare acciaio dal colore rosso ha un’elevata resistenza alla corrosione
degli agenti atmosferici, per questo è utilizzato per facciate esterne di
edifici e strutture all’aperto.
L’Australian Centre for Contemporary Art presenta quattro grandi sale espositive diverse per dimensioni
e proporzioni, distinte dall’ingresso. Le sale singolarmente sono enormi con angoli
divergenti, soffitti alti e scarsa luce naturale. Lo spazio complessivo della
galleria non vanta di una grande estensione, infatti, possono svolgersi
contemporaneamente solo una o due mostre. Gli interni riprendono il modello
europeo del XIX secolo sviluppato per le gallerie.
Ancora
oggi l’obiettivo principale di ACCA è quello di “raccogliere opere d’arte”
essendo una vera e propria Kunsthalle,
ossia una sala espositiva che commissiona piuttosto che collezionare opere
d’arte contemporanea. Il Centro infatti
non presenta collezioni permanenti come succede per la maggior parte delle
gallerie d’arte pubbliche, ed è l’unico in Australia a operare con questo
stile, segnando una svolta nella storia dell’organizzazione artistica.
Leon
van Schaik, professore di architettura al RMIT, è uno dei più grandi
sostenitori dell’Australian Centre for
Contemporary Art che definì come uno dei più importanti edifici pubblici
realizzati a Melbourne negli ultimi dieci anni. Il professore sottolinea l’importanza della poetica
che Wood e Marsh hanno infuso nella realizzazione del Centro: «Their work is highly burnished with the
desire to make a unique experience for us all to enjoy».
Rispettando
in pieno il codice anticlassico, l’ingresso del Centro australiano per l’arte contemporanea
non è enfatizzato, come avviene nella tradizione classica, né collocato al
centro, bensì risulta quasi nascosto.
Dunque
l’ingresso non è la prima cosa che si nota guardando la costruzione, inoltre,
tutte le aperture verso l’esterno sono ridotte al minimo, una sorta di spirito
di conservazione nei confronti delle opere là esposte. Le pareti risultano
prive di finestre proprio perché devono essere considerate delle vere e proprie
tele bianche sulle quali gli artisti hanno la possibilità di esporre opere o
proiettare video in estrema libertà, senza alcun vincolo o condizionamento da
parte dell’intera struttura.
Per
l’entrata, le pareti inclinate, i volumi astratti che collidono tra loro, le
forme frammentarie e non rettilinee, le distorsioni e la dislocazione degli
elementi importanti, ACCA risulta atipica ad uno sguardo esterno stereotipato.
Guardando
le strutture preesistenti, adiacenti alle costruzioni di Roger Wood e Randal
Marsh, non si può non notare il divario enorme che esiste tra queste costruzioni:
le prime fanno riferimento alla geometria euclidea, mentre i progetti del duo
australiano riprendono i costrutti della geometria frattale, dunque esulano
dall’ordine, dalla schematicità e dalla semplicità, richiamando invece forme
presenti in natura.
La
geometria frattale è lo strumento di cui si servono gli artisti e gli
architetti (ma non solo) per spiegare le forme e i fenomeni naturali.
Questa
particolare geometria nasce all’inizio del XX secolo parallelamente agli studi
del matematico francese Gaston Maurice Julia, e si è potuta sviluppare grazie
all’invenzione di software che
permettono la visualizzazione degli insiemi frattali.
La
parola “frattale” deriva dal latino fractus
e significa “interrotto, irregolare”; è stata coniata da Benoit Mandelbrot
nel 1970, il quale successivamente sviluppò le idee di Julia e le concretizzò
attraverso uno dei primi programmi di grafica al computer.
La
geometria frattale, come la teoria del caos, ha permesso all’uomo di guardare
la realtà in un modo completamente nuovo, a migliorare la sua capacità di
percezione e di comprensione della realtà .
