«Non ho
badato tanto alla logica quanto al senso, per questo la figura di Pasolini,
per
esempio, si trova vicina quella mitica di Remo.
La cupola
di san Pietro è vicina alla costruzione del ghetto e al rogo di Giordano Bruno.
Quello
che volevo raccontare con quest’opera […] sono anche le contraddizioni della
storia».
Prima delle realizzazioni e delle riflessioni di Michelangelo,
già Leon Battista Alberti nel De Statua
si sofferma sulla definizione dell’arte plastica tridimensionale. L’opera
scultorea può eseguirsi per via di porre – allorché i “modellatori”
utilizzano materiali agevolmente malleabili, come terra o cera – o per via
di levare, quando gli scultori si cimentano con i marmi.
Triumphs and Laments, la
creazione artistica di William Kentridge ufficialmente inaugurata a Roma il 21
aprile 2016 lungo i muraglioni del Tevere tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto, può
essere letta attraverso vari riferimenti. Realizzata attraverso la
rimozione-ripulitura selettiva del portato ambientale e umano depositatosi
sull’argine fluviale, è operazione concettualmente, prima ancora che
fisicamente, site-specific,
all’incrocio di tracce e stili.
La dicotomia
albertiana appare una delle possibili griglie interpretative, purché se ne
evidenzi ora il superamento dialettico: levare,
qui, non comporta il far emergere forme dal marmo ma il definirne contorni
emersi da terre e stratificate patine inquinate.
Rispetto alla misura umanistica dell’Alberti, il gigantismo
delle raffigurazioni di Kentridge – evocate
dal muro anche per una decina di metri ciascuna – ha portato a commentare Triumphs and Laments in termini
michelangioleschi: sorta di Cappella Sistina del Lungotevere, la realizzazione
dell’artista sudafricano vivrebbe della bipolarità potenza/atto, proponendosi
però una programmata e accelerata consunzione-dissoluzione. Il «come per levar, donna, si pone / in pietra alpestra e dura / una
viva figura, / che là più cresce u’ più la pietra scema» (152) delle Rime di
Michelangelo è affrontato da Kentridge diluendo quelle tensioni in una
transeunte contemporaneità che sfida – facendo sfilare la storia – l’arredo
urbano, ma che si apparenta a un’operazione land
art capace di riattivare e ridisegnare gli interventi, anche a Roma, di
Christo. Se questi nel 1974 evidenziava per accumulo protettivo Porta Pinciana,
sottraendola agli sguardi consueti, in tempi di diversa considerazione per
l’ambiente e di ripensamenti critici il procedere di Kentridge trasforma
l’aggiunta in sottrazione, il bianco del rivestimento in ripulitura dell’umido
nero.
In uno scorrere della raffigurazione che evidenzia il procedere
trionfale e l’abbattersi sofferente degli sconfitti – tutti ri-creati sull’argine dopo un percorso
creativo fatto di ricognizioni, schizzi, disegni a carboncino e sagome da
giustapporre al muro –, il nero scalfito è traccia unificante di una lettura
para-cinematografica che può essere michelangiolesca, barocca, sotto il segno
di Scipione e dei segni impressi dalla non pacificata visione della storia di Mario
Sironi.
A riscontro dei sironiani paesaggi
urbani “all’antica” – scene capaci di assumere anche andamenti narrativi quando
vengono introdotte figure di mendicanti, di donne e di bambini –, nell’opera di
Kentridge si mostra un linguaggio contemporaneo e arcaizzante, costruzione
segnica semplificata ove angosce e successi – gli unici presenti, questi
ultimi, nelle scene trionfali della classicità solo parzialmente realizzate da
Achille Funi per il Palazzo dei Congressi dell’EUR –, sono temperati da inquadrature
che accomunano i sommersi e i salvati: dalla mitografia della Lupa
capitolina alle morti di Pasolini e Aldo Moro, nonché dei migranti in mare.
Lungo il
Tevere, come in passato, le combinazioni segniche si caricano di significati
plurimi, evocati ed invocati. Forma di neo-umanesimo urbano, la raffigurazione
pubblica di oggi ripropone chiavi politiche della storia, riportando alla
nostra attenzione che «La pittura murale è
pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente
di qualunque altra forma di pittura […]».
