«Lascio
ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si
biforcano», fa scrivere Borges a Ts’ui Pên nel racconto omonimo
incluso in Finzioni
(1941).
Ricerca di una centralità come circolarità e tautologia implosa nel
tempo, la labirintica immagine dello scrittore argentino ripropone,
in un apparente ribaltamento, le cronotopie proustiane affinché
«s’imponga
un futuro che sia irrevocabile come il passato».
Se multiple visioni di
biforcazioni nel tempo strutturano il testo borgesiano, concezioni e
percezioni spaziali, ma anche temporali, di giardini e parchi
attraversano valutazioni architettoniche, tratti figurativi, trame
letterarie in relazione allo scenario urbano italiano della prima
parte del Novecento.
Giardini dinamici /
immobili
Apparentemente del tutto
divergenti, interpretazioni dello spazio-tempo provengono
dall’avanguardia futurista e dalle ambientazioni metafisiche.
Manifesti,
dipinti e progetti del futurismo proclamano l’avvento di una
«bellezza passeggera», all’insegna della valenza poetica di un
progresso chiamato a demolire il mondo e a ridefinirlo in modo
effimero. La percezione di una trasformazione urbana – in atto o
possibile – diviene il punto di partenza di una mitologia
dell’avvenire tesa a creare una prospettiva rivoluzionaria nel
campo estetico e nella società. Sviluppo amplificato delle
intuizioni presenti nell’armamentario ideologico-figurativo del
gruppo, dal Manifesto
di fondazione del 1909 alle prime rappresentazioni pittoriche, lo
sgranarsi di proclami tecnico-teorici sottolinea la simbiosi tra
dinamismo, costruzione della modernità e appello a vedere il mondo
con sguardo differente e caduco.
Il
Manifesto
tecnico dei pittori futuristi,
firmato l’11 aprile 1910 da Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e
Severini, fa appello alla Natura e alla sua violenta cromia in chiave
anti-accademica e anti-museale:
«Per
concepire e comprendere le bellezze nuove di un quadro moderno
bisogna che l’anima ridiventi pura; che l’occhio si liberi dal
velo di cui l’hanno coperto l'atavismo e la cultura e consideri
come solo controllo la Natura, non già il Museo! Allora, tutti si
accorgeranno che sotto la nostra epidermide, non serpeggia il bruno,
ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il
verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e
carezzevoli! […] Il pallore di una donna che guarda la vetrina di
un gioielliere è più iridescente di tutti i prismi dei gioielli che
l’affascinano».
Costruzioni
e rappresentazioni urbane – come evidenziato dalla presentazione di
tre manifesti nel 1914, firmati da Boccioni, Prampolini e Sant’Elia
– fondono dinamismo spaziale, architettura e metafora della
costruzione come immagine privilegiata del conflitto e dello sviluppo
sociale, sorta di neo-natura per la contemporaneità. Sono il fulcro
di assi diacronici che metamorfizzano la progettualità in piano
ludico, ove l’edificio s’innalza come organismo altro,
sorta di neo-albero nel giardino dell’avvenire: e la città intera
si assimila a un parco-giochi, naturalmente
attraversato da nuove progettualità (fig. 1).
In Linee
forza di paesaggio
(fig.
2),
esposto anche come Forze
di paesaggio+giardino,
Balla rappresenta nel 1918 il dinamismo plastico dello spazio
vegetale, sculturalmente incurvato o teso verso l’alto con spigoli
e angoli acuti. Nonostante una maggiore propensione dell'artista ad atmosfere evocative, la sue raffigurazioni floreali confermano il carattere indifferenziato della scena presentata, potenzialmente fruibile come locus di una installazione tridimensionale o come lacerto vagamente costruito (fig. 3).
Arruolatosi
nel Battaglione Aviatori nel luglio 1915, impegnato successivamente
per circa tre anni in un’aviazione dalla caratura pubblicitaria e
commerciale, curatore nel 1925 dell’allestimento della Sala
italiana all’ “Exposition Internationale des Arts Décoratifs et
Industriels Modernes” di Parigi, nonché autore di Prospettive
di Volo (fig.
4), presentato alla Biennale di Venezia del 1926 e considerato la
prima opera di aeropittura, Fedele Azari (1895-1930) lega il suo nome
al manifesto La
flora futurista ed equivalenti plastici di odori artificiali.
L’incipit
esplicita le negatività da rifuggire:
«Dobbiamo
ormai constatare la decadenza della flora naturale che non risponde
più al nostro gusto. I fiori sono rimasti monotonamente immutabili
attraverso i millenni della creazione a delizia dei multiformi
romanticismi di tutte le epoche e come espressione del cattivo gusto
nei più banali decorativismi».
Se «la letteratura e la pittura
contemporanea» continuano ad abusare della tematica floreale con
immagini «trite» e «stucchevoli», Azari, in nome di una visione
sintetica della natura e del giardino, elenca in tre punti le
limitatezze e le mancanze della flora tradizionale, del tutto aliena
dal dinamismo plastico della contemporaneità futurista:
«1.
Le più decantate attrattive dei fiori sono costituite da delicatezza
di tinte, da sfumature di colori o da forme minuziosamente rabescate,
mentre tali qualità sono opposte al nostro gusto moderno che si
compiace di sintesi coloristiche e di stilizzazioni di forme.
2. La velocità ha rimpicciolito
per la nostra sensibilità visiva superfici e volumi, perciò i fiori
ci appaiono come piccole macchie di colore […].
3. Anche i
cosiddetti soavi profumi dei fiori risultano insufficienti alle
nostre nari che esigono sensazioni olfattive sempre più violente,
tanto che i profumi estratti dai fiori […] sono oggi completamente
soppiantati dagli inebbrianti profumi sintetici creati
dall’industria».
I soli due
pittori citati da Azari nel manifesto La
flora futurista sono
Watteau, che rappresenta con il suo stile l’esempio di un
decorativismo ormai trascorso, e un esponente dell’avanguardia
creatrice (fig. 5):
«Il
pittore futurista Depero ha già dato esempio di tali flore
fantastiche andando oltre la stilizzazione del fiore […] costruendo
plasticamente fiori inesistenti in natura».
Capisaldi dell’interpretazione
futurista della flora sono quindi strutturazione sintetica,
colorazione accesa – «violenta», secondo il lessico di Azari –
ed evocazione di profumi industriali:
«Ognuno
degli inebbrianti profumi creati dalla moderna industria per le belle
eleganti di Roma, Milano, Parigi potrà avere un equivalente plastico
floreale che lo interpreti. Inoltre ho allargato il campo delle
ricerche, costruendo interpretazioni plastico-coloristiche riuscite
molto espressive di alcuni fra gli odori più caratteristici
(benzina, acido fenico, cloroformio, ecc.)».
In apparenza del tutto differente
dalla prospettiva futurista, la visione metafisica cela increspature
e asperità dell’esistere tra solidità volumetriche e delineazioni
surreali. Ma anche de Chirico fa della città e del suo destino il
nucleo della propria riflessione, sottolineando che:
«Nella
costruzione delle città, nella forma architetturale delle case,
delle piazze, dei giardini e dei passeggi pubblici, dei porti, delle
stazioni ferroviarie, ecc., stanno le prime fondamenta d’una grande
estetica metafisica. I Greci ebbero un certo scrupolo in tali
costruzioni, guidati dal loro senso estetico-filosofico: i portici,
le passeggiate ombreggiate, le terrazze erette come platee innanzi i
grandi spettacoli della natura (Omero, Eschilo); la tragedia della
serenità».
Estetica
del costruito nel vuoto, dell’alzato sul piano, la prospettiva
dechirichiana di questi anni contempla l’aura della temporalità,
come nell’Enigme
de l’heure
del 1911 (fig. 6),
e crea ricomposizioni sintetiche di piazze ove gli elementi si
dispongono per la visione secondo una definizione spaziale
assimilabile a quella di un giardino zen
(figg.
7-8).
E le pagine
di suo fratello, Alberto Savinio, paiono davvero introdurre alla
dimensione dei «giardini costruiti». In Ascolto
il tuo cuore, città,
l’artista dedica a Milano – «dotta e meditativa: la più
romantica delle città italiane» – affetto e ironia,
evidenziandone, tra nebbia e legna bruciata dei camini, aspetti
raccolti e segreti: «città tutta pietra in apparenza e dura», è
invece «morbida di giardini “interni”».
Dico a
te, Clio,
del 1939, è nell’Avvertenza presentato da Savinio come «un
giardino», per poi aggiungere: «Giardino leggerissimo, nel quale
morivano i fantasmi dei fiori».
Svagato resoconto di viaggi tra Abruzzo ed Etruria laziale, il libro
oscilla in tenue equilibrio tra citazioni letterarie e ironia sui
misfatti della «modernità» in campo artistico e architettonico,
aprendosi con una delicata demistificazione del Vate:
«Sul
margine della pineta di Pescara è scritto: “Pineta Dannunziana”.
[…] Guardo con curiosità la piccola foresta, da che so ch’essa è
l’ “ispiratrice”. Porta con eleganza gli alti fusti dei suoi
pini, struzzi del regno vegetale. Per rispondere al mio stupore, la
pineta si scioglie dalla sua arborea natura e ricompone in forma di
donna. Ecco come nasce l’antropomorfismo».
Pur se
lontano dalla virulenza espressionistica di Gadda, Savinio condanna
anch’egli l’uso costruttivo e decorativo del cemento, che «manca
d’interiorità» e si diffonde perniciosamente nei parchi. Nella
Villa comunale di Guardiagrele, presso «la terrazza dorme un
laghetto artificiale, e un ponte di cemento lo attraversa al modo di
un cavalcavia. La balaustra del cavalcavia è di cemento e arieggia
tronchi d’albero intrecciati».
E poi, possibile incontro tra i
precedenti riferimenti, un altro passo di ambientazione abruzzese:
«Davanti
alla casa di d’Annunzio, a Pescara, lo spirito della poesia è
raccolto in simboli arborei: una quercia, un ulivo, un lauro salgono
su dal cemento della piazzetta, che un muro egualmente di cemento
chiude da una parte. […] Manca il melograno, che è stato
trapiantato nel cortile».
Introdotta
dalle parole attribuite a Charun: «Hai riposato abbastanza: ora
vieni, che ti porto al paese mio», la sezione «etrusca» del libro,
dedicata a Cerveteri
e Tarquinia, disvela i caratteri del «giardino» cui sembra pensare
Savinio: un giardino che, confrontandosi costantemente con essa
attraverso il viaggio o la citazione colta, vede l’immagine della
morte, possibile prospettiva dei Campi Elisi come alternativa alle
tragedie terrene in una pagina su Tarquinia del 5 settembre 1939:
«
“Perché parti? Tuona la guerra sul mondo. Resta con noi e ti
troverai benone”. Che risolvere? Tornare tra i vivi? Ascoltare il
consiglio degli Etruschi morti?».
Giardini di carta
Pittore e scrittore, Savinio
offre una delle rappresentazioni del nesso problematico-strutturale
tra natura antropizzata e costruzioni/spazi urbani. Altre immagini di
giardini e parchi attraversano l’ambito letterario della prima
parte del Novecento.
La
coscienza di Zeno,
pubblicato nel 1923, contribuisce alla destrutturazione del romanzo
attraverso la mobile categoria del tempo,
soggettivo o raccontato dall’esterno, comunque sostanzialmente
inattendibile. Ma l’opera gioca anche con la categoria dello
spazio,
che rappresenta il territorio ove il soggetto può perdersi o
provvisoriamente ritrovarsi. E lo spazio del «giardino» assume
particolare rilevanza nelle pagine sveviane: se il temine vi ricorre
trentuno volte, osserviamo come esso si presenti con l’iniziale
minuscola quando ci si riferisce a quello individuale, di casa –
«Entrai nel giardino che circonda la nostra villa. […]» –,
mentre sia scritto con la maiuscola sedici volte, formando un binomio
con l’aggettivo «Pubblico», in riferimento al parco cittadino.
L’area verde urbana diviene uno
snodo nella trama del racconto sveviano, corrispondendo allo spazio
percorso dal protagonista quando si allontana dalla parte della città
a lui nota e familiare per compiere una visita che diverrà l’avvio
di una relazione extra-coniugale:
«Percorremmo
a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico. Era una
parte della città ch’io non vedevo mai. Entrammo in una di quelle
case cosidette di speculazione, che i nostri antenati s’erano messi
a fabbricare quarant’anni prima, in posti lontani dalla città che
subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia più cospicuo
delle case che si fanno oggidì con le stesse intenzioni».
Sorta di
paràdeisos,
prima ignoto e in seguito recinto di afflati d’amore,
il
parco cittadino accompagna Zeno nelle sue scoperte:
«
[…] io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe.
Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con
la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto
puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano.
Poi, non avendo avuto la fortuna di imbattermi, come speravo,
casualmente in lei, uscii dal giardino per movermi proprio sotto le
sue finestre».
Il parco,
teatro simbolico delle avventure di Zeno e spartiacque tra un al
di qua
e un al
di là
– «E ad onta che fosse oramai assodato ch’io avevo
l’autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto
grande s’era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il
giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta» –,
è il “Muzio de Tommasini”, dal nome del podestà di Trieste che
tra il 1854 e il 1864 ne patrocina la realizzazione su terreni di un
ordine religioso acquistati dal Comune. Il progetto iniziale prevede
la valorizzazione dell’area attraverso la costruzione di edifici
residenziali e di una chiesa, ma la superficie viene successivamente
destinata alla realizzazione di un parco.
Nella zona
più alta del giardino «si trovano l’edificio già destinato a
caffetteria e il gazebo per i concerti, mentre nella parte bassa più
recente, sono collocate le sculture erette in onore dei cittadini
illustri nel campo della cultura. L’area verde, cui si accede
attraverso sette entrate, è ampia (30.000 mq.) e pianeggiante, con
un alto valore paesaggistico».
Come
osserva Stefano Mengoli, la sistemazione dell’insieme riprende i
moduli dell’Ottocento inglese, attraverso percorsi ondulati e
parterres
alberati.
Dotato di sette ingressi – « […] Carla mi dava un appuntamento
[…] all’ingresso posto di faccia alla sua casa» –, il giardino
ospita 368 esemplari arborei di grandi dimensioni e di pregio, fra i
quali platani, olmi, querce, nonché specie esotiche come cedri,
araucaria ed altre. Ricco è anche il patrimonio arbustivo, con
aiuole costituite da bosso, alloro, ligustro, viburno, pittosporo,
aucuba, tasso e agrifoglio. Al centro del giardino si trovano un
laghetto, l’area giochi per bambini e una Dama gigante per tornei
di scacchi.
In altro
contesto, Le
ambizioni sbagliate,
romanzo pubblicato da Moravia nel 1935, mette in scena personaggi
intenti in lunghi dialoghi in ambienti interni. A fronte di uscite
essenzialmente in auto nelle strade di Roma, assume rilievo la
rappresentazione di spazi di passaggio tra interno ed esterno o tra
privato e pubblico, come il vano delle scale del caseggiato popolare
attraversato una mattina festiva da uno dei protagonisti:
«L’aria
della scala era piena dei differenti odori dei pranzi domenicali che
si stavano cucinando in ciascuno degli appartamenti del casamento.
[…] Si udivano, dietro le porte chiuse, correre e gridare per gli
stretti corridoi i bambini liberi dalle occupazioni scolastiche e
annoiati dalla mattinata troppo lunga. […] fumosi raggi di sole
invernale passavano attraverso i finestroni e si perdevano nella
tromba a spirale».
A questo micro-universo di scale
e di odori, ove gli edifici mostrano la forza oscura di prigioni a
stento permeabili, fa riscontro la bizzarra costruzione
misticheggiante – comunque definita «moderna» secondo il lessico
architettonico-propagandistico dell’epoca – di una villa
alto-borghese. Ampiamente rinnovata rispetto all’originaria
destinazione d’uso conventuale, è situata nei pressi del Giardino
Zoologico:
«I
Tanzillo abitavano in una gran fabbrica, che un tempo, prima che si
incominciasse a costruir case fuori delle mura, era stata un convento
di frati perduto fra gli orti e ora, rimaneggiata e restaurata come
una villa moderna, sorgeva in fondo a un giardino fra le altre ville
e gli altri giardini di uno dei quartieri più recenti della città.
La villa aveva il suo ingresso sopra una strada in pendenza che
correva tutto intorno al muro di cinta del Giardino Zoologico;
guardando dalla strada, si potevano veder sporgere al disopra di quel
muro le immense uccelliere di ferro nelle quali stavano chiuse le
aquile, gli avvoltoi e gli altri rapaci; oppure i dirupi azzurrognoli
delle montagnole di cemento tra i quali si aggiravano in falsa
libertà i leoni, le tigri e gli orsi; e a tutte le ore, ma
soprattutto prima dei pasti, insieme col puzzo pesante dei covili,
giungevano alla villa i lunghi ruggiti delle bestie affamate, quanto
mai strani in quel quartiere solitario e nuovo».
Se il quartiere e le
caratteristiche originarie dell’edificio fanno di questo
ex-convento qualcosa di completamente diverso rispetto ai caseggiati
della piccola borghesia (fig. 9), la descrizione di Moravia sembra
amplificare e rendere intrinsecamente ridicolo, per progressivo
slittamento dall’idea della città-giardino all’immagine dello
zoo, il sogno idillico proposto anni prima dall’architetto Marcello
Piacentini:
«Vorrei
lumeggiarvi, così come io la vedo, la nuova città giardino: casette
chiare, linde, nude di ornati, ma ricche di loggette, di terrazze, di
pergolati [...] Un filo di ferro o una siepe di mortella le separa
dal pubblico, e non quelle orribili, pesanti, mastodontiche
cancellate dei nostri quartieri di villini (dei Prati di Castello per
esempio), che sembrano voler difendere i passanti dagli assalti delle
belve feroci. E ovunque fiori, arbusti e fontanelle canore».
Nel
romanzo, la villa ex-convento si trova proprio nei pressi del
Giardino Zoologico, trasformando la tranquilla scena abitativa
immaginata da Piacentini in una sorta di esotico incubo rumoroso.
E, attraversando il cancello d’ingresso, si entra in un giardino:
ma un’architettura che si vuole solenne maschera la limitatezza di
uno spazio verde che si sarebbe immaginato come un ampio parco:
«Dalla
strada si accedeva al giardino, per un solenne cancello nero e
dorato, dietro il quale certi grandi alberi piantati nel mezzo di
un’aiuola verde e pettinata, certi viali ghiaiati, certo silenzio
attonito come di foresta nel quale si udivano distintamente spezzarsi
i rami secchi e squittire gli uccelli, lasciavano immaginare chissà
quale vasto parco. Ma era una falsa impressione, il parco non era che
un simulacro, buono tutt’al più ad ingannare la fantasia
convenzionale dei passanti, e consisteva in pochi alberi, in una sola
aiuola e in due viali di accesso che partendo dal cancello e girando
l’uno a destra e l’altro a sinistra intorno all’aiuola
confluivano assai presto in un piazzale di fronte alla villa».
Nel
romanzo, analogamente a quanto sottolinea il giovane protagonista del
racconto moraviano L’architetto,
uno degli ambiti in cui la falsità può manifestarsi in modo nefasto
è quello del rapporto tra disegno costruttivo e piano funzionale
dell’edificio. Sorta di micro-storia degli stili, attraverso
l’analisi critica presente nel racconto citato la tipologia
conventuale è definita una «struttura razionale» in quanto
confacente alla funzione originaria.
Ne Le
ambizioni sbagliate,
la trasformazione della matrice conventuale in abitazione «moderna»
alto-borghese si configura invece come un sotterfugio tecnico segnato
dall’irrazionale, dal falso e dal «brutto»:
«
[…] Ma anche più che sulla facciata, il contrasto fra le
intenzioni dell’architetto e la struttura dell’antico convento si
scorgeva nella disposizione interna della villa. […] Restavano così
del convento i soffitti bassi, il gran numero di camerette tutte
eguali, la mancanza di stanze spaziose che potessero servire da
saloni, la disposizione irregolare e decentrata della pianta, tutta
complicata di passaggi, di anticamere, di scale e di corridoi».
Caratterizzate
dall’ «unità indissolubile della vita
all’interno delle case e della possibilità di guardarle
dall’esterno»,
le città del Rinascimento e del Barocco offrivano la percezione di
una «bellezza onesta» estrovertita, ove la degna visione di edifici
prossimi contribuiva a sostanziare il godimento estetico di chi
viveva nella propria dimora. E cornici marcapiano, colonne, lesene,
balconi lavorati, arcate, logge, giardini, parchi denotavano così
attenzione per l’arte della bellezza e per un’appropriata
messinscena, presentazione di un bene che si offre, rifrangendosi, in
pubblico,
come in ambito strettamente urbanistico sottolineerà Piacentini:
«Il
senso dell’arte che dovrebbe essere posseduto da ogni cittadino,
regolatore di ogni atto della sua vita, di ogni movimento, questo
senso […] potrebbe rendere incommensurabili benefici sociali; solo
comprendendo ed amando il bello, si acquista il senso del rispetto
verso se stesso, verso gli individui e verso le cose. Ma come
coltivare questa educazione, se non predisponendo l’ambiente? Come
sviluppare questo senso estetico nel cittadino se non creandogli
intorno, nelle strade, nelle piazze, nei giardini, tutta un’atmosfera
di armonia e di bellezza?».
Giardini dell’architettura
e del potere
Nel 1931 è
approvato il piano regolatore della capitale coordinato da
Piacentini. La gloriosa potenza del passato imperiale è rivendicata
in quanto patrimonio nazionale riscoperto dalla «rivoluzione
fascista». Ma, dietro quest’immagine definita di Roma,
caratterizzata da settori urbani differenti (edifici del potere,
quartieri dei villini, quartieri con edifici sovvenzionati dallo
Stato, costruzioni popolari in zone semi-periferiche), il piano del
1931 concede la possibilità di numerose deroghe. Si osserva in
proposito: «Le palazzine caratterizzano la crescita di Roma
contemporanea [...] e sono possibili in seguito alla variante del
1920 al regolamento edilizio, che amplia le cubature e le altezze dei
villini, rendendoli più adeguati alle reali possibilità economiche
del ceto medio-alto […] Le palazzine divengono, negli anni trenta,
l’occasione di lavoro per molti giovani architetti “moderni”».
E, nel 1932, Mussolini evidenzia
la terza posizione raggiunta da Roma – dopo Milano e Torino – nel
settore della piccola e media industria, glorificando così
un’immagine multipla della capitale: città della storia, del
potere spirituale, delle decisioni politiche e della vita economica.
Occorrerà rivestire questo tessuto urbano, storico e mitizzato al
contempo, di un volto architettonico all’altezza delle «eterne»
ambizioni del fascismo: è il compito riservato ai progettisti
dell’urbanistica romana tra il 1936, anno della proclamazione
dell’Impero, e il 1942, anno della prevista Esposizione Universale
e celebrazione del ventennale del fascismo.
Se Banfi e
Belgiojoso, nel 1934, si scagliano contro la concezione antica della
città – che «vive sull’ambiguo»
e non deve perdurare, poiché lo Stato ha ormai adottato una linea
politica «decisa» in nome di una concezione «unitaria romana» –,
occorre quindi fare spazio «alla nuova città, che conscia del
proprio essere distingue nettamente, come nell’attività dell’uomo,
lavoro e riposo: il verde della natura si alternerà alla casa nello
schema geometrico secondo il quale la libertà individuale è
salvaguardata nel quadro della chiara organizzazione collettiva».
Se
all’interno di una matrice tendenzialmente razionalistica, e
sovente nel tardo Ottocento programmaticamente positivistica, si sono
delineate riflessioni sui parchi e i giardini – visti comunque come
elemento sostanzialmente accessorio o “residuale” rispetto al
costruito – Piacentini, con l’ambizione di procedere al nuovo
modello della forma
urbis
di Roma all’interno di un piano predefinito, si sofferma nel 1938
sul progetto urbanistico dell’E42, evidenziandone la principale
peculiarità: la prevista Esposizione Universale, oltre ad inserirsi
nel novero delle grandi manifestazioni internazionali, vuole
celebrare il ventennale del fascismo delineando, attraverso la
creazione di un intero quartiere monumentale, una linea di
collegamento ed espansione verso il mare, con insistita simbologia
politica. Diversamente dagli schemi radiali e a stella delle
esposizioni americane e francesi,
notevoli scenograficamente ma carenti di logica funzionale, il piano
dell’E42 è improntato all’urbanistica romana:
«Non
è tuttavia l’applicazione rigida e sistematica del sistema a
scacchiera classica […] dove la uniformità delle esigenze impone
una ripetizione di ritmi, di larghezze e di tipi stradali propri ad
un comune quartiere di città. Qui s’è tenuto conto della
eccezionalità di questo nuovo braccio di Roma, e nel tracciare –
con ordine gerarchico – le piazze, i viali, i giardini, i parchi e
le fontane, ci si è sempre lasciati guidare dal concetto di veder
grande e unitariamente. È stata proprio questa volontà di
costituire un blocco urbanistico e grandioso che ha prevalso, fin dal
primo momento, nella scelta della località per l’Esposizione
Universale».
Nella percezione piacentiniana,
un nuovo quartiere rivolto verso il «Mare nostrum» non può non
dotarsi di spazi verdi e di acque, come le fontane o il laghetto. Per
quello che nel dopoguerra diverrà l’EUR, si immaginano così
«ordine gerarchico» della concezione politica e della visione
spaziale; monumentalità temperata dal chiarore mediterraneo e dai
ricordi di scene dechirichiane come architetture dell’inconscio;
archi e marmi che conducono allo specchio d’acqua centrale.
Oltre l’area dell’E42, la
visione complessiva della «nuova Roma» sembra offrire a Piacentini
l’opportunità di riprendere e sviluppare le considerazioni sui
giardini dei villini, in un’ottica che trascolora dal parco al
parco archeologico:
«È
stato ampiamente provveduto alla creazione di nuovi parchi, uno
grandissimo comprendente tutta la vasta zona cosparsa di antichità
situate tra la Via Ardeatina e la Via Appia Nuova (comprendente le
catacombe e le tombe di Via Latina), e il cui asse è costituito
dalla Via Appia Antica: meraviglioso cuneo verde che dalle campagne
del Sud giunge fino ai piedi del Campidoglio. La zona archeologica
viene così definitivamente completata. […] Catene di giardini ad
est saranno costituite dalle linee degli acquedotti. Altre zone verdi
per il pubblico stabilimmo a Tor dÈ Schiavi, a Pietralata, a Monte
Sacro presso l’Aniene. Questi Parchi si sommano a quelli già
esistenti del gruppo di Villa Borghese, Pincio, Valle Giulia […];
del gruppo del Gianicolo […]; del gruppo di Monte Mario e della
Farnesina».
Critico, se
non angosciato, rispetto al piano di Le Corbusier per una Parigi di
grattacieli costruiti lungo ampie strade,
Piacentini punta invece ad evidenziare l’aspetto circolare di Roma,
attraverso una cintura verde come anello morbidamente permeabile,
perimetro di un’Urbe attenta al proprio sostentamento:
«Tali
giardini, – alcuni dei quali costituiscono quadri naturali tra i
più meravigliosi – saranno tra loro allacciati da ampi viali
alberati, in modo da creare un vasto, incommensurabile anello verde,
veramente unico al mondo. I parchi sono distribuiti fra i vari
quartieri in modo che ovunque siano rapidamente e facilmente
accessibili. Nei più vasti di essi si sono disposti campi sportivi,
prati di giuochi per bambini, piste per cavalli, ecc. Ancora s’è
pensato, per non incorrere in troppo forti spese di impianto e di
manutenzione dei prati e dei boschi, alla creazione di grandi
orti-giardini, che costituiscano sane zone di interruzione di
fabbricati, e possano, nello stesso tempo, meglio alimentare la
cittadinanza con i prodotti della terra».
Per quella che si definisce «la
grande collana dei parchi romani» è ancora riservata particolare
attenzione nelle riflessioni di Piacentini:
«Si
tratta della sistemazione della grande esedra collinosa dell’Ovest
e del Nord. Qui sorgerà il quartiere più nobile e lussuoso della
città, prossimo al centro e nello stesso tempo appartato dal tumulto
delle grandi linee di traffico, percorso da strade a mezza costa che
s’allargheranno frequentemente in piazzali panoramici: i parchi e i
giardini pubblici saranno intramezzati a quelli privati e, perchè la
sistemazione non debba riuscire troppo onerosa, si dovrà anche far
luogo a molte costruzioni; queste, lungi dal nuocere, potranno
aggiungere varietà e bellezza alla composizione, purchè
l’ubicazione, la forma e il colore siano da parte delle autorità,
sottoposti, caso per caso, a un controllo rigidissimo che tenga il
massimo conto del quadro panoramico».
E anche nel progetto
piacentiniano dell’E42 si definisce una quota per la natura in
città, sebbene poi ridotta nel dopoguerra rispetto alle intenzioni
originarie, affidando a De Vico la consulenza per la progettazione
dei parchi e giardini dell’esposizione. Protagonista della
valorizzazione del verde pubblico a Roma, dalle prime realizzazioni
del Serbatoio dell’acqua nel Parco dei Daini a Villa Borghese
(1922-25) (fig. 10) e del Parco della Rimembranza a Villa Glori
(1923-24) ad una serie di programmi che giungono al secondo
dopoguerra:
ampio progetto per il Parco di
Monte Mario, con terrazzamenti, scalee e vie d’acqua –
realizzato in misura molto ridotta solo negli anni ’50;
giardini nell’area delle Terme
di Traiano sul Colle Oppio;
fontana
ottagonale, tra quinte verdi, in piazza Mazzini, ascritta da
Piacentini alla «genialità dell’architetto De Vico [il quale]
v’ha creato nel mezzo un bel giardino, che attira l’attenzione
distraendola dagli sconquassati casonacci»;
confluire di interessi
ambientali e archeologici nel Parco del Monte Testaccio del 1931;
del 1939 è il Parco di Porta
San Paolo (poi Parco della Resistenza);
mentre per l’E42 De Vico
progetta il giardino centrale delle cascate – realizzato con
modifiche alla fine degli anni ’50 – e diverse aree verdi, tra
le quali quella bina del Giardino degli Ulivi (fig. 11).
Progettato
nel 1937, iniziato nel 1940 pochi metri al di sopra del livello
stradale di Viale dell’Umanesimo, deve originariamente
rappresentare un luogo di riposo e meditazione su una collinetta con
vista libera sulla città e l’agro circostante. Interrotti i lavori
per il secondo conflitto mondiale, la sistemazione del giardino è
completata nel 1952, con un disegno d’assieme fortemente
ridimensionato, per contenere i costi, e con un panorama edilizio del
tutto mutato a seguito di una lottizzazione che circonda l’area
verde di villini e costruzioni. Sottolineato che si «tratta di un
grande giardino, con un circolo irregolare di lastre in cappellaccio
di travertino che delimitano un vasto spazio depresso, a sua volta
circondato dal circolo degli Ulivi. Le lastre di travertino simulano,
a prima vista, dei movimenti tettonici […]», Francesco Tonini
ricorda che il «giardino ha un “gemello” anche se non proprio
perfettamente uguale nelle dimensioni, che si trova ad est in
posizione simmetrica rispetto all’asse costituito dalla Cristoforo
Colombo, purtroppo perennemente chiuso da una recinzione».
Colpita dalla guerra, la visione
urbana autarchica e fascista, para-archeologica e totalitaria, viene
infine sommersa da altre forze, altre speranze, altri miti.
Luoghi
della storia più che della natura, talvolta programmaticamente
investiti dalla modernità come essenza meccanizzata, prima delle
utopie land
art
o esteticamente ludiche da «Giardino dei Tarocchi»; rifugio di
possibili Resistenze,
dal Barone rampante alla rivendicazione di altri
percorsi sociali, giardini e parchi sono ancora viluppi di
contemporaneità, come nell’Istanbul
narrata da Orhan Pamuk – ove si racconta, sorta di Borges
euro-asiatico, di «un giardino di stile occidentale a forma di
labirinto, con rose, acacie e lillà» – o come i ricordi personali
dello scrittore: «Quando guardavo dalla finestra non vedevo solo il
mare e i battelli che pian piano avevo cominciato a riconoscere, ma
anche i giardini tra i palazzi e le case, le antiche ville signorili
ancora in piedi, i vecchi muri e i bambini che giocavano. Come in
molte abitazioni di Istanbul che si affacciano sullo stretto, davanti
al palazzo c’era una discesa lastricata che arrivava, curvando, al
mare».
Ma questa,
che non vuol esser conclusione, «potrebbe essere definita ara
taksim,
come si usa nella musica ottomana tradizionale: significa intermezzo
ed è solo strumentale. Dato che la parola taksim
significa anche dividere, spartire, e indica il luogo dove l’acqua
si divide in due, gli abitanti di Istanbul chiamarono Taksim (fig.
12)
l’altopiano
su cui era costruito il centro di distribuzione dell’acqua, e dove
Nerval passava le sue giornate guardando il panorama, i venditori e i
cimiteri. Ancora oggi chiamano così quel posto dove ho trascorso la
mia vita […]».
NOTE
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