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Immagini di giardini e scenari urbani del Novecento  

Ettore Janulardo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 5 Gennaio 2015, n. 748
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Area Architettura

«Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano», fa scrivere Borges a Ts’ui Pên nel racconto omonimo incluso in Finzioni (1941). Ricerca di una centralità come circolarità e tautologia implosa nel tempo, la labirintica immagine dello scrittore argentino ripropone, in un apparente ribaltamento, le cronotopie proustiane affinché «s’imponga un futuro che sia irrevocabile come il passato».

Se multiple visioni di biforcazioni nel tempo strutturano il testo borgesiano, concezioni e percezioni spaziali, ma anche temporali, di giardini e parchi attraversano valutazioni architettoniche, tratti figurativi, trame letterarie in relazione allo scenario urbano italiano della prima parte del Novecento.


Giardini dinamici / immobili

Apparentemente del tutto divergenti, interpretazioni dello spazio-tempo provengono dall’avanguardia futurista e dalle ambientazioni metafisiche.

Manifesti, dipinti e progetti del futurismo proclamano l’avvento di una «bellezza passeggera», all’insegna della valenza poetica di un progresso chiamato a demolire il mondo e a ridefinirlo in modo effimero. La percezione di una trasformazione urbana – in atto o possibile – diviene il punto di partenza di una mitologia dell’avvenire tesa a creare una prospettiva rivoluzionaria nel campo estetico e nella società. Sviluppo amplificato delle intuizioni presenti nell’armamentario ideologico-figurativo del gruppo, dal Manifesto di fondazione del 1909 alle prime rappresentazioni pittoriche, lo sgranarsi di proclami tecnico-teorici sottolinea la simbiosi tra dinamismo, costruzione della modernità e appello a vedere il mondo con sguardo differente e caduco.

Il Manifesto tecnico dei pittori futuristi, firmato l’11 aprile 1910 da Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini, fa appello alla Natura e alla sua violenta cromia in chiave anti-accademica e anti-museale:

«Per concepire e comprendere le bellezze nuove di un quadro moderno bisogna che l’anima ridiventi pura; che l’occhio si liberi dal velo di cui l’hanno coperto l'atavismo e la cultura e consideri come solo controllo la Natura, non già il Museo! Allora, tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide, non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli! […] Il pallore di una donna che guarda la vetrina di un gioielliere è più iridescente di tutti i prismi dei gioielli che l’affascinano»1.

Costruzioni e rappresentazioni urbane – come evidenziato dalla presentazione di tre manifesti nel 1914, firmati da Boccioni, Prampolini e Sant’Elia – fondono dinamismo spaziale, architettura e metafora della costruzione come immagine privilegiata del conflitto e dello sviluppo sociale, sorta di neo-natura per la contemporaneità. Sono il fulcro di assi diacronici che metamorfizzano la progettualità in piano ludico, ove l’edificio s’innalza come organismo altro, sorta di neo-albero nel giardino dell’avvenire: e la città intera si assimila a un parco-giochi, naturalmente attraversato da nuove progettualità (fig. 1).

In Linee forza di paesaggio (fig. 2), esposto anche come Forze di paesaggio+giardino, Balla rappresenta nel 1918 il dinamismo plastico dello spazio vegetale, sculturalmente incurvato o teso verso l’alto con spigoli e angoli acuti. Nonostante una maggiore propensione dell'artista ad atmosfere evocative, la sue raffigurazioni floreali confermano il carattere indifferenziato della scena presentata, potenzialmente fruibile come locus di una installazione tridimensionale o come lacerto vagamente costruito (fig. 3).

Arruolatosi nel Battaglione Aviatori nel luglio 1915, impegnato successivamente per circa tre anni in un’aviazione dalla caratura pubblicitaria e commerciale, curatore nel 1925 dell’allestimento della Sala italiana all’ “Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes” di Parigi, nonché autore di Prospettive di Volo (fig. 4), presentato alla Biennale di Venezia del 1926 e considerato la prima opera di aeropittura, Fedele Azari (1895-1930) lega il suo nome al manifesto La flora futurista ed equivalenti plastici di odori artificiali. L’incipit esplicita le negatività da rifuggire:

«Dobbiamo ormai constatare la decadenza della flora naturale che non risponde più al nostro gusto. I fiori sono rimasti monotonamente immutabili attraverso i millenni della creazione a delizia dei multiformi romanticismi di tutte le epoche e come espressione del cattivo gusto nei più banali decorativismi»2.

Se «la letteratura e la pittura contemporanea» continuano ad abusare della tematica floreale con immagini «trite» e «stucchevoli», Azari, in nome di una visione sintetica della natura e del giardino, elenca in tre punti le limitatezze e le mancanze della flora tradizionale, del tutto aliena dal dinamismo plastico della contemporaneità futurista:

«1. Le più decantate attrattive dei fiori sono costituite da delicatezza di tinte, da sfumature di colori o da forme minuziosamente rabescate, mentre tali qualità sono opposte al nostro gusto moderno che si compiace di sintesi coloristiche e di stilizzazioni di forme.

2. La velocità ha rimpicciolito per la nostra sensibilità visiva superfici e volumi, perciò i fiori ci appaiono come piccole macchie di colore […].

3. Anche i cosiddetti soavi profumi dei fiori risultano insufficienti alle nostre nari che esigono sensazioni olfattive sempre più violente, tanto che i profumi estratti dai fiori […] sono oggi completamente soppiantati dagli inebbrianti profumi sintetici creati dall’industria»3.

I soli due pittori citati da Azari nel manifesto La flora futurista sono Watteau, che rappresenta con il suo stile l’esempio di un decorativismo ormai trascorso, e un esponente dell’avanguardia creatrice (fig. 5):

«Il pittore futurista Depero ha già dato esempio di tali flore fantastiche andando oltre la stilizzazione del fiore […] costruendo plasticamente fiori inesistenti in natura»4.

Capisaldi dell’interpretazione futurista della flora sono quindi strutturazione sintetica, colorazione accesa – «violenta», secondo il lessico di Azari – ed evocazione di profumi industriali:

«Ognuno degli inebbrianti profumi creati dalla moderna industria per le belle eleganti di Roma, Milano, Parigi potrà avere un equivalente plastico floreale che lo interpreti. Inoltre ho allargato il campo delle ricerche, costruendo interpretazioni plastico-coloristiche riuscite molto espressive di alcuni fra gli odori più caratteristici (benzina, acido fenico, cloroformio, ecc.)»5.

In apparenza del tutto differente dalla prospettiva futurista, la visione metafisica cela increspature e asperità dell’esistere tra solidità volumetriche e delineazioni surreali. Ma anche de Chirico fa della città e del suo destino il nucleo della propria riflessione, sottolineando che:

«Nella costruzione delle città, nella forma architetturale delle case, delle piazze, dei giardini e dei passeggi pubblici, dei porti, delle stazioni ferroviarie, ecc., stanno le prime fondamenta d’una grande estetica metafisica. I Greci ebbero un certo scrupolo in tali costruzioni, guidati dal loro senso estetico-filosofico: i portici, le passeggiate ombreggiate, le terrazze erette come platee innanzi i grandi spettacoli della natura (Omero, Eschilo); la tragedia della serenità»6.

Estetica del costruito nel vuoto, dell’alzato sul piano, la prospettiva dechirichiana di questi anni contempla l’aura della temporalità, come nell’Enigme de l’heure del 1911 (fig. 6), e crea ricomposizioni sintetiche di piazze ove gli elementi si dispongono per la visione secondo una definizione spaziale assimilabile a quella di un giardino zen (figg. 7-8).

E le pagine di suo fratello, Alberto Savinio, paiono davvero introdurre alla dimensione dei «giardini costruiti». In Ascolto il tuo cuore, città, l’artista dedica a Milano – «dotta e meditativa: la più romantica delle città italiane» – affetto e ironia, evidenziandone, tra nebbia e legna bruciata dei camini, aspetti raccolti e segreti: «città tutta pietra in apparenza e dura», è invece «morbida di giardini “interni”»7.

Dico a te, Clio, del 1939, è nell’Avvertenza presentato da Savinio come «un giardino», per poi aggiungere: «Giardino leggerissimo, nel quale morivano i fantasmi dei fiori»8. Svagato resoconto di viaggi tra Abruzzo ed Etruria laziale, il libro oscilla in tenue equilibrio tra citazioni letterarie e ironia sui misfatti della «modernità» in campo artistico e architettonico, aprendosi con una delicata demistificazione del Vate:

«Sul margine della pineta di Pescara è scritto: “Pineta Dannunziana”. […] Guardo con curiosità la piccola foresta, da che so ch’essa è l’ “ispiratrice”. Porta con eleganza gli alti fusti dei suoi pini, struzzi del regno vegetale. Per rispondere al mio stupore, la pineta si scioglie dalla sua arborea natura e ricompone in forma di donna. Ecco come nasce l’antropomorfismo»9.

Pur se lontano dalla virulenza espressionistica di Gadda, Savinio condanna anch’egli l’uso costruttivo e decorativo del cemento, che «manca d’interiorità» e si diffonde perniciosamente nei parchi. Nella Villa comunale di Guardiagrele, presso «la terrazza dorme un laghetto artificiale, e un ponte di cemento lo attraversa al modo di un cavalcavia. La balaustra del cavalcavia è di cemento e arieggia tronchi d’albero intrecciati»10.

E poi, possibile incontro tra i precedenti riferimenti, un altro passo di ambientazione abruzzese:

«Davanti alla casa di d’Annunzio, a Pescara, lo spirito della poesia è raccolto in simboli arborei: una quercia, un ulivo, un lauro salgono su dal cemento della piazzetta, che un muro egualmente di cemento chiude da una parte. […] Manca il melograno, che è stato trapiantato nel cortile»11.

Introdotta dalle parole attribuite a Charun: «Hai riposato abbastanza: ora vieni, che ti porto al paese mio», la sezione «etrusca» del libro, dedicata a Cerveteri12 e Tarquinia, disvela i caratteri del «giardino» cui sembra pensare Savinio: un giardino che, confrontandosi costantemente con essa attraverso il viaggio o la citazione colta, vede l’immagine della morte, possibile prospettiva dei Campi Elisi come alternativa alle tragedie terrene in una pagina su Tarquinia del 5 settembre 1939:

« “Perché parti? Tuona la guerra sul mondo. Resta con noi e ti troverai benone”. Che risolvere? Tornare tra i vivi? Ascoltare il consiglio degli Etruschi morti?»13.



Giardini di carta

Pittore e scrittore, Savinio offre una delle rappresentazioni del nesso problematico-strutturale tra natura antropizzata e costruzioni/spazi urbani. Altre immagini di giardini e parchi attraversano l’ambito letterario della prima parte del Novecento.

La coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923, contribuisce alla destrutturazione del romanzo attraverso la mobile categoria del tempo, soggettivo o raccontato dall’esterno, comunque sostanzialmente inattendibile. Ma l’opera gioca anche con la categoria dello spazio, che rappresenta il territorio ove il soggetto può perdersi o provvisoriamente ritrovarsi. E lo spazio del «giardino» assume particolare rilevanza nelle pagine sveviane: se il temine vi ricorre trentuno volte, osserviamo come esso si presenti con l’iniziale minuscola quando ci si riferisce a quello individuale, di casa – «Entrai nel giardino che circonda la nostra villa. […]» –, mentre sia scritto con la maiuscola sedici volte, formando un binomio con l’aggettivo «Pubblico», in riferimento al parco cittadino.

L’area verde urbana diviene uno snodo nella trama del racconto sveviano, corrispondendo allo spazio percorso dal protagonista quando si allontana dalla parte della città a lui nota e familiare per compiere una visita che diverrà l’avvio di una relazione extra-coniugale:

«Percorremmo a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico. Era una parte della città ch’io non vedevo mai. Entrammo in una di quelle case cosidette di speculazione, che i nostri antenati s’erano messi a fabbricare quarant’anni prima, in posti lontani dalla città che subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia più cospicuo delle case che si fanno oggidì con le stesse intenzioni»14.

Sorta di paràdeisos, prima ignoto e in seguito recinto di afflati d’amore, il parco cittadino accompagna Zeno nelle sue scoperte:

« […] io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe. Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano. Poi, non avendo avuto la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal giardino per movermi proprio sotto le sue finestre»15.

Il parco, teatro simbolico delle avventure di Zeno e spartiacque tra un al di qua e un al di là – «E ad onta che fosse oramai assodato ch’io avevo l’autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s’era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta» –, è il “Muzio de Tommasini”, dal nome del podestà di Trieste che tra il 1854 e il 1864 ne patrocina la realizzazione su terreni di un ordine religioso acquistati dal Comune. Il progetto iniziale prevede la valorizzazione dell’area attraverso la costruzione di edifici residenziali e di una chiesa, ma la superficie viene successivamente destinata alla realizzazione di un parco.

Nella zona più alta del giardino «si trovano l’edificio già destinato a caffetteria e il gazebo per i concerti, mentre nella parte bassa più recente, sono collocate le sculture erette in onore dei cittadini illustri nel campo della cultura. L’area verde, cui si accede attraverso sette entrate, è ampia (30.000 mq.) e pianeggiante, con un alto valore paesaggistico»16.

Come osserva Stefano Mengoli, la sistemazione dell’insieme riprende i moduli dell’Ottocento inglese, attraverso percorsi ondulati e parterres alberati17. Dotato di sette ingressi – « […] Carla mi dava un appuntamento […] all’ingresso posto di faccia alla sua casa» –, il giardino ospita 368 esemplari arborei di grandi dimensioni e di pregio, fra i quali platani, olmi, querce, nonché specie esotiche come cedri, araucaria ed altre. Ricco è anche il patrimonio arbustivo, con aiuole costituite da bosso, alloro, ligustro, viburno, pittosporo, aucuba, tasso e agrifoglio. Al centro del giardino si trovano un laghetto, l’area giochi per bambini e una Dama gigante per tornei di scacchi.

In altro contesto, Le ambizioni sbagliate, romanzo pubblicato da Moravia nel 1935, mette in scena personaggi intenti in lunghi dialoghi in ambienti interni. A fronte di uscite essenzialmente in auto nelle strade di Roma, assume rilievo la rappresentazione di spazi di passaggio tra interno ed esterno o tra privato e pubblico, come il vano delle scale del caseggiato popolare attraversato una mattina festiva da uno dei protagonisti:

«L’aria della scala era piena dei differenti odori dei pranzi domenicali che si stavano cucinando in ciascuno degli appartamenti del casamento. […] Si udivano, dietro le porte chiuse, correre e gridare per gli stretti corridoi i bambini liberi dalle occupazioni scolastiche e annoiati dalla mattinata troppo lunga. […] fumosi raggi di sole invernale passavano attraverso i finestroni e si perdevano nella tromba a spirale»18.

A questo micro-universo di scale e di odori, ove gli edifici mostrano la forza oscura di prigioni a stento permeabili, fa riscontro la bizzarra costruzione misticheggiante – comunque definita «moderna» secondo il lessico architettonico-propagandistico dell’epoca – di una villa alto-borghese. Ampiamente rinnovata rispetto all’originaria destinazione d’uso conventuale, è situata nei pressi del Giardino Zoologico:

«I Tanzillo abitavano in una gran fabbrica, che un tempo, prima che si incominciasse a costruir case fuori delle mura, era stata un convento di frati perduto fra gli orti e ora, rimaneggiata e restaurata come una villa moderna, sorgeva in fondo a un giardino fra le altre ville e gli altri giardini di uno dei quartieri più recenti della città. La villa aveva il suo ingresso sopra una strada in pendenza che correva tutto intorno al muro di cinta del Giardino Zoologico; guardando dalla strada, si potevano veder sporgere al disopra di quel muro le immense uccelliere di ferro nelle quali stavano chiuse le aquile, gli avvoltoi e gli altri rapaci; oppure i dirupi azzurrognoli delle montagnole di cemento tra i quali si aggiravano in falsa libertà i leoni, le tigri e gli orsi; e a tutte le ore, ma soprattutto prima dei pasti, insieme col puzzo pesante dei covili, giungevano alla villa i lunghi ruggiti delle bestie affamate, quanto mai strani in quel quartiere solitario e nuovo»19.

Se il quartiere e le caratteristiche originarie dell’edificio fanno di questo ex-convento qualcosa di completamente diverso rispetto ai caseggiati della piccola borghesia (fig. 9), la descrizione di Moravia sembra amplificare e rendere intrinsecamente ridicolo, per progressivo slittamento dall’idea della città-giardino all’immagine dello zoo, il sogno idillico proposto anni prima dall’architetto Marcello Piacentini:

«Vorrei lumeggiarvi, così come io la vedo, la nuova città giardino: casette chiare, linde, nude di ornati, ma ricche di loggette, di terrazze, di pergolati [...] Un filo di ferro o una siepe di mortella le separa dal pubblico, e non quelle orribili, pesanti, mastodontiche cancellate dei nostri quartieri di villini (dei Prati di Castello per esempio), che sembrano voler difendere i passanti dagli assalti delle belve feroci. E ovunque fiori, arbusti e fontanelle canore»20.

Nel romanzo, la villa ex-convento si trova proprio nei pressi del Giardino Zoologico, trasformando la tranquilla scena abitativa immaginata da Piacentini in una sorta di esotico incubo rumoroso21. E, attraversando il cancello d’ingresso, si entra in un giardino: ma un’architettura che si vuole solenne maschera la limitatezza di uno spazio verde che si sarebbe immaginato come un ampio parco:

«Dalla strada si accedeva al giardino, per un solenne cancello nero e dorato, dietro il quale certi grandi alberi piantati nel mezzo di un’aiuola verde e pettinata, certi viali ghiaiati, certo silenzio attonito come di foresta nel quale si udivano distintamente spezzarsi i rami secchi e squittire gli uccelli, lasciavano immaginare chissà quale vasto parco. Ma era una falsa impressione, il parco non era che un simulacro, buono tutt’al più ad ingannare la fantasia convenzionale dei passanti, e consisteva in pochi alberi, in una sola aiuola e in due viali di accesso che partendo dal cancello e girando l’uno a destra e l’altro a sinistra intorno all’aiuola confluivano assai presto in un piazzale di fronte alla villa»22.

Nel romanzo, analogamente a quanto sottolinea il giovane protagonista del racconto moraviano L’architetto, uno degli ambiti in cui la falsità può manifestarsi in modo nefasto è quello del rapporto tra disegno costruttivo e piano funzionale dell’edificio. Sorta di micro-storia degli stili, attraverso l’analisi critica presente nel racconto citato la tipologia conventuale è definita una «struttura razionale» in quanto confacente alla funzione originaria23. Ne Le ambizioni sbagliate, la trasformazione della matrice conventuale in abitazione «moderna» alto-borghese si configura invece come un sotterfugio tecnico segnato dall’irrazionale, dal falso e dal «brutto»:

« […] Ma anche più che sulla facciata, il contrasto fra le intenzioni dell’architetto e la struttura dell’antico convento si scorgeva nella disposizione interna della villa. […] Restavano così del convento i soffitti bassi, il gran numero di camerette tutte eguali, la mancanza di stanze spaziose che potessero servire da saloni, la disposizione irregolare e decentrata della pianta, tutta complicata di passaggi, di anticamere, di scale e di corridoi»24.

Caratterizzate dall’ «unità indissolubile della vita all’interno delle case e della possibilità di guardarle dall’esterno», le città del Rinascimento e del Barocco offrivano la percezione di una «bellezza onesta» estrovertita, ove la degna visione di edifici prossimi contribuiva a sostanziare il godimento estetico di chi viveva nella propria dimora. E cornici marcapiano, colonne, lesene, balconi lavorati, arcate, logge, giardini, parchi denotavano così attenzione per l’arte della bellezza e per un’appropriata messinscena, presentazione di un bene che si offre, rifrangendosi, in pubblico25, come in ambito strettamente urbanistico sottolineerà Piacentini:

«Il senso dell’arte che dovrebbe essere posseduto da ogni cittadino, regolatore di ogni atto della sua vita, di ogni movimento, questo senso […] potrebbe rendere incommensurabili benefici sociali; solo comprendendo ed amando il bello, si acquista il senso del rispetto verso se stesso, verso gli individui e verso le cose. Ma come coltivare questa educazione, se non predisponendo l’ambiente? Come sviluppare questo senso estetico nel cittadino se non creandogli intorno, nelle strade, nelle piazze, nei giardini, tutta un’atmosfera di armonia e di bellezza?»26.



Giardini dell’architettura e del potere

Nel 1931 è approvato il piano regolatore della capitale coordinato da Piacentini. La gloriosa potenza del passato imperiale è rivendicata in quanto patrimonio nazionale riscoperto dalla «rivoluzione fascista». Ma, dietro quest’immagine definita di Roma, caratterizzata da settori urbani differenti (edifici del potere, quartieri dei villini, quartieri con edifici sovvenzionati dallo Stato, costruzioni popolari in zone semi-periferiche), il piano del 1931 concede la possibilità di numerose deroghe. Si osserva in proposito: «Le palazzine caratterizzano la crescita di Roma contemporanea [...] e sono possibili in seguito alla variante del 1920 al regolamento edilizio, che amplia le cubature e le altezze dei villini, rendendoli più adeguati alle reali possibilità economiche del ceto medio-alto […] Le palazzine divengono, negli anni trenta, l’occasione di lavoro per molti giovani architetti “moderni”»27.

E, nel 1932, Mussolini evidenzia la terza posizione raggiunta da Roma – dopo Milano e Torino – nel settore della piccola e media industria, glorificando così un’immagine multipla della capitale: città della storia, del potere spirituale, delle decisioni politiche e della vita economica. Occorrerà rivestire questo tessuto urbano, storico e mitizzato al contempo, di un volto architettonico all’altezza delle «eterne» ambizioni del fascismo: è il compito riservato ai progettisti dell’urbanistica romana tra il 1936, anno della proclamazione dell’Impero, e il 1942, anno della prevista Esposizione Universale e celebrazione del ventennale del fascismo.

Se Banfi e Belgiojoso, nel 1934, si scagliano contro la concezione antica della città – che «vive sull’ambiguo»28 e non deve perdurare, poiché lo Stato ha ormai adottato una linea politica «decisa» in nome di una concezione «unitaria romana» –, occorre quindi fare spazio «alla nuova città, che conscia del proprio essere distingue nettamente, come nell’attività dell’uomo, lavoro e riposo: il verde della natura si alternerà alla casa nello schema geometrico secondo il quale la libertà individuale è salvaguardata nel quadro della chiara organizzazione collettiva»29.

Se all’interno di una matrice tendenzialmente razionalistica, e sovente nel tardo Ottocento programmaticamente positivistica, si sono delineate riflessioni sui parchi e i giardini – visti comunque come elemento sostanzialmente accessorio o “residuale” rispetto al costruito – Piacentini, con l’ambizione di procedere al nuovo modello della forma urbis di Roma all’interno di un piano predefinito, si sofferma nel 1938 sul progetto urbanistico dell’E42, evidenziandone la principale peculiarità: la prevista Esposizione Universale, oltre ad inserirsi nel novero delle grandi manifestazioni internazionali, vuole celebrare il ventennale del fascismo delineando, attraverso la creazione di un intero quartiere monumentale, una linea di collegamento ed espansione verso il mare, con insistita simbologia politica. Diversamente dagli schemi radiali e a stella delle esposizioni americane e francesi30, notevoli scenograficamente ma carenti di logica funzionale, il piano dell’E42 è improntato all’urbanistica romana:

«Non è tuttavia l’applicazione rigida e sistematica del sistema a scacchiera classica […] dove la uniformità delle esigenze impone una ripetizione di ritmi, di larghezze e di tipi stradali propri ad un comune quartiere di città. Qui s’è tenuto conto della eccezionalità di questo nuovo braccio di Roma, e nel tracciare – con ordine gerarchico – le piazze, i viali, i giardini, i parchi e le fontane, ci si è sempre lasciati guidare dal concetto di veder grande e unitariamente. È stata proprio questa volontà di costituire un blocco urbanistico e grandioso che ha prevalso, fin dal primo momento, nella scelta della località per l’Esposizione Universale»31.

Nella percezione piacentiniana, un nuovo quartiere rivolto verso il «Mare nostrum» non può non dotarsi di spazi verdi e di acque, come le fontane o il laghetto. Per quello che nel dopoguerra diverrà l’EUR, si immaginano così «ordine gerarchico» della concezione politica e della visione spaziale; monumentalità temperata dal chiarore mediterraneo e dai ricordi di scene dechirichiane come architetture dell’inconscio; archi e marmi che conducono allo specchio d’acqua centrale.

Oltre l’area dell’E42, la visione complessiva della «nuova Roma» sembra offrire a Piacentini l’opportunità di riprendere e sviluppare le considerazioni sui giardini dei villini, in un’ottica che trascolora dal parco al parco archeologico:

«È stato ampiamente provveduto alla creazione di nuovi parchi, uno grandissimo comprendente tutta la vasta zona cosparsa di antichità situate tra la Via Ardeatina e la Via Appia Nuova (comprendente le catacombe e le tombe di Via Latina), e il cui asse è costituito dalla Via Appia Antica: meraviglioso cuneo verde che dalle campagne del Sud giunge fino ai piedi del Campidoglio. La zona archeologica viene così definitivamente completata. […] Catene di giardini ad est saranno costituite dalle linee degli acquedotti. Altre zone verdi per il pubblico stabilimmo a Tor dÈ Schiavi, a Pietralata, a Monte Sacro presso l’Aniene. Questi Parchi si sommano a quelli già esistenti del gruppo di Villa Borghese, Pincio, Valle Giulia […]; del gruppo del Gianicolo […]; del gruppo di Monte Mario e della Farnesina»32.

Critico, se non angosciato, rispetto al piano di Le Corbusier per una Parigi di grattacieli costruiti lungo ampie strade33, Piacentini punta invece ad evidenziare l’aspetto circolare di Roma, attraverso una cintura verde come anello morbidamente permeabile, perimetro di un’Urbe attenta al proprio sostentamento:

«Tali giardini, – alcuni dei quali costituiscono quadri naturali tra i più meravigliosi – saranno tra loro allacciati da ampi viali alberati, in modo da creare un vasto, incommensurabile anello verde, veramente unico al mondo. I parchi sono distribuiti fra i vari quartieri in modo che ovunque siano rapidamente e facilmente accessibili. Nei più vasti di essi si sono disposti campi sportivi, prati di giuochi per bambini, piste per cavalli, ecc. Ancora s’è pensato, per non incorrere in troppo forti spese di impianto e di manutenzione dei prati e dei boschi, alla creazione di grandi orti-giardini, che costituiscano sane zone di interruzione di fabbricati, e possano, nello stesso tempo, meglio alimentare la cittadinanza con i prodotti della terra»34.

Per quella che si definisce «la grande collana dei parchi romani» è ancora riservata particolare attenzione nelle riflessioni di Piacentini:

«Si tratta della sistemazione della grande esedra collinosa dell’Ovest e del Nord. Qui sorgerà il quartiere più nobile e lussuoso della città, prossimo al centro e nello stesso tempo appartato dal tumulto delle grandi linee di traffico, percorso da strade a mezza costa che s’allargheranno frequentemente in piazzali panoramici: i parchi e i giardini pubblici saranno intramezzati a quelli privati e, perchè la sistemazione non debba riuscire troppo onerosa, si dovrà anche far luogo a molte costruzioni; queste, lungi dal nuocere, potranno aggiungere varietà e bellezza alla composizione, purchè l’ubicazione, la forma e il colore siano da parte delle autorità, sottoposti, caso per caso, a un controllo rigidissimo che tenga il massimo conto del quadro panoramico»35.

E anche nel progetto piacentiniano dell’E42 si definisce una quota per la natura in città, sebbene poi ridotta nel dopoguerra rispetto alle intenzioni originarie, affidando a De Vico la consulenza per la progettazione dei parchi e giardini dell’esposizione. Protagonista della valorizzazione del verde pubblico a Roma, dalle prime realizzazioni del Serbatoio dell’acqua nel Parco dei Daini a Villa Borghese (1922-25) (fig. 10) e del Parco della Rimembranza a Villa Glori (1923-24) ad una serie di programmi che giungono al secondo dopoguerra:

  • ampio progetto per il Parco di Monte Mario, con terrazzamenti, scalee e vie d’acqua – realizzato in misura molto ridotta solo negli anni ’50;

  • giardini nell’area delle Terme di Traiano sul Colle Oppio;

  • fontana ottagonale, tra quinte verdi, in piazza Mazzini, ascritta da Piacentini alla «genialità dell’architetto De Vico [il quale] v’ha creato nel mezzo un bel giardino, che attira l’attenzione distraendola dagli sconquassati casonacci»36;

  • confluire di interessi ambientali e archeologici nel Parco del Monte Testaccio del 1931;

  • del 1939 è il Parco di Porta San Paolo (poi Parco della Resistenza);

  • mentre per l’E42 De Vico progetta il giardino centrale delle cascate – realizzato con modifiche alla fine degli anni ’50 – e diverse aree verdi, tra le quali quella bina del Giardino degli Ulivi (fig. 11).

Progettato nel 1937, iniziato nel 1940 pochi metri al di sopra del livello stradale di Viale dell’Umanesimo, deve originariamente rappresentare un luogo di riposo e meditazione su una collinetta con vista libera sulla città e l’agro circostante. Interrotti i lavori per il secondo conflitto mondiale, la sistemazione del giardino è completata nel 1952, con un disegno d’assieme fortemente ridimensionato, per contenere i costi, e con un panorama edilizio del tutto mutato a seguito di una lottizzazione che circonda l’area verde di villini e costruzioni. Sottolineato che si «tratta di un grande giardino, con un circolo irregolare di lastre in cappellaccio di travertino che delimitano un vasto spazio depresso, a sua volta circondato dal circolo degli Ulivi. Le lastre di travertino simulano, a prima vista, dei movimenti tettonici […]», Francesco Tonini ricorda che il «giardino ha un “gemello” anche se non proprio perfettamente uguale nelle dimensioni, che si trova ad est in posizione simmetrica rispetto all’asse costituito dalla Cristoforo Colombo, purtroppo perennemente chiuso da una recinzione»37.

Colpita dalla guerra, la visione urbana autarchica e fascista, para-archeologica e totalitaria, viene infine sommersa da altre forze, altre speranze, altri miti.

Luoghi della storia più che della natura, talvolta programmaticamente investiti dalla modernità come essenza meccanizzata, prima delle utopie land art o esteticamente ludiche da «Giardino dei Tarocchi»; rifugio di possibili Resistenze, dal Barone rampante alla rivendicazione di altri percorsi sociali, giardini e parchi sono ancora viluppi di contemporaneità, come nell’Istanbul narrata da Orhan Pamuk – ove si racconta, sorta di Borges euro-asiatico, di «un giardino di stile occidentale a forma di labirinto, con rose, acacie e lillà» – o come i ricordi personali dello scrittore: «Quando guardavo dalla finestra non vedevo solo il mare e i battelli che pian piano avevo cominciato a riconoscere, ma anche i giardini tra i palazzi e le case, le antiche ville signorili ancora in piedi, i vecchi muri e i bambini che giocavano. Come in molte abitazioni di Istanbul che si affacciano sullo stretto, davanti al palazzo c’era una discesa lastricata che arrivava, curvando, al mare»38.

Ma questa, che non vuol esser conclusione, «potrebbe essere definita ara taksim, come si usa nella musica ottomana tradizionale: significa intermezzo ed è solo strumentale. Dato che la parola taksim significa anche dividere, spartire, e indica il luogo dove l’acqua si divide in due, gli abitanti di Istanbul chiamarono Taksim (fig. 12) l’altopiano su cui era costruito il centro di distribuzione dell’acqua, e dove Nerval passava le sue giornate guardando il panorama, i venditori e i cimiteri. Ancora oggi chiamano così quel posto dove ho trascorso la mia vita […]»39.








NOTE

1 Manifesto tecnico dei pittori futuristi, 1910, cfr. http://www.sitographics.it/futurismo_tecnicoPittori.html

2 La flora futurista ed equivalenti plastici di odori artificiali, 1924, cfr. http://www.florablog.it/2009/02/20/fiori-giardino-e-natura-secondo-il-futurismo/.

3 Ibid.

4 Ibid.

5 Ibid.

6 G. de Chirico, Sull’arte metafisica, in “Valori Plastici”, I, 4-5, aprile-maggio 1919.

7 A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, 1944, 6a ediz. Milano, Adelphi, 1984.

8 A. Savinio, Dico a te, Clio, 1939 e 1946, 4a ediz. Milano, Adelphi, 1992.

9 Ibid.

10 Ibid.

11 Ibid.

12 Meta di una divagazione dal percorso lungo l’Aurelia verso Roma, Cerveteri segna anche l’inizio de Il giardino dei Finzi Contini (1958-61), con una rapida visita all’area delle tombe etrusche nel segno della malinconia, ma anche con la consapevolezza che i drammi della storia più recente tingono per converso le morti del passato di un’aura di pace: «Il futuro avrebbe stravolto il mondo a suo piacere. Lì, tuttavia, nel breve recinto sacro ai morti famigliari; […] in quell’angolo di mondo difeso, riparato, privilegiato: […] almeno lì nulla sarebbe mai potuto cambiare». E da questa “archeologia della storia” prende avvio la ricostruzione memoriale degli scomparsi Finzi Contini e del loro giardino, microcosmo travolto e sconquassato.

13 Ibid.

14 I. Svevo, La coscienza di Zeno, 1923, ediz. Milano, Feltrinelli, 1993.

15 Ibid.

16 S. Mengoli, L’origine del giardino pubblico in Italia e l’evoluzione del pensiero fino ai giorni nostri, cfr. http://www.stefanomengoli.it/public%5Cgiotec%5C2009122618543%5Corigine%20storica%20verde%20pubblico.pdf

17 Ibid.

18 A. Moravia, Le ambizioni sbagliate, 1935, ediz. Milano, Bompiani, 1991.

19  Ibid.

20 M. Piacentini, 1921, citato in P. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, III, Torino, Einaudi, 1990.

21 Incaricato dell’ampliamento dello zoo di Roma, fra il 1933 e il 1936, è l’architetto Raffaele De Vico (1881-1969), consulente dal 1923 del Servizio Comunale dei Giardini e responsabile della progettazione di numerose aree verdi della capitale. Il rettilario e la gabbia della voliera si caratterizzano per una personale commistione di elementi decorativi zoomorfi e di strutture funzionali (cfr. O. Iolita, L’architetto R. D. e l’ampliamento dello zoo negli anni 30, in La nostra Arca di Noè, Venezia, Marsilio, 1984).

22 A. Moravia, Le ambizioni sbagliate, 1935, cit..

23 Già Le Corbusier, visitando nel 1907 e nel 1911 la Certosa di Firenze, si sofferma ad analizzare le celle monacali, che sono tratteggiate nei suoi schizzi alla ricerca della configurazione ideale-reale: ripartite su tre livelli, cantina inclusa, vedono nel giardinetto individuale la fonte di luce e di ristoro per eremiti dediti alla riflessione in semi-isolamento, costituendo una sorta di archetipo per i più articolati moduli abitativi dell’architetto franco-svizzero.

24 A. Moravia, Le ambizioni sbagliate, 1935, cit..

25 Cfr. R. Assunto, La città di Anfione e la città di Prometeo. Idea e poetiche della città, Milano, Jaca Book, 1984.

26 M. Piacentini, Nuovi orizzonti nell’edilizia cittadina, in “Nuova antologia”, LVII, 1° marzo 1922, fasc. 1199. Subito dopo: «E come ottenere questo ritmo d’arte, se non si respingono i profanatori, con adeguate leggi? Vi sono proprietari privati che per dare risalto al proprio commercio, o per ostentare una loro originalità artistica, violano ogni più elementare rispetto all’ambiente e al decoro e costruiscono, sol perchè son proprietari di quelle aree, brutture architettoniche, imponendo perpetuamente alla cittadinanza il disgustoso quadro dovuto alla loro volgarità. È questo forse usare del diritto di proprietà? O non è piuttosto un infrangere e calpestare violentemente il diritto pubblico della bellezza della propria città? Il proprietario non può esercitare il “diritto” di ostentare la sua ricchezza ed il suo cattivo gusto, ma ha il dovere di non turbare la vista ai cittadini, e di contribuire anzi, con la sua casa, all’armonia generale della città».

27 G. Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Torino, Einaudi, 2002.

28 G. L. Banfi - L. B. Belgiojoso, Urbanistica anno XII. La città corporativa, “Quadrante”, n. 13, 1934, p. 2, in P. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, III, Torino, Einaudi, 1990.

29 Ibid.

30 In America primo amore (1935, ediz. Palermo, Sellerio, 2003), scrive Soldati su Washington: «Regolari avenues si dipartono a raggiera dal Capitol; e strade regolari secano le avenues. Ville basse e bianche. Ville basse e bianche. Parchi, prati verdissimi. Proibiti per sempre i grattacieli. Stile dominante delle costruzioni, anche di molte recentissime: coloniale-neoclassico, “colonial style”, che ha nella Casa Bianca il suo prototipo. Nei parchi e per i prati che circondano la Casa Bianca e la collegano all’alto, purissimo obelisco di Washington e al Lincoln Memorial, passeggiavo, dopo il breakfast, ogni mattino di quel mese felice. Chiare fontane, laghetti, siepi; ajuole fiorite, bianchi marmi, viali di sempreverdi: vagavo senza pensieri in un Eliso geometrico e disabitato. Ma anche qui, non potrei dire che fosse soltanto effetto del mio stato d’animo. I parchi ERANO geometrici, ERANO deserti».

31 M. Piacentini, L’Urbanistica e l’Architettura, in “Architettura”, XVII, dicembre 1938, fasc. speciale.

32 M. Piacentini, Relazione - programma a S. E. il Capo del Governo sul progetto del Piano Regolatore di Roma, Roma 1930.

33 Scrive Piacentini, La quarta Roma e l’economia edilizia, in “Il Giornale d’Italia”, VII, 3 luglio 1929: «Il Le Corbusier, nel suo apocalittico piano di trasformazione di Parigi, immagina enormi grattacieli immensamente distanziati tra loro ed elevati in mezzo a giardini fioriti e viali larghissimi. La popolazione che occuperebbe lo stesso quartiere distribuita in case normali di sei piani e avvicinate, si raggruppa invece in queste torri-alveari, lasciando al traffico e al giuoco dell’aria la quasi totalità dello spazio. Non v’è però qui nessun vantaggio economico: e contro alcuni vantaggi di circolazione vi sono - è cosa facile ad immaginarsi - inconvenienti gravissimi».

34 M. Piacentini, Relazione - programma a S. E. il Capo del Governo, cit.

35 M. Piacentini, Per l’Olimpiade della Civiltà. La Capitale dell’Impero dovrà assumere nel ’42 la fisionomia definitiva, in “Il Giornale d’Italia”, 27 marzo 1940.

36 M. Piacentini, La quarta Roma e l’economia edilizia, in “Il Giornale d’Italia”, VII, 3 luglio 1929.

38 Orhan Pamuk, Istanbul. I ricordi e la città, 2003, ediz. Torino, Einaudi, 2006.

39 Idem.









Fig. 1
GIACOMO BALLA, Futurfiori, 1914
Inchiostro rosso e matite colorate su pagina di registro ("Telefoni dello Stato") del 1913
31,5 x 42,3 cm.
Provenienza: Casa Balla; Roma, Collezione privata

Fig. 2
GIACOMO BALLA, Linee forza di paesaggio, 1918
Tempera su cartone, 31 x 41 cm.
Provenienza: Casa Balla; Roma, Collezione privata

Fig. 3
GIACOMO BALLA, Linee andamentali+fiore - Motivo per tappeto, 1920-1925
Tempera su carta applicata su tela, 97 x 114,5 cm.

Fig. 4
FEDELE AZARI, Prospettive di volo, 1926
Olio su tela, 120 x 80,5 cm.
Collezione privata

Fig. 5
FORTUNATO DEPERO, Fiori tropicali, 1944
Olio su tavola, 45 x 35 cm.
Collezione privata

Fig. 6
GIORGIO DE CHIRICO, L'Énigme de l'heure, 1911
Olio su tela, 54,5 x 70,5 cm.
Collezione privata

Fig. 7
Giardino Zen Harima
Fotografia

Fig. 8
GIORGIO DE CHIRICO, Bagni misteriosi, 1935
Olio su tela, 38 x 46 cm.
Collezione privata

Fig. 9
ACHILLE FUNI, Villa Borghese, 1927
Olio su tavola, 68 x 63,5 cm.

Fig. 10
Raffaele De Vico, Serbatoio dell'acqua nel Parco dei Daini a Villa Borghese, Roma, 1922-25
Fotografia

Fig. 11
RAFFAELE DE VICO, Giardino degli Ulivi all'EUR, Roma, 1940-52
Fotografia

Fig. 12
Istanbul, Taksim Gezi Park
Fotografia



Foto cortesia Ettore Janulardo

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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