Tale
geometria si occupa dei cosiddetti “oggetti frattali”, ossia oggetti matematici
complessi che possono essere prodotti attraverso algoritmi. Il perimetro di
tali oggetti è infinito, mentre l’area ha una misura finita, essi soddisfano a
pieno una particolare proprietà che prende il nome di “autosomiglianza” o “auto
similitudine”, ossia riprendono, in scala sempre più piccola, la loro forma, e una
o più parti è precisamente omotetica al tutto.
I
frattali utilizzati nel mondo dell’arte sono diventati il mezzo per la nascita
di una nuova forma estetica dove l’irregolarità non è più repressa ma
considerata una nuova forma di armonia.
Proprio
da questo concetto nel 1930 il matematico statunitense George David Birkhoff
sviluppò la “misura della bellezza” attraverso una formula matematica:
M = O/C
dove M è la misura estetica o bellezza, O è l’ordine mentre C è la complessità.
Birkhoff
unisce in un unico paradigma i tre concetti di bellezza, ordine e complessità
per poter raggiungere un’idea di “perfezione”; ma l’arte puntava a forme
caotiche, superando la geometria euclidea. La geometria, infatti, non può
spiegare il processo genetico dell’immagine, né fornire uno strumento di
verifica.
«Pensare
l’architettura in termini geometrici implica vederla staticamente, spazio
dipinto e non vissuto; in pratica, ucciderla».
Negli
anni Settanta del Novecento Bruno Zevi afferma come «L’antigeometria, la forma
libera, perciò l’asimmetria e l’antiparallelismo, sono invarianti del
linguaggio moderno. Significano l’emancipazione della dissonanza».
Gillo Dorfles, architetto e critico d’arte, ha
concentrato parte dei suoi studi intorno a questa querelle della simmetria, dichiarando come il conflitto costante
tra simmetria e asimmetria è alla base stessa dello sviluppo o della
regressione delle civiltà.
Da sempre il chiodo fisso dell’uomo è il problema
della simmetria; egli si ritrova costantemente di fronte a quesiti di tale
natura proprio perché la sua stessa costituzione fisica e psichica, nonché
quella dell’universo, è regolata da “leggi” che rispondono al principio di
simmetria.
Dorfles conclude dicendo «[…] per le stesse
condizioni della sua costituzione fisiologica, l’uomo sia portato a valersi
dell’asimmetrico, a superare sempre ogni situazione simmetrica anche quando
questa sia in apparenza “consustanziale” con il suo stesso organismo. L’uomo,
dunque, tende oggi sempre più verso l’asimmetrico perché i legami e le
implicazioni che la – solo parziale – sua costituzione simmetrica gli impongono
non gli permetterebbero una feconda evoluzione».
Dorfles studiò, in merito all’argomento, il
comportamento di pazienti schizofrenici, essendo anche uno psicanalista; egli
notò, attraverso i disegni e le pitture da loro realizzati, come essi sentano
il bisogno di tornare a una situazione simmetrica. Questa necessità può essere
considerata come un momento di regressione.
Nel mondo creativo tutto ciò che è asimmetrico,
nuovo, differente genera paura, come anche i rischi della vita, le incertezze,
ciò che è fuori dal controllo dell’uomo.
Questa paura è evidente nell’inclinazione dell’uomo
verso strutture geometriche regolate da principi di simmetria, obbedienti,
quindi, a leggi. Tali regole portano alla realizzazione di forme tutte uguali,
procedendo, dunque, meccanicamente.
Strutture in cui vige la casualità, il disordine,
la complessità, (quindi tutto ciò che è represso nelle strutture classiche),
traggono ispirazione dalle forme presenti in natura.
L’arte ha tratto ispirazione dalla natura da
sempre: «L’architettura è la prima manifestazione dell’uomo che crea
l’universo, e lo crea a immagine della natura, aderente alle leggi della
natura, alle leggi che reggono la nostra natura, il nostro universo».
Gli ostacoli proposti dalla società che l’arte, in
generale, e l’architettura, in particolare, devono affrontare sono senza dubbio
complessi.
Il linguaggio
moderno di Wood e Marsh ricerca un’alternativa all’architettura tradizionale
attraverso forme fluide che si adattano perfettamente al nuovo concetto di
“spazio” e i suoi legami con la società.
Nella
società post-moderna lo spazio non esiste più, esso è sostituito dal luogo,
ossia un posto che dà significato all’esperienza.
La
nascita del ciberspazio e dei nuovi mondi virtuali della rete ha trasformato il
modo in cui le persone si relazionano e il loro rapporto con i luoghi.
La
continua evoluzione e modifica che interessa la vita come anche la
comunicazione oggi sono alla base della cosiddetta “modernità liquida”, tema
affrontato dal sociologo e filosofo polacco di origine ebraica, Zygmut Bauman,
i cui studi gli hanno permesso una rilettura della società moderna e postmoderna
secondo la metafora della liquidità.
Mentre
nell’età moderna tutto era basato su costruzioni solide, oggi qualsiasi aspetto
può essere rimodellato in maniera artificiale: tutto è labile e incline al
cambiamento.
«Lo
slogan dei nostri tempi è la flessibilità: qualsiasi forma deve essere duttile,
qualsiasi situazione temporanea, qualsiasi configurazione suscettibile di
ri-configurazione».
Secondo
Bauman la società moderna è caratterizzata dalla «convinzione sempre più forte
che l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza».
Il
passaggio solido-liquido è avvenuto proprio perché le certezze su cui si basa
la modernizzazione sono venute a mancare e sono state sostituite dai rapporti
tra individui della società che, come sappiamo, sono divenuti mutevoli e
flessibili nella nuova era.
La
configurazione della società moderna è in continua evoluzione, tanto che non
riesce a conservare la propria forma: la sua disposizione confusa e
camaleontica può essere elaborata e compresa solo attraverso l’ausilio della
Rete.
«[…]
ciò di cui il pensiero ha bisogno oggi è una nuova architettura della
complessità che rappresenti, e al contempo articoli, la logica incarnazione
della rete».
L’apparato
culturale di ogni società e i suoi aspetti tecnologici hanno ridefinito
l’architettura del mondo reale. Pilastro di questo mondo contemporaneo in tutte
le sue sfaccettature, metafora rappresentativa del pensiero in rete e
dispositivo delle reti del pensiero è il concetto di “architettura liquida”.
Tutto
ciò che nell’architettura classica è ritenuto stabile e durevole viene dissolto
nel mondo liquido: le nuove tecnologie multimediali rendono flessibili e
dinamiche le strutture architettoniche per soddisfare le esigenze della società
liquida, la cui forma è in continua trasformazione, proprio perché gli
individui che la compongono e le loro relazioni sono in continuo mutamento.
Questo
tipo di architettura «smaterializzata, danzante, difficile, del ciberspazio,
fluttuante, eterea, instabile, trasmissibile simultaneamente a tutte le parti
del mondo ma tangibile solo in modo indiretto, può diventare l’architettura più
duratura che sia mai stata concepita».
L’Australian Centre for Contemporary Art supera
molti costrutti trascendenti dell’architettura, come i principi forma/funzione
ora non più oppressi dall’umanesimo, dalle immagini storiche e la tradizionale
concezione di uno spazio in cui presentare opere d’arte.
Il
Centro australiano dunque si libera dalle oppressione dei costrutti ereditati
dalle architetture passate e presenti.
I
riferimenti di ACCA alla traccia o alla cancellazione sono costruiti e
decostruiti per trovare un nuovo significato alla struttura che facesse
riferimento anche alla storia del sito e al futuro del Centro.
Qualsiasi
utente ad un primo sguardo può leggere in maniera diversa e interpretare
soggettivamente la costruzione, come avviene per un testo scritto.
La
facciata che possiamo definire “fratturata” circonda le pareti non rettilinee e
altera la distribuzione e i rapporti tra le sale interne; qui, i volumi
astratti si uniscono per creare una vera e propria performance scultorea.
La
distorsione in tale contesto non è più vista come un errore, un fallimento o
qualcosa di sbagliato ma come una nuova possibilità dell’architettura, concetto
alla base del decostruttivismo architettonico.
L’intenzione
degli architetti australiani Wood e Marsh fu di suscitare nello spettatore un
effetto di spaesamento nel momento in cui entrasse nella struttura, la quale ha
il compito di “sfidare” in un certo qual modo l’occupante.
La
manipolazione e la distorsione imprevedibile di superfici non rettilinee, la
combinazione di geometrie arcane e contorte, la materialità dell’acciaio Corten
offrono allo spettatore un ampio spettro di interpretazioni fondate sui canoni
australiani.
Il
design dell’Australian Centre for
Contemporary Art, attraverso
l’inclinazione delle sue pareti e i materiali utilizzati per i rivestimenti,
contesta agli altri musei la loro architettura convenzionale e il loro ruolo coercitivo
in quanto istituzione.
Le
forme irregolari, le altezze di dimensioni diverse, le pavimentazioni
discordanti giocano un ruolo importante in una concezione logocentrica.
Da
sempre l’arte è stata definita come un’attività umana senza uno scopo preciso,
mentre l’architettura, oltre ad avere un ruolo estetico, è funzionale. Di
conseguenza se la scelta delle forme architettoniche non è specificatamente
collegata a finalità esterne, il fattore artistico diviene la parte dominante.
Roger
Wood e Randal Marsh adottarono tattiche di architettura iconica che possono
essere facilmente interpretabili, anche da una macchina in corsa. Queste
strategie, infatti, non sono adottate solo per comunicare visivamente il
programma del Centro, ma anche per dare un punto di riferimento
all’automobilista.
La
zona dell’ingresso principale si articola in maniera analoga: la
superficie non è da considerare come una semplice apertura, in quanto
l’elemento appuntito di
due metri, che sovrasta la costruzione ed esce fuori dall’edificio come
un
monòlito, è un vero e proprio elemento architettonico-linguistico.
Grazie ad
esso il RAIA (Royal Australian Institute
of Architects) nel 2003 ha consegnato agli architetti australiani Roger
Wood e Randal Marsh un premio per la forma scultorea monolitica dell’Australian Centre for Contemporary Art.
Ancora
una volta ritroviamo un riferimento ben preciso alla morfologia del paesaggio
australiano: l’elemento appuntito che sovrasta l’ingresso principale di ACCA
rimanda al più grande monòlito del continente, l’Uluru, o Ayers Rock,
lungo circa 3 kilometri e largo 2 con una circonferenza di 9 kilometri situato
nel Parco nazionale Uluru-Kata Tjuta,
450 km a sudovest della città di Alice
Springs.
Wood
e Marsh non fecero riferimento solo alla forma dell’Uluru, ma anche ai suoi colori: l’alba e il tramonto, dunque i
cambiamenti climatici ma anche i diversi mesi dell’anno, comportano alterazioni
del tipico colore marrone-rossastro della parete rocciosa, il cielo stesso
riflette una gamma di colori che va dal rosa al viola al rosso scuro, questo
avviene perché la parete rocciosa contiene minerali come i feldspati che
riflettono particolarmente la luce del sole, mentre il suo tipico colore rosso è dovuto all’ossidazione.
Come
per l’Uluru, anche per l’Australian Centre for Contemporary Art
la luce è una questione di notevole importanza per il risultato visivo finale: dall’esterno
il Centro sembra essere illuminato dalla luce del sole anche di notte, grazie
all’attenta posizione degli impianti che ricreano giochi di luce ed ombra
simili a quelli che vediamo durante il giorno.
ACCA
vanta una storia lunga ben trent’anni: le sue origini risalgono al 1983, quando
il Ministero per le Arti (Ministry for
the Arts), formato da un piccolo gruppo di sostenitori d’arte locali, sotto
la guida di Race Mathews, propose di creare un luogo dove gli artisti e l’arte
contemporanea potessero esprimersi.
Dal
primo momento il Centro promosse pratiche artistiche contemporanee e innovative,
supportò gli artisti nel loro lavoro, incoraggiò e promosse la fruizione di
arte contemporanea, incoraggiando tutti i settori delle arti visive in
Australia.
Il
primo luogo che sembrò adatto ad accogliere quel tipo di arte che si stava
diffondendo in quel periodo fu un pittoresco cottage su una collinetta dei Royal
Botanic Gardens, presso Dallas Brooks
Drive, sembrò il posto perfetto per presentare opere d’arte contemporanea,
piuttosto che raccoglierle. Nonostante le sue potenzialità, il cottage era però lontano dal centro
città.
ACCA
riuscì a connettere la città di Melbourne con le maggiori istituzioni
internazionali di arte contemporanea, promuovendo così un importante scambio
culturale. La città fu rigenerata attraverso il nuovo audace design degli spazi
espositivi qui presenti.
Dei
finanziamenti stanziati nel 1997 per l’arte contemporanea potè beneficiare
anche il Centro riuscendo così a quadruplicare il suo spazio: il nuovo edificio
progettato da Wood e Marsh (vincitori del concorso indetto nel 1998) fu
edificato nella zona delle arti di Malthouse
Plaza, precisamente nella 111 Sturt
Street, nei sobborghi di Southbank.
I due architetti diedero il via ad una fase rivoluzionaria nella storia di
ACCA.
Dall’apertura
del nuovo Centro il numero di visitatori è aumentato del 300% ed è continuato
ad accrescere anno dopo anno.
Nonostante
ciò, la nuova ACCA ha iniziato la sua vita in una condizione economica
precaria, per questo motivo furono necessari ulteriori investimenti pubblici
per il sostentamento del Centro, delle sue istallazioni e le crescenti esigenze
dei visitatori.
ACCA
incrementò sempre più il numero dei visitatori, superando qualsiasi
aspettativa. Le riviste internazionali iniziarono a parlare del Centro e delle
sue iniziative, andando a consolidare così la sua crescente reputazione
internazionale. Inoltre, artisti di tutto il mondo divennero sostenitori di
ACCA, sponsorizzandola nel loro ambiente e tra i colleghi.
Per
avere sempre più visitatori, ACCA decise di introdurre nel suo programma
diverse opportunità per migliorare la fruizione da parte dei suo fans: ingressi VIP alle mostre, raccolte
fondi annuali e un Art Tour
internazionale.
Nel
corso della sua storia lunga ben trent’anni, l’Australian Centre for Contemporary Art ha lavorato con più di 2.300
artisti, curatori e scrittori; presentato quasi quattrocento mostre e prodotto
quasi trecento pubblicazioni.
È
stata la prima galleria ad avere un profilo online
attivo, ad essere presente sui vari Social
Network e a digitalizzare i suoi
trent’anni di storia in un archivio online
accessibile a tutti e in qualsiasi momento.
L’arte
e il pubblico sono stati il motivo del successo di ACCA: chiunque entrasse in
questa galleria non solo ammirava le opere lì esposte, ma, cosa più importante,
le condivideva postandole su Facebook
e Twitter, ne parlava sui vari blog dedicati all’argomento, favorendo
così la divulgazione e la diffusione dell’arte contemporanea.
L’Australian Centre for Contemporary Art oggi
non è solo un’icona di Melbourne, ma è soprattutto una struttura architettonica
identificabile in tutto il mondo.
L’impegno
di ACCA è ancora quello di connettere gli artisti locali con quelli
internazionali, commissionando opere d’arte contemporanea ambiziose e
provocatorie.
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Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA
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