1. Preludio
Introduzione
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Fig. 1 - Tavola dinastica dei sovrani Simashki e Sukkalmakh
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Quando i dinasti
Sukkalmakh (Fig. 1) decisero, attraverso un piano capillare di riforme in ogni
campo politico e culturale, di superare le precedenti elaborazioni
intellettuali e propagandistiche della dinastia Simashki, certo non pensarono
che, a distanza di qualche millennio, il loro nuovo programma sarebbe stato al
centro di discussioni, non sempre fruttuose, sul significato e sul valore
rivoluzionario di quanto attuato; riforme che superavano di slancio le
contrazioni reazionarie di un ordine dinastico prestabilito concentrato nelle
azioni di propaganda dei sovrani Simashki. Questo breve contributo vorrebbe
provare a riconoscere quei paradigmi storiografici che spiegano, o almeno
provano a farlo, le singole dinamiche processuali di tipo storico come l'esito
di una dualità di percorsi, perlopiù distinti e scissi, in contrapposizione tra
loro, distanti e contrari dove il 'centro' e la 'periferia', il 'nomade' e il
'sedentario', 'l'uomo' e 'l'ambiente', per citarne alcuni, vengono studiati
come il risultato di processi antitetici, in conflitto tra loro. In
quest'ottica l'idea di provare a rintracciare un 'classicismo', e in antitesi
un 'anti-classicismo', in ambiti culturali (Vicino Oriente) generalmente
impermeabili alle problematiche storiografiche di altri settori disciplinari,
appare stimolante, non semplicemente per riconoscere modelli acquisiti di
lettura delle realtà passate attraverso nuovi paradigmi storici, ma perlopiù
per una dialettica trasversale che possa determinare nuovi spunti sul metodo e,
quando possibile, una rigorosa applicazione dello stesso per comprendere regni
e genti che solcarono l'Iran tra la fine del III e la prima metà del II
millennio a.C.
Appare evidente che
anche in quei contesti definiti pre-classici, come il Vicino Oriente Antico,
debba essere ricercata una classicità e, se identificata, un anti-classicismo
che definirebbero al meglio gli aspetti essenziali di un percorso culturale in
una zona, in un determinato periodo. In particolare negli studi archeologici
questa visione sistemica che definisce un qualcosa come 'classico' e il resto
come 'non classico' è stato aiutato da un approccio generalmente deterministico
e tipologico sulle singole classi di materiali che, definite nel loro insieme,
in base alle loro caratteristiche, restituivano un quadro classificatorio della
realtà storica che, lontano da qualsiasi tentativo di comprensione delle
dinamiche sociali, relazionali, e classiste, si avviluppava attorno all'idea
che ci fosse una produzione specifica di un territorio in un determinato
periodo (= 'classica') con difformi variabili (= 'anti-classiche') condizionate
da elementi perlopiù di natura esogena. Se questa visione bipolare di una
produzione artistica, che tuttavia investe più ampi campi del sapere, si deve
riconoscere nel metodo storiografico, più difficile sembra scorgersi nell'uomo
vicino-orientale e nelle strutture di potere da lui create tra il III e il II
millennio a.C. Questo contributo, in sintesi, e senza la certezza di riuscirci,
vorrebbe, non semplicemente riconoscere un classicismo artistico e la sua
consequenziale negazione, ma provare a ricostruire le singole produzioni
dell'arte Elamita tra il 2100 e il 1550 a.C. per comprendere appieno se questo
approccio di metodo fosse, implicitamente o allo stato subconscio, già operante
nelle cancellerie delle dinastie elamite che si sono susseguite sul territorio;
il tentativo sarebbe quello di ricostruire, quando possibile, schemi e codici
mentali dei sovrani Sukkalmakh partendo dalle loro opere che, come avrò modo di
mostrare, nascono anch'esse da una visione dualistica di confronto tra ciò che
rappresenta il regno e ciò che ne è distante, tra un'ortodossia artistica e le
sue variabili, tra, appunto, il 'classico' e 'l'anti-classico'.