Senza essere pittura, lo scenario artistico di Kentridge riarticola il
principio della semplificazione formale delle avanguardie storiche in grafica
ove la memoria archeologica della romanità si dispiega in “tratteggi” tra art brut e post-comics.
In
un’ambientazione che scarnifica incisioni piranesiane, dialogando con
drammatizzazioni della storia alla Goya, le liquide ombre di Kentridge, assenze
che si fanno percepire, chiarori chiamati a disperdersi nei pressi dell’acqua,
testimoniano di un passaggio che incide provvisoriamente ma durevolmente nello
spazio urbano – «L’opera durerà sette anni, le patine di sporco nel
tempo diventeranno più sporche e il bianco si scurirà fino a trovare un
equilibrio nelle stratificazioni, ma è così che deve evolvere senza essere
toccata»
– offrendo un
contributo al «rinnovamento delle tre arti.
Rinnovamento dell’architettura, alla quale la decoratività pittorica porterà un
calore profondo, una vitalità affascinante e meravigliosa, rinnovamento della
pittura e della scultura rinsanguate da nuovi principî costruttivi volti a
rendere espressive e significative le grandi superfici murali, oggi tanto
spesso deturpate da decoratori e mestieranti».
Come nell’ambito delle Triennali di Arte decorative degli anni
Trenta le opere pittoriche potevano essere destinate a non durare, in Triumphs and Laments si rinuncia ad
aggiungere rovesciando a Roma ogni tentazione di segni urbani da writers, sia spontanei sia
programmaticamente impegnati, consentendo alla città di connotare il suo
lungofiume con l’aiuto dell’artista-demiurgo. Se Walter Benjamin evidenzia il tema del riflesso
fluviale – Senna come specchio vivo di Parigi, che vi rovescia ogni giorno «le immagini dei suoi solidi edifici e dei suoi
sogni di nuvole»: il fiume accetta volentieri «le
offerte di questo sacrificio e, come segno del suo favore, le frantuma in mille
pezzi»
–, Kentridge, evocatore di incantesimi dalla
durata effimera, ove una tradizionale scansione dei tempi si accorda anche con
la moda del transeunte, offre pudicamente al Tevere le proprie forme del sacrificio, immagini che si
affacciano tra memoria e avvenire, limes
tra solido e liquido, tra restare e scorrere.
NOTE
M. Sironi, Manifesto della pittura murale, 1933,
cit. da R. Barilli (a cura di), Annitrenta
- Arte e Cultura in Italia, Milano 1982, p. 46.
M. Sironi, Pittura murale, 1932, in P. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, III,
Torino 1990, p. 132.
W. Benjamin,
Paris, la ville dans le miroir, in Sens
unique, Enfance berlinoise, Paysages urbains, ediz.. francese Paris
1988, p. 290.
Al MACRO di Via
Nizza sono stati in mostra i disegni a carboncino ideati da Kentridge per la
creazione sui muraglioni del Tevere. Al
MAXXI sono stati esposti sei lavori di Kentridge che fanno parte della Collezione
permanente del Museo.
BIBLIOGRAFIA
BENJAMIN 1929
Walter
Benjamin, Paris, die Stadt im Spiegel, in «Vogue», 30 gennaio
1929, cit. da Paris, la
ville dans le miroir, in Sens
unique, Enfance berlinoise, Paysages urbains, ediz. Paris, 1988.
BUONARROTI 1929
Michelangelo Buonarroti, Rime, ediz.
Bari, 1967.
MAGGIORELLI
2016
Simona
Maggiorelli, Kentridge al Macro racconta la genesi della sua
opera sul Lungotevere, www.left.it, 18 aprile 2016.
MATTIOLI
2016
Massimo
Mattioli, William
Kentridge racconta il murales del Tevere su Il Messaggero, http://www.artribune.com, 6 aprile 2016.
SIRONI 1932
Mario
Sironi, Pittura murale, in “Il
Popolo d’Italia”, gennaio 1932.
SIRONI 1933
Mario
Sironi et al., Manifesto della pittura murale, in “Colonna”, dicembre 1933.
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