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Un Compianto su Cristo morto di Vincenzo Tamagni *  

Rossana Castrovinci
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 29 Settembre 2014, n. 729
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Nel giugno 2011 è stata inaugurata al pubblico l’esposizione permanente della collezione di opere d’arte dell’imprenditore e grande collezionista Guido Angelo Terruzzi, scomparso nel 2009. Della collezione, ospitata nella splendida residenza di Villa Regina Margherita di Bordighera, fa parte un interessante dipinto (fig. 1) – un olio su tavola dalle seguenti dimensioni: cm 98,5 x 121,5 cm – fino ad oggi escluso dal percorso espositivo, in quanto necessita di pulitura e per questo motivo conservato nella sala riunioni al secondo piano della villa, raffigurante un Compianto su Cristo morto, opera inedita attribuita a Vincenzo Tamagni da San Gimignano (1492-post 1530), artista che, tra il 1515 e il 1520, fece parte dell’entourage di Raffaello a Roma.

Vincenzo Tamagni1 è uno degli artisti meno noti di quella grande stagione artistica che fu il primo Cinquecento italiano: la sua produzione pittorica combina chiaramente gli stili del tardo Quattrocento con quelli dell’alto Rinascimento senese e fiorentino senza prescindere dalla importantissima “lezione romana” di Raffaello. Nella prima edizione delle Vite dei Pittori, Scultori e Architetti, Giorgio Vasari tracciava una prima biografia del Sangimignanese rendendo giustizia al suo operato, ma concedendo ben poco spazio ai dettagli della sua vicenda umana. La traccia vasariana fu in seguito arricchita da Gaetano Milanesi nel Commentario all’edizione ottocentesca delle Vite2.

Il dipinto in esame da notizie comunicate a chi scrive dalla curatrice della collezione, la Dottoressa Annalisa Scarpa, dovrebbe farne parte da ormai trent’anni o poco più; purtroppo non è stato possibile risalire al periodo preciso dell’acquisto dell’opera e neanche alla modalità, cioè se l’acquisto – su consiglio dell’allora consulente dell’imprenditore Terruzzi, Federico Zeri – fu effettuato sul mercato antiquario o tramite asta pubblica.

La tavola si presenta inserita in una cornice che, a una prima occhiata, sembrerebbe originale e coeva alla tavola stessa. La cornice dorata e decorata “all’antica” è provvista, lateralmente, di pilastrini scanalati fino a metà altezza con capitelli; nell’architrave e nel basamento compaiono due fregi dipinti a grottesche. Ai lati del basamento sono presenti due stemmi3 dipinti (figg. 2, 3), incastonati nella cornice: questo potrebbe far pensare che il dipinto possa essere stato commissionato, visto anche il soggetto, per essere collocato in qualche cappella gentilizia e i due stemmi, probabilmente, indicare le famiglie di provenienza dei proprietari della cappella.

Il soggetto rappresentato è il momento seguente alla Deposizione dalla Croce: “il Compianto, così come la versione iconografica del medesimo episodio detta Mise au tombeau, estesasi maggiormente nell’area culturale franco-germanica a partire dal Quattrocento, si sofferma nel momento in cui, avvolto o messo a giacere sul sudario di «purissimo panno di lino», il corpo è collocato nella tomba alla presenza di Giuseppe e Nicodemo, insieme a Giovanni, Maria e le tre Pie Donne (di solito la Maddalena, Maria Salome e Maria madre di Giacomo: Luca, 24, 10). È un momento in cui il tempo della storia si ferma ed esplode alto, inconsolabile, radicale nell’esperire la perdita, rituale e intimo allo stesso tempo, il pianto dei seguaci di Cristo, ma soprattutto delle sue’ donne. La Madre si accascia sul corpo del Figlio, baciandolo sulle guance, o vi si piega sopra sorretta da Giovanni, o crolla tra le braccia delle altre donne. La Maddalena alza spesso le braccia al cielo, scompiglia i capelli, urla e singhiozza ad alta voce, si lancia verso il corpo terreo di Gesù, oppure si abbarbica ai piedi che un tempo aveva bagnato con le sue lacrime o vi si accuccia accanto. Le altre Marie fanno da coro amplificante le emozioni delle due protagoniste, accompagnandone l’espressività e il cordoglio”4.

La scena dipinta sembrerebbe ambientata all’alba; in lontananza si vede una città arroccata e il Monte Calvario con i due ladroni ancora appesi ancora alle rispettive croci. L’atmosfera è serena, e sembra quasi stridere con l’azione che si sta svolgendo. In primo piano (fig. 4) – disposto a mo’ di tableaux vivants – è il gruppo dei dolenti intorno al corpo5 livido e freddo di Gesù adagiato sul lenzuolo.

Al centro della composizione è Maria6, contenuta nel suo dolore, che tiene sulle ginocchia il corpo del Figlio – che ancora non è stato lavato dal sangue – verso cui rivolge uno sguardo amorevole. L’artista, come può vedersi, ha messo in evidenza la ferita sul costato di Cristo, aperta e stillante ancora sangue, unica nota cruenta di tutta la composizione.

Alla sinistra della Madonna è San Giovanni che sorregge un lembo del lenzuolo su cui è adagiato il corpo esanime di Gesù e dall’espressione del volto sembra quasi meditare sul mistero della morte. Alla destra della Vergine sono due donne che nell’iconografia tradizionale del Compianto rappresentano le due sorelle della Madonna, figlie di Sant’Anna ma di padri diversi: Maria di Cleofa e Maria Salome7. Le due donne sono rappresentate una con le mani intrecciate in atteggiamento di preghiera mentre fissa, disperata, il corpo di Gesù, l’altra, invece, sembra quasi voler allontanare da sé questa visione terribile rivolgendo lo sguardo altrove.

Maria di Magdala, conosciuta come Maria Maddalena, è invece inginocchiata ai piedi del Cristo, piangente ma composta nella sua muta disperazione, con i lunghi capelli sciolti che le cadono sulle spalle e con la mano sinistra delicatamente accostata alla guancia: sembra che anche lei, come San Giovanni, voglia meditare sul mistero della Passione.

Generalmente nell’iconografia del Compianto oltre ai personaggi citati, troviamo rappresentati Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea: secondo la consuetudine iconografica, durante il “Compianto” e la “Deposizione” di Cristo nel sepolcro Nicodemo si occupa delle gambe di Gesù mentre Giuseppe d’Arimatea sostiene le spalle8.

In questo caso (fig. 1), invece, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea sono raffigurati poco distanti dal gruppo dei dolenti – e in secondo piano – mentre discutono tra di loro: uno dei due, presumibilmente Nicodemo, tiene in mano i chiodi che trafissero i piedi e le mani di Gesù. I due personaggi sopraccitati, quindi, sono raffigurati in una posizione lontana dal gruppo centrale: una esplicita richiesta della committenza o una scelta iconografica dell’artista? Questo al momento non è dato sapere. Un precedente del genere si ritrova nel Compianto, datato 1502, di Luca Signorelli (fig. 5, oggi conservato al Museo Diocesano di Cortona): qui, Giuseppe e Nicodemo sono, infatti, raffigurati, mentre discutono, subito dietro il gruppo dei dolenti.

Certo, la similitudine tra i due dipinti si ferma a quanto riportato, infatti, come è chiaramente visibile dal confronto tra le due tavole, il pathos che contraddistingue il dipinto del Signorelli non si riscontra nel dipinto del Tamagni. Quest’ultimo, invece, è più vicino a un Compianto dipinto nel 1495 dal Perugino per la chiesa di Santa Chiara a Firenze e oggi conservato presso la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, sempre a Firenze (fig. 6): in entrambi i dipinti “il corpo di Cristo è circondato da una cerchia di astanti coinvolti in una aggraziata rappresentazione di gesti rituali”9.

Il dipinto, comunque, è da ritenersi, tra le opere pittoriche del Tamagni, una delle migliori, sebbene risenta ancora fortemente dello stile del Sodoma – del quale il Sangimignanese, ricordiamo, fu apprendista e tra gli aiuti nelle imprese di Monte Oliveto, Subiaco e quasi probabilmente a Roma – e chi scrive concorda con la datazione – 1510 ca.10 – attribuitagli da Federico Zeri. L’auspicato restauro della tavola sicuramente restituirà non solo una migliore lettura del totale ma darà anche nuova vita ai colori che, in special modo quelli delle vesti, dovevano in origine risaltare accesi e vibranti.

In conclusione, è da ricordare che Tamagni eseguirà solo un’altra volta il tema del Compianto: nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano, nel primo altare della parete destra dedicato a S. Vincenzo, vicino l’ingresso laterale dell’edificio, a coronamento di una tavola di Pier Francesco Fiorentino – datata 1494 e raffigurante una Madonna con Bambino e Santi – vi è una lunetta dipinta a fresco, molto ben conservata, opera del Nostro, raffigurante un Compianto su Cristo morto11.









NOTE

* In ricordo di Gabriele Borghini (1943- 2013) e Nicole Dacos (1938-2014).

1 Nato a San Gimignano, in una famiglia benestante di proprietari terrieri, Vincenzo dovette apprendere le prime nozioni dell’arte da Giovanni Cambi, un pittore locale di fine Quattrocento poco conosciuto, e non da Sebastiano Mainardi (San Gimignano 1466-Firenze 1513) – ricordato dal Vasari nella Vita di Domenico Ghirlandaio fra gli allievi del maestro fiorentino, nonché suo cognato, avendone sposato la sorellastra Alessandra il 16 giugno 1494, sei mesi dopo la morte del Ghirlandaio – come Adolfo Venturi e Bernard Berenson sostenevano. A seguito di quel primo apprendistato, l’ancora giovanissimo Tamagni fu arruolato dal grande Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma che seguì quale assistente a Siena, in altri centri toscani e a Roma, dove il maestro gli consentì d’entrare nella più prestigiosa bottega del tempo, quella di Raffaello Sanzio. Spirito autonomo, artista indipendente dopo la morte di Raffaello, Tamagni si spostò da una città all’altra, lavorando alle dipendenze di alti prelati e personalità importanti. Delle sue opere, oltre a un nutrito gruppo di dipinti conservati nei musei e nelle chiese di Roma e della Toscana, sopravvive un cospicuo corpus di disegni che sin dai tempi del Berenson ha riscontrato un notevole interesse della critica. Monografie sull’artista non ve ne sono: la prima – che include opere pittoriche e disegni – approntata da chi scrive, sarà di prossima pubblicazione. Cfr. R. Castrovinci, Vincenzo Tamagni: un artista diligentissimo, tesi di dottorato di ricerca in Strumenti e Metodi per la Storia dell’Arte, Sapienza Università di Roma, a. a. 2010-2011.

2 Il Milanesi pubblicò, oltre all’albero genealogico dell’artista, anche una “confessione di debito” – datata 7 giugno 1511 – con cui il Tamagni, “liberato dalla carcerazione presso il tribunale del podestà di Montalcino, si obbliga nei confronti di Giovanni Antonio Bazzi [il Sodoma] per la somma di 25 ducati d’oro. (…). Con questa dichiarazione Tamagni, ad presens pictor in civitate Senarum, si obbligava in sostanza verso il pittore vercellese. (…). Vincenzo Tamagni fu dunque scarcerato nel momento in cui promise al Sodoma la restituzione della cospicua somma di 25 ducati d’oro, (…)”. Cfr. R. Bartalini-A. Zombardo, Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma. Fonti documentarie e letterarie, Vercelli 2012, pp. 38-39.


3 Osservando da vicino gli stemmi, quello posto a sinistra (fig. 2) parrebbe essere quello della famiglia senese Beccarini Crescenzi: “troncato: nel primo d’oro al leone uscente al naturale; nel secondo scaccato di nero e di oro”. Sebbene, il leone del nostro stemma sia soltanto ripreso nella testa e lo scaccato nella parte inferiore sia nero e bianco, anche se sotto lo strato di pittura bianca è visibile la doratura, ritengo che lo stemma sia proprio riferibile alla famiglia Beccarini Crescenzi. Vorrei ringraziare il Dottor Claudio Beccarini Crescenzi che in una comunicazione scritta mi ha confermato che lo stemma nella foto potrebbe essere quello della famiglia Beccarini Crescenzi, anche se vi sono molte irregolarità: il colore del leone rampante non è rosso ma è nero ma, tuttavia, anche la stessa figura non corrisponde alla realtà. Cfr. V. Spreti: Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, 1928-1936, ristampa anastatica, Sala Bolognese 1981, II, pp. 16, 17; V. U. Crivelli Visconti: Le casate nobili d’Italia, Roma 1955, p. 97; G. B. Crollalanza: Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, ristampa anastatica Bologna 1965, I, p. 106. Problemi d’individuazione della famiglia ha dato, invece, lo stemma di destra (fig. 3) che presenta tre crescenti montanti d’oro su fondo blu, capriolo d’oro e quattro gigli rossi: i dizionari di araldica e quelli nobiliari consultati non contemplano lo stemma descritto e, chi scrive, ipotizza possa appartenere a una famiglia estinta da tempo, oppure, ed è forse l’ipotesi più accreditata, che lo stemma possa essere stato ridipinto, stravolgendo l’originale, così da non rendere possibile l’individuazione della famiglia a cui apparteneva.

4 S. Castri, Affetti al femminile: il "Compianto" tra sacra rappresentazione, riti funebri e trascrizione figurativa, in Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento, Atti del Convegno di studi a cura di A. Pontremoli (Torino, 28-29 novembre 2001), Firenze 2003, pp. 171-172.

5 Da segnalare a questo proposito: F. Caprara, Anatomie esemplari. Un percorso per immagini intorno al Compianto sul Cristo morto, in Rappresentare il corpo. Arte e anatomia da Leonardo all'Illuminismo, Bologna 2004, pp. 165-174.

6 Cfr. S. Castri, op. cit., 2003, pp. 159-182.

7 Maria di Cleofa, chiamata così perché moglie di Cleofa, detto anche Cleopa oppure Alfeo, era la madre di Giacomo (uno degli apostoli e futuro vescovo di Gerusalemme, definito anche Giacomo Minore o d’Alfeo per distinguerlo da un altro apostolo, Giacomo Maggiore figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni apostolo ed evangelista), Giuda Taddeo (altro apostolo, da non confondere con Giuda Iscariota), Simone (ancora un altro apostolo, da non confondere con Simone-Pietro, eletto a succedere al fratello Giacomo Minore nella sede episcopale di Gerusalemme) e Giuseppe. 
Maria di Cleofa sarebbe quindi la madre di ben tre dei dodici apostoli. I tre fratelli sopraccitati sono talvolta ricordati come “fratelli” di Gesù (Mt, 13, 55; Mc, 6, 3), ma nella lingua semitica i termini fratello e cugino spesso coincidono. Nel brano del Vangelo di Giovanni si dice testualmente: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala” (Gv 19, 25). In realtà, quindi, il testo potrebbe anche essere interpretato come l'elenco di quattro donne, delle quali tre si chiamano Maria, mentre la quarta rimarrebbe senza nome e sarebbe “la sorella di sua madre”. Secondo alcuni, la frase “la sorella di sua madre” si riferirebbe a Maria di Cleofa, ma secondo altri potrebbe riferirsi a Salome, non citata espressamente. Salome è la madre dei figli di Zebedeo, ovvero Giacomo Maggiore e Giovanni, come sopra ricordato. Questo concorderebbe sia con la versione del Vangelo di Marco, secondo il quale Salome è una delle donne ai piedi della croce (Mc 15, 40), sia con quella del Vangelo di Matteo (Mt 27, 55-56).

8 Giuseppe d’Arimatea, in genere raffigurato con la barba, con vesti sontuose, tradizionalmente viene collocato a sinistra della composizione poiché la tradizione dice che ebbe il compito di estrarre i chiodi dalle mani di Cristo. Costui compare in tutti e quattro i Vangeli canonici, cosa alquanto infrequente nel Nuovo Testamento, anche se descritto non sempre nello stesso modo. Nel Vangelo secondo Matteo, Giuseppe è un ricco mercante di Arimatea, divenuto discepolo di Gesù, al quale cede il suo sepolcro, che era nuovo, per esservi seppellito (Mt 27, 56-60). Nel Vangelo di Giovanni si racconta che Giuseppe era un discepolo di Gesù e che fu lui ad ottenere da Pilato il corpo di Gesù per poterlo seppellire (Gv 19, 38). Quest’ultima circostanza è confermata nel Vangelo secondo Marco, dove Giuseppe è descritto come membro autorevole del Sinedrio (Mc 15, 43). Anche nel Vangelo di Luca Giuseppe è ricordato come membro del Sinedrio, ma un membro dissidente, che non aveva condiviso la decisione degli altri membri riguardo la condanna di Gesù (Lc 23, 50-56). 
Secondo una certa tradizione, che non trova tuttavia alcun riscontro nei Vangeli, Giuseppe d’Arimatea avrebbe fornito anche il calice per la celebrazione dell’Ultima Cena e avrebbe poi raccolto alcune gocce di sangue stillanti dal corpo di Gesù crocefisso nello stesso calice, tramandato poi dalla leggenda come il Sacro Graal.
Nicodemo, rappresentato anch’esso barbuto ma a capo scoperto, viene generalmente collocato a destra della composizione poiché la tradizione gli attribuisce il compito di aver estratto i chiodi dai piedi di Cristo. 
Di Nicodemo parla Giovanni nel suo Vangelo, come un fariseo, anch’esso membro del Sinedrio, ma, allo stesso tempo discepolo di Gesù. Nicodemo compare tre volte nel Vangelo secondo Giovanni: ascolta l'insegnamento di Gesù (GV 3, 1-21), interviene in sua difesa quando è malmenato dai farisei (GV 7, 45-51), aiuta Giuseppe d'Arimatea a seppellirlo (GV 19, 39-42).

9 Cfr. Raffaello da Urbino a Roma, a cura di H. Chapman-T. Henry-C. Plazzotta, catalogo della mostra (Londra, National Gallery, 20 ottobre 2004-16 gennaio 2005), ed. ital., Milano 2004, p. 47.

10 Sappiamo con certezza che Vincenzo Tamagni nel 1510 si trova a Montalcino, dove rimarrà fino al 1512, impegnato ad affrescare due cappelle nell’ex chiesa di San Francesco. Quindi, sarebbe plausibile una esecuzione del dipinto a Siena o comunque per un committente senese. Da ricordare che nel 1511 Vincenzo Tamagni si trova in rotta con il suo maestro, il Sodoma, per un debito mai restituito e quindi la data ipotizzata per l’esecuzione del dipinto in questione ben si attesta nella cronologia delle opere certe del Sangimignanese.

11 “La pittura, che non è documentata, dovrebbe essere datata al biennio 1523-1524, cioè in quel torno di tempo in cui il Tamagni eseguì per gli agostiniani una serie di opere per la loro chiesa di San Gimignano, e precisamente la tavola con la Nascita della Vergine (1523), gli affreschi del pulpito in marmo (1524) e l’affresco con l’Adorazione della Croce, opera anch’essa non documentata ma che possiamo includere cronologicamente nel biennio indicato”. Cfr. R. Castrovinci, 2011, pp. 111-112.








Fig. 1
VINCENZO TAMAGNI (attr.), Compianto su Cristo morto, 1510 ca.,
Bordighera, Fondazione Terruzzi, Villa Regina Margherita


Fig. 2
Stemma della Famiglia Beccarini Crescenzi di Siena. Particolare della cornice


Fig. 3
Secondo stemma e particolare della cornice


Fig. 4
VINCENZO TAMAGNI (attr.), Compianto su Cristo morto, 1510 ca., particolare


Fig. 5
LUCA SIGNORELLI, Compianto su Cristo morto, 1502, Cortona, Museo Diocesano


Fig. 6
PIETRO VANNUCCI, detto IL PERUGINO, Compianto su Cristo morto, 1495, Firenze, Galleria Palatina, Palazzo Pitti







	
Foto 1 e 4 cortesia Dott.ssa Annalisa Scarpa

Foto 2, 3, 5 e 6 cortesia Rossana Castrovinci

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