2. Protasi
Il contesto storico
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Fig. 2 - Elam e Susiana
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Si è deciso di prendere
in considerazione un passaggio storico importante nella storia del Bronzo
Iraniano che coincide con un cambio dinastico che avrà forti ripercussioni sulla
produzione intellettuale o, più precisamente, artistica del regno Elamita; un
periodo in cui la nuova reggenza Sukkalmakh, certamente dominante a partire
dalla fine del XX secolo in Elam, ascese sulle alte terre iraniane e,
successivamente, in parte della Mesopotamia assurgendo a un ruolo dominante su
un ampio territorio precedentemente controllato dalle dinastie delle città
alluvionali di Susa, Ur e Isin (Fig. 2). I sovrani Sukkalmakh, la cui origine
rimane incerta, rappresentarono uno dei periodi di massima prosperità
all’interno delle linee storiche evolutive dell’impero Elamita; l’abbondante
documentazione archeologica rinvenuta, la dilatazione esponenziale dei più
importanti centri elamiti, il numero progressivamente e costantemente in
crescita degli insediamenti minori,
l’aumento di testi scritti e le significative relazioni ‘internazionali’ con
regioni lontane (in primis le coste
occidentali del Golfo Persico, la
Battriana-Margiana,
valle dell’Indo
e la Siria), sono
evidenze che restituiscono un quadro storico, circoscritto tra il 1900 e il
1500 a.C., particolarmente chiaro sul ruolo svolto dai dinasti Sukkalmakh nella
crescita e sviluppo del regno Elamita. Il fondatore della dinastia Ebarti,
sebbene mostri forti legami con la precedente Casa Regnante Simashki, darà
origine a un nuovo percorso storico che si affermerà definitivamente solo un
paio di secoli dopo con Sirukutuh, quando i prodomi di un nuovo modo di pensare
la regalità, già presente con l’inizio della nuova dinastia, si espliciteranno
definitivamente con una nuova tradizione artistica.
3. Epitasi
Le riforme Sukkalmakh
Le
linee di discontinuità rintracciabili nel passaggio tra la regalità Simashki e
la sovranità Sukkalmakh investono ampi e più articolati settori che coinvolgono
i singoli aspetti religiosi, artistici, iconografici, amministrativi e
celebrativi del nuovo regno che, da lì a poco, avrebbe rivaleggiato con la
Babilonia di Hammurabi.
Le
riforme introdotte, finora studiate, quando riconosciute, come sporadiche
evidenze sfilacciate e perlopiù casuali, prive di un chiaro programma di
cambiamento dinastico, dovettero, tuttavia, rappresentare un organico,
ragionato e pianificato tentativo di superamento delle esperienze politiche
Simashki; le note
innovative introdotte dai Sukkalmakh, piuttosto che analizzate come singole
manifestazioni, spesso casuali e slegate tra loro, mostrano, infatti, un coeso
e capillare programma di cambiamento finalizzato a perseguire nuovi sentimenti
identitari in tutto l’Elam attraverso un’attività propagandistica
esasperatamente centrata sul tentativo di restituire all’altopiano iranico la
preminenza politica e amministrativa a scapito della componente alluvionale. Le
riforme sembrano essere perlopiù mirate al tentativo di limitare
progressivamente il potere amministrativo e politico dell’occidentale Susa,
certo più esposta alle correnti mesopotamiche, per agevolare l’ascesa della
‘montanara’
Anshan, più radicata nel tessuto etnico-tribale del sostrato elamita; tuttavia
questo processo di sostituzione e di stravolgimento delle gerarchie tra le due
componenti, in antitesi sin dalle epoche più arcaiche,
dovette rappresentare un serio problema, certamente più complesso di un
semplice cambiamento dinastico; per la prima volta all’interno del regno
elamita, infatti, si andava ad affrontare programmaticamente la ‘questione
etno-tribale’ che da sempre aveva condizionato i duali percorsi storici di
sviluppo ed inviluppo del regno di Elam a partire dalla metà del III millennio
a.C. Alla componente alluvionale di origine semitica, di più antica tradizione
politica, religiosa e culturale, rappresentata dallo storico centro di Susa
che, come tale, era venerato e oggetto delle attenzioni edilizie dei sovrani
regnanti, si affiancò sempre più prepotentemente Anshan, la nuova capitale del
regno, di più recente formazione e ben ancorata alle tradizioni tribali del
sostrato nomade ed elamita dell’altopiano iranico.
Questi
‘salti’ storici si devono riconoscere principalmente nelle riforme religiose
(nuova preminenza del dio Napirisha vs Inshushinak), dinastiche (la nascita di
una nuova arte figurativa di propaganda Sukkalmakh vs Simashki) e
amministrative (spostamento del baricentro politico verso est e preminenza
della città di Anshan su Susa) che furono attuate a partire dal 1900 a.C.
I
drastici cambiamenti imposti all’interno delle gerarchie del pantheon elamita
videro l’ascesa della nuova coppia divina Napirisha e Kiririsha, originaria del
sostrato elamita e certo di forte rottura con la tradizione secolare
alluvