L’attività
di Jannis Kounellis – nato al Pireo nel
1936, residente a Roma dal 1956 – si è
intrecciata con l’esplosione
dell’Arte
povera. Il movimento, sorto nel 1967 sotto gli auspici di Germano
Celant, ha da un lato sollecitato artisti di diversa formazione ed
estrazione – provenienti, in particolare,
da Torino e Roma – a confrontarsi su
alcuni punti nodali del rapporto che l’arte
intreccia con la politica e con la vita e dall’altro
ha costituito un momento di “guerriglia”
artistica in relazione/scontro con le tematiche
del ’68. Uno
dei temi ricorrenti nel dibattito artistico, il nesso arte/vita,
assume una particolare rilevanza alla fine degli anni ’60
per la valenza politica che viene a rivestire. E l’Arte
povera si nega come pratica autonoma, puntando, piuttosto,
«all’identificazione
azione-uomo, comportamento-uomo [...] per una focalizzazione di gesti
che non aggiunge nulla alla nostra colta percezione, che non si
contrappongono come arte rispetto alla vita, che non portano alla
frattura e alla creazione del doppio piano io e mondo».
In
una prima fase, quella delle opere povere, la ricerca dei poveristi
conserva una notevole predilezione per una fisicizzazione rumorosa e
“corposa”,
quasi neofuturista (e “Neofuturismo”
era stata la prima denominazione pensata da Celant
per l’Arte
povera). In seguito, nella fase delle azioni povere, si arriverà
ad una fisicizzazione diffusa e
all’utilizzazione
di elementi che consentono un approccio “mediato”
all’opera. In
consonanza con questa svolta in senso smaterializzato e mentalistico,
il problema del conflitto arte/natura stimolerà,
a partire dagli anni ’70,
analisi e riflessioni più approfondite sia da parte degli artisti
sia da parte dei critici. Al desiderio di compenetrazione dei due
termini si viene a sostituire la coscienza del loro dissidio e
separazione; da qui, la necessità di
operare, come artisti, all’interno
di tale frattura attraverso il linguaggio e i mezzi propri dell’arte.
Dal
1970 circa, concentrandosi sulla coscienza storica del dissidio,
Kounellis procederà in
modo sempre più deciso all’utilizzazione
di materiali, anzi di oggetti, che non sono in senso proprio né
primitivi né poveri e
che implicano un certo grado di know-how (ciminiere, tavoli,
strumenti musicali come il violino o il pianoforte, calchi in gesso);
o produrrà opere
in cui è esplicito il richiamo alla grande tradizione dell’arte
(Marina col nome Ensor del 1978; disegni a carboncino che si rifanno
a Munch del 1980). In questo modo, egli segna uno scarto nella
propria ricerca rispetto alla fase della cotoniera, del pappagallo,
dei cactus nella struttura di ferro (tutte opere del 1967) o dei
cavalli esposti all’Attico
di Roma nel 1969, periodo in cui la contrapposizione era unicamente
presentata e si cercava di farla esplodere dall’interno,
affidandosi, per esempio, alla imprevedibilità
del pappagallo vivo. Kounellis, dunque,
senza indulgere a impossibili fusioni tra dominio dell’arte
e divenire della vita, svolgerà la
sua attività all’interno
del linguaggio specifico dell’arte,
di volta in volta adoperando oggetti o costruendo opere come segni
del passato incidenti sul presente. La sua ricerca, in evoluzione
rispetto alle più vitalistiche e “guerrigliere”
interpretazioni dell’Arte
povera, verterà piuttosto
sulla tecnica dell’opera,
tanto da rievocare, in proposito, le parole di Walter Benjamin: «il
concetto di tecnica offre il punto di attacco dialettico che consente
di superare la sterile antitesi di forma e contenuto».
A
partire dal 1975 circa, col cortocircuito delle pratiche analitiche
allora vigenti operato da Salvo – che tra
gli oggetti da analizzare e “rifare” pone
alcuni dipinti fondamentali della storia dell’arte
–, si apre il capitolo del “ritorno
alla pittura”. Di grande complessità,
il fenomeno richiederebbe specifiche analisi: interessa qui
sottolinearne alcune implicazioni, come l’
“ideologia della manualità”,
per comprendere quale significato abbiano delle opere manuali
eseguite da Kounellis verso la metà degli
anni ’70.
Per
i giovani artisti che si sono avvicendati sulla scena nazionale e
internazionale in questo periodo, il ritorno alla pittura, ad una
manualità in
apparenza priva di ideologie e appagata unicamente del piacere della
creazione e della visione, ha significato il rifiuto più o meno
cosciente della mentalità artistica
degli anni ’60-’70.
Gli artisti della generazione precedente, invece, pur avvertendo
anch’essi
l’esigenza di
nuove riflessioni e di nuove modalità
artistiche, hanno in generale conservato
una distanza di fondo dalla de-ideologizzazione delle nuove
generazioni. Il caso di Kounellis è emblematico: avendo iniziato col
dipingere lettere e numeri neri su grandi tele bianche, egli si è
sempre considerato pittore e ha guardato alle sue opere come a dei
quadri aventi un unico punto di visione. Così, proprio un artista
dalle origini “manuali” e dalla ferma
fede nella pittura, può esemplificare un certo atteggiamento di
rifiuto nei confronti di una pittura “facile”.
La manualità pittorica
esprime nel suo caso la capacità
artigianale, l’impiego
di materiali che sono utilizzati per le loro possibilità
combinatorie e stimolatrici nei confronti
dello spettatore, ma non è mai una scelta di fondo, altrimenti
sarebbe un’opzione
ideologica. E Kounellis fa la sua scelta escludendo l’ideologia
della manualità disimpegnata:
non concepisce una manualità destrutturata
e decontestualizzata, che si presenti come valore unico cui far
riferimento. Ad essa si può ricorrere all’interno
di un discorso più ampio che includa gli altri mezzi, gli altri
materiali, le altre scelte - esistenziali e politiche -, soltanto
alla luce delle quali si può proporre, utilizzare e valutare la
manualità. Tali
considerazioni sono applicabili all’insieme
della produzione di Kounellis e risultano valide anche per i suoi
disegni, che meriterebbero però di esser esaminati a parte sia per
le costitutive differenze legate alla specificità
del mezzo (circolazione limitata, eventuale
fragilità) sia
per la peculiare considerazione che ad essi riserva Kounellis,
valutandoli come un momento intermedio e “collaterale”
tra la prima idea di un lavoro e la sua successiva
attuazione, su tela o attraverso allestimenti.
Fatte
queste precisazioni, è possibile proporre la lettura “monografica”
di un simbolo ricorrente nell’attività
di Kounellis. Il tema, nelle sue
progressive concatenazioni e aperture, è quello della
ciminiera-fumo-capelli, che, alla luce di quanto sopra ricordato, si
può trattare esaminando sia oggetti che disegni, proprio perché
la scelta di Kounellis attraversa liberamente le
modalità di
presentazione dell’opera
per sottolinearne invece la valenza linguistica. Si tratta di un tema
particolarmente interessante in quanto si pone come punto di
intersezione tra le pratiche “poveriste” di
Kounellis e un suo territorio meno esplorato, quello appunto delle
opere “manuali”.
Tra
i simboli che hanno un’importanza
fondamentale nella ricerca di Kounellis, la ciminiera è un’opera
che si presenta sotto diverse forme e in diversi momenti. Viene
esposta per la prima volta nel dicembre 1976 alla Galleria Salvatore
Ala di Milano (Senza titolo; tracce di fuliggine sui muri e sul
soffitto; altezza cm. 440, base cm. 88 x 88). In seguito sarà
presentata a Essen (1979), a Eindhoven
(1981), a Londra e a Baden-Baden (1982). E’
un’opera che
segna una nuova dominante nell’attività
artistica di Kounellis: l’intrusione
del nero che comincia a spezzare e a costruire su nuove basi i
precedenti nessi sintattici del suo periodare. Gli stessi elementi
classico-mitici di natura apollinea che erano stati i protagonisti di
un gioco del mostrarsi/nascondersi – nascondersi
dietro i calchi in gesso, mostrarsi attraverso l’universo
culturale sotteso alla mitologia –, dopo
aver già subito
il trauma della frantumazione della statua-emblema della fissità
e della stabilità
di quel mondo - come si vedrà più avanti
- sono da questo momento sovente associati al nero.
Nero
che si presenta non come smalto lucido e brillante, ma come
fuliggine, come traccia sporca, coinvolgendo in questo processo di
negativizzazione della polarità anche
l’elemento fuoco. La ciminiera è
il negativo della primitiva forza del fuoco, nella ciminiera si
accumulano le scorie della combustione, ed essa inquina, spande il
suo flusso mefitico nell’ambiente,
diffonde corruzione e malattie. Se il fuoco è la possibilità
di un intervento, la fuliggine che lo
sostituisce è la fine di ogni azione, è restare soli con ciò che
ha distrutto e distrugge.
Celant
dà un’interpretazione
politico-sociale di quest’opera:
«nel 1976 Kounellis
identifica l’infiacchirsi
del politico e l’esplosione
intimista con lo strato di morte e di restaurazione che ricopre,
tramite la fuliggine emessa da una ciminiera, gli spazi pubblici
dell’arte.
Prima in galleria e poi nel museo, il fuoco della mutazione corale
lascia il posto allo sporco e all’unto
del privato, prodotto infatti “all’interno”
della ciminiera. Il nero richiama inoltre il vuoto
e la passività assoluta,
lo stato di immobilità,
compiuto e invariante, nonché la perdita
definitiva, senza futuro; per Kandinsky, esso è “un nulla senza
possibilità, un
nulla morto, dopo la morte del sole, un silenzio eterno, senza
nemmeno la speranza di un avvenire”».
Il
tema della ciminiera è ripreso in due piccoli disegni (Senza
titolo, 1976) dalle linee sottili e
precise, dove accentuato è il rapporto tra interno ed esterno. La
ciminiera è posta in un angolo di uno stanzone vuoto, l’esterno
è suggerito da una finestra con i piccoli vetri racchiusi in
un’intelaiatura metallica: la
ciminiera è quindi all’interno
di un vano che si presenta come una fabbrica, è dentro la fabbrica.
Nei due disegni si evidenzia l’innaturalità
del luogo, che si presenta come scena
tragica per l’ultimo
atto di un dramma. E la consapevolezza di un incontro col tragico
permette di rapportare la ciminiera di questi disegni a quella di un
Senza titolo
del 1979, dove nel cielo stinto di una città
banale campeggia una ciminiera che sembra
esalare lo spirito degli abitanti, mentre due uccelli sono inanimati
corpi trafitti.
Ritroviamo
la stessa cubatura delle stanze in altri due disegni (Senza
titolo, 1975) più particolareggiati,
soprattutto quello che presenta una finestra con uno sfondo urbano
ben definite,
mentre il resto della stanza è trattato a grandi linee che
evidenziano il regolare impiantito. L’altro
disegno mostra una stanza profonda con un semplice letto in ferro
sulla sinistra. Entrambi i lavori mostrano poi un uomo dalla fluente,
irreale, chilometrica capigliatura (che è presente anche nel disegno
della donna nuda davanti al villaggio, esposto da Pio Monti a Roma
nel 1977), in primo piano l’uno,
più indietro l’altro,
ad equilibrare la massa del letto.
La
medesima capigliatura è in un Senza
titolo del 1975 e in un Senza
titolo del 1976. Nel primo c’è una
figura che, per la contrazione spasmodica del corpo e la deformazione
iperespressionistica del volto, ha parecchi tratti in comune con i
difficili e disperati personaggi di Egon Schiele; la plastica,
tentacolare capigliatura bilancia il suo corpo su uno sfondo
assolutamente vuoto. Nel disegno del 1976 troviamo una figura ritta e
nervosa da cui si diparte una poderosa scia di capelli neri.
Gli
elementi che si impongono in questi sei disegni sono squadrate
geometrie, ambienti vuoti, segni veloci e secchi, a volte al limite
del graffitismo. Restano da sottolineare queste inquietanti scie di
capelli, quest’occupazione
dello spazio attraverso compatte o sfilacciate, comunque sempre
innaturali, capigliature: e lo stesso fumo che esce dalle due
ciminiere è assimilabile alle capigliature (o viceversa).
Nella
ricerca di Kounellis i capelli hanno avuto un posto di rilievo. Sono
stati un momento di riconferma di certe presentazioni
(natura/antinatura) e si sono posti come corrispettivo di materiali
che sono apparsi spesso nelle sue opere: penso, in tal caso, alla
lana. Nel 1969 Kounellis espone un Senza
titolo composto da una lastra di ferro
(cm. 100 x 70) su cui sono praticati due fori dai quali escono dei
capelli veri riuniti a treccia. L’opera,
come altre di quegli anni, sottolinea la tensione che si instaura tra
due elementi radicalmente differenti ed è in esplicita
polemica con la Minimal art.
La treccia di capelli può essere avvicinata alle opere con la lana:
identica origine naturale, a volte identica presentabilità
al pubblico. Un’opera
come il Senza titolo
del 1968 – composto da una struttura di
legno di cm 250 x 200 su cui sono tese delle corde alle quali sono
fissati, in verticale, dei bioccoli di lana – è visivamente e
concettualmente molto simile a quella con la treccia di capelli. Ma
la lastra di ferro contro cui sono posti i capelli, nella sua rigida,
impenetrabile neutralità,
permette un momento di maggior concentrazione, una pausa dedicata
alla riflessione estatica: la reliquia si staglia sul materiale che
la ospita e blocca la nostra attenzione. I capelli, a differenza
della lana, ci riportano al mondo dell’uomo
e dei suoi affanni, rimandano all’universo
di miti e riti sotteso allo spazio del quotidiano, autorizzando uno
slittamento verso il territorio della cultura.
E
lo slittamento si compie nel 1975. Un tavolo su cui sono sparpagliati
frammenti di un calco in gesso è collegato alla parete attraverso
un’enorme coda
di capelli, lunga otto metri. I capelli, nel loro matrimonio postumo
col calco frantumato, testimoniano: sono ciò che resta di una vita e
di un’unità
ormai dissolte, sono l’allungarsi
delle tracce di questa vita nel luogo che ha assistito al sacrificio.
Ed
è necessario rifarsi al concetto di testimonianza
anche per un’opera
del 1973, la prima nella quale compaia una statua in gesso
frantumata. Su un tavolo sono i frammenti del calco e sul torace
della statua è ritto un corvo impagliato; alla destra del tavolo un
flautista suona un frammento da Mozart, mentre Kounellis è seduto
dietro il tavolo con una maschera di gesso sul viso. Scrive in
proposito Celant: «Ciò
che appare immediatamente evidente è la catastrofe. Il frantumarsi
dell’insieme
statuario e quindi della cultura si accompagna alla morte del corvo,
simbolo di intelligenza e di leggerezza. All’epoca
assistiamo al graduale smantellamento delle unità
culturali. I loro corpus, sottoposti a
traumi drammatici, si scompongono. Così, se la forma compatta della
statua poteva concepirsi quale substrato ideale di civiltà,
il suo spezzarsi significava “disastro”.
Sono passati pochi anni dal 1968 e l’ipotesi
o la speranza di rinnovamento sembrano dissolte. Il bisogno di
felicità e di
gioia del pappagallo, con la sua ansia di nuova vita artistica, si
trasforma in rovine e in corvo impagliato».
Kounellis parla dell’opera
come del «sacrificio
di un corpo in frantumi, rivissuto da me, con il corvo vicino perché
simbolo della morte. Così rivivere non significa
reincarnare, ma rivivere gli scopi. Al tempo stesso ho scelto il
tavolo perché è un oggetto quotidiano, di vita, dove si consuma il
cibo».
A
sottolineare il legame che intercorre nell’opera
tra i capelli e la vita, è Maurizio Calvesi. Essa è un teatro
insieme tragico e quotidiano, il luogo in cui la vecchia aristocrazia
(rappresentata dalla statua e dall’arte
che l’ha
realizzata) è sopra ma a diretto contatto con la cultura contadina
del quotidiano. Come suggerisce lo stesso Kounellis, il tavolo, luogo
stabile del cibo-vita, si oppone tenacemente al calco in frammenti,
simbolo della fine di un’unità
culturale. Scrive Calvesi: «
[...] il mito è uno solo, il ciclo della
rinascita. Suadente il commento del flauto alla sospensione, o meglio
all’attesa che
grava sulla scena: attesa della rigenerazione, della ciclica
sconfitta della morte. L’immobilità
è un’ovvia
rappresentazione della morte e così la “separazione”
del kouros smembrato [...] anche il nero è morte
e al rintocco di colore del corvo – tradizionale
simbolo della “nerezza” anche
come umor malinconico – rispondono i
capelli corvini di Kounellis [...]. Quando il flauto smette,
Kounellis cioè il kouros depone la maschera e si scioglie, si alza,
ha creato, lascia vuota la sedia dell’incubazione,
e stampata sulla parete l’ombra
del corvo, come un appuntamento, di nuovo, con la malinconia e la
paralisi».
La
sensazione suggerita dai capelli-fumo di Kounellis appare molto
simile a quella che si prova di fronte ad alcune opere di Munch. In
esse, le grandi e dense macchie scure che occupano il fondo del
dipinto sono la rappresentazione dell’ombra
della figura, ma nello stesso tempo – percepite
insieme ai volti angosciati dei personaggi –,
ne sottolineano la disperazione e la confusione mentale. I
capelli-ombra sono, così, esagerazione fisica della capigliatura e
suggerimento della debolezza psichica dell’individuo,
sovrastato e quasi assorbito da questa nube oscura (si possono
ricordare, a tal proposito, Pubertà
e Gelosia). Ne L’urlo,
la massa scura della costa e il cielo sinuoso e inquieto sembrano
plasmati dalle onde sonore emesse dal personaggio, ma sembra anche si
apprestino a serrarsi chiudendolo in una morsa. Le ombre, in Munch,
non sono quindi elementi accessori, ma indispensabile
caratterizzazione della scena, che solo in rapporto ad esse può
essere letta nella sua esistenziale complessità.
E’
inoltre possibile proporre la lettura di
alcuni disegni di Kounellis alla luce di un rapporto con gli artisti
della Secessione viennese. Le relazioni con le opere che verranno
citate appaiono, in questo caso, più lontane e forse esteriori, ma
sono ugualmente importanti perché permettono
di ricostruire in modo più completo il quadro di riferimenti
culturali in cui opera Kounellis, contesto decisamente segnato dalla
cultura dell’espressionismo
e da aspetti della Secessione.
Di
Schiele, già citato
a proposito di un disegno del 1975, si possono ancora ricordare:
Donna in piedi con un drappo
(1911), con capelli neri che arrivano sino alle anche e che, alla
sinistra della figura, sembrano saldarsi al drappo scuro aprendosi a
campana ai piedi; Due donne
(1912), dove le linee dei corpi e quelle del viso della figura a
destra appaiono vicinissime a quelle tracciate da Kounellis nel suo
disegno del 1975.
Si
può rievocare anche un disegno del 1914, indicativo sin dal titolo
(Donna dai capelli neri),
dove la massa compatta dei capelli circonda il volto sul quale spicca
il rosso delle labbra. In altri due disegni di Kounellis –
quelli in interni –,
anch’essi del
1975, i tratti del volto sono vicini a quelli di alcuni
disegni-ritratti di Schiele: si pensi a Robert Müller
(1918), dall’ovale
fortemente pronunciato. Sia in Kounellis che in Schiele, gli ultimi
disegni citati si distinguono per una rappresentazione estremamente
particolareggiata della persona e degli abiti.
La
donna nuda del disegno di Kounellis del 1977 potrebbe ricollegarsi
ad una galleria di figure femminili
raffigurate dagli artisti austriaci. Ecco allora, in Schiele: Torso
femminile (1913), Coppia (1914), Ragazza
addormentata (1918), Due ragazze
abbracciate (1918); immagini, queste,
molto essenziali, alcune d’inaspettata
dolcezza rassegnata, prive sempre di quello sfondo che Kounellis
suggerisce attraverso insistiti ghirigori. Parlando dell’immagine
della donna nella Secessione non si può non citare Klimt. Nei suoi
disegni i contorni – che in Schiele
avevano conservato una forte precisione lineare, segnando nettamente
le figure rispetto allo spazio circostante – si
sfrangiano, si moltiplicano dando un’idea
di movimento e suggerendo una compenetrazione possibile tra le figure
e lo spazio che le avvolge. E si osserva in proposito: «La
figura, più spesso femminile, parte da un punto
fisso, la testa, per subire in seguito una sorta di corruzione
stilistica che la integra allo spazio circostante».
Sotto questo aspetto, alcuni disegni di Kounellis fanno pensare a
Klimt più che a Schiele.
Sull’
“inquadratura” e
la costruzione dell’immagine
tipicamente secessioniste scrive Achille Bonito Oliva: «Non
è senza un motivo che nella Secessione viennese,
a partire da Klimt, la profondità diviene
uno spazio di superficie in cui la figura si estende nel senso
orizzontale e in quello verticale, disincorporandosi completamente
dal fondo sino a un protagonismo maniacale della figura appiattita e
chiusa sulla sostanza bidimensionale dello spazio pittorico. Un
vuoto, che ricorda l’arte
grafica giapponese, corona l’immagine
antropomorfa, di uomo o di donna, di adulto o di bambino, ma sempre
tutta distesa in una posa che ne esalta la presenza. La posa in
Schiele è la conseguenza di un’enfasi
visiva che si serve di un’inquadratura
che sembra preconizzare il cinema, quanto all’artificio
e all’assenza
del naturale [...]. Il voltare la figura accentua il piano di
attenzione verso i tratti del viso e verso le parti del corpo dipinte
o disegnate».
E’ un’analisi
che consente anche di cogliere il momento in cui non si può
istituire un rapporto tra Kounellis e la Secessione. I disegni di
Kounellis rifiutano pervicacemente l’isolamento
della figura in uno spazio indefinito; al contrario, essi si
costruiscono per rapporti antinomici, così come le sue opere si
fondano su una bipolarità.
Le relazioni che si costituiscono nei suoi disegni danno origine alla
metafora, in un continuo avanzare del significato che si oppone alla
staticità di
certi simboli riscontrabili in Klimt (La
filosofia; Nuda veritas).
Kounellis,
in questo vicino alla tradizione surrealista, riesce a creare
rapporti tra un qui e un altrove, sia nel tempo che nello spazio, con
un forte effetto di straniamento. Le sue immagini hanno sovente una
valenza erotica fluttuante, indefinita, che contrasta con la fissità
di certi disegni di Schiele, dove
«l’erotismo
delle figure è costretto a ripiegare su se stesso, la mancanza di
sfondo impedisce di trovare dei riferimenti alla carica erotica che
contrae e piega il corpo del modello in pose che divengono una sorta
di mutilazione: un autoerotismo che seziona le figure e le
disarticola al punto da farne dei manichini o dei tronchi umani
capaci di provare ancora dei languori o dei ricordi erotici».
Se
fino ad ora è stata proposta una serie di raffronti formali, il
momento in cui, con paradosso soltanto apparente, egli è più
vicino alla grande arte di Klimt è in un’opera
del 1975. Con altri mezzi, Kounellis giunge a riproporre la magia
astratta e suadente dell’artista
austriaco attraverso un’opera-presentazione
che si dà come
un’apparizione.
Il lavoro – presentato alla Galleria
Lucio Amelio di Napoli – consta di un
muro ricoperto d’oro
in fogli davanti al quale, spostato a destra, è un attaccapanni con
cappotto e cappello; sulla parete destra è una lampada a petrolio
accesa. Opera misteriosa e concentrata, quasi cartolina dall’Oriente
europeo e dall’Austria
fin-de-siècle,
omaggio alla tradizione della continuità
culturale che, come indica la lampada a
petrolio, è riuscita a mantenersi integra sino ai primi del
Novecento, quando le tessere del mosaico erano ancora unite e con
pazienza artigianale si potevano giustapporre una ad una queste
lamine d’oro.
Opera rarefatta e raffinata, schermo dorato per una vita che crede
ancora in una dimensione oltre quella del quotidiano; iconostasi
delle chiese bizantine, che separa lo spazio della galleria destinato
ai visitatori – immerso nella luce
alienante del neon – dal luogo sacro in
cui si svolge l’officium
(in tal caso, lo spazio privato interno). Il titolo dell’
“operazione”,
come scrive Ferdinando Bologna,
è Tragedia civile. L’opera
viene racchiusa da
Celant in una lettura politica: «L’epoca
del riflusso artistico è vicina, tanto che alla scomparsa, vera
tragedia civile, dell’antico
eroe, rivoluzionario e guerriero, nel 1975 Kounellis rende omaggio
con un muro d’oro,
la cui forza bizantina fa pensare al sacrificio dell’essere
sacro».
Il
muro d’oro ci
invita a ripercorrere le trame culturali che hanno attraversato nei
secoli l’Oriente
europeo, quella tradizione che da Bisanzio ha permeato di sé
la Grecia, i Balcani, la Russia, sino a trovare la
sua ultima incarnazione nel mito sovranazionale dell’impero
asburgico.
Predomina
allora la decorazione astraente, l’oro
del fondo dei mosaici, la riduzione ai due piani
dell’orizzontale/verticale,
come era in Klimt. Opera klimtiana («Serve
la coscienza, il pathos e la visione di Klimt»,
afferma Kounellis)
dove la figura si annulla lasciando di sé solo
tracce: alcuni bagliori riflessi dall’oro
– quasi una presenza diffusa ma estenuata
– e l’elegante
insieme, dall’ottimo
contrasto cromatico sulla superficie dorata, costituito dal vecchio
attaccapanni viennese e dal cappotto e cappello; forme insieme rigide
e sottili, ma anche morbide nelle pieghe della stoffa e nelle curve
levigate del legno su cui poggia il feltro.
E
l’opera si presenta
come una visione: «Io
amo gli artisti visionari del medioevo»,
dove la tragedia civile (di una civiltà)
include quella dell’artista
privato della sua funzione: «Nel
medioevo la figura dell’artista
era una figura pubblica».
E Kounellis riesamina la storia dell’arte,
fornisce chiavi di lettura suggestive: «
[...] Duchamp è
medievale. Il grande vetro ha una struttura antica, con l’eroe
in primo piano».
Il
muro d’oro è
un grande muro, è
la scena di una storia avvenuta, colta ormai alla sua fine, quando
l’eroe antico
si è reso conto di aver ricoperto la sua funzione e si è defilato
in silenzio, abbandonando il suo abito in quello che fu un luogo
sacro.
Significative
appaiono le parole di
Fuchs: «Lo
spazio di Kounellis è ancora uno spazio medievale [...] in un certo
senso è estremamente mistico, persino animistico. Lo spazio è
descritto attraverso ciò che vi ha luogo. Lo spazio è teatrale, ma
non alla splendida maniera del barocco. La scena di Kounellis è più
discreta ed è sempre molto vicina a noi spettatori, intima e calda
[...] Sulla scena il mistero deve essere letto di libro in libro, di
segno in segno, dolcemente, come una litania».
E
di tassello in tassello leggiamo questo medievale e dorato libro
d’ore scoprendo
che qualcuno e qualcosa, un tempo, sono esistiti.
NOTE
Impaginazione
a cura di Maria Gabriella Matarazzo
G.
Celant, Arte
povera - Appunti per una guerriglia,
"Flash Art", n. 5, Roma, 1967, p. 3.
Si
pensi in particolare
ai dodici cavalli vivi esposti da Kounellis alla Galleria L'Attico
di Roma nel 1969.
W.
Benjamin, L'autore
come produttore,
in Avanguardia
e rivoluzione.
Saggi sulla letteratura,
trad. it. Torino, 1973, p. 201.
G.
Celant (a
cura di), Jannis
Kounellis,
Milano, 1983, p. 11.
L'opera
è
omologa,
anche nelle dimensioni, a un altro Senza
titolo
del 1969, nel quale la lastra di ferro supporta una mensola ove è
posto un uovo.
G.
Celant, op.
cit.,
1983, p. 18.
G.
Celant, Jannis
Kounellis,
intervista Genova, 1974, poi in
G.
Celant, op.
cit.,
1983.
M.
Calvesi, Kounellis, l'immobilità,
"Corriere della Sera",
1°
aprile 1973.
Cfr.,
per le opere citate in seguito, il catalogo a cura di S. Sabarsky,
Klimt
Kokoschka Schiele,
Milano, 1984.
A.
Bonito Oliva, Klimt
une extase ornementale,
"art press", hors-série
n. 3, Paris, 1984, p. 20.
Si
potrebbe ricordare, tra altri, un disegno di Klimt (Donna
nuda incinta volta a sinistra,
1904-05), che sembra anticipare la versione "tridimensionale"
del medesimo soggetto data da Kounellis il 28 e il 29 dicembre del
1970 alla Galleria L'Attico di Roma. In quella mostra ("Fine
dell'alchimia - De Dominicis, Kounellis, Pisani"), Kounellis
espone una donna nuda incinta con il capo coperto da un panno nero.
A.
Bonito Oliva, La
crise et les apparences de l'art,
in Klimt
Kokoschka Schiele,
Milano, 1984, p. 20.
Ibid.
F.
Bologna, Jannis
Kounellis alla Modern Art Agency,
"Il Mattino", 13 giugno 1975.
G.
Celant, op.
cit.,
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cit.,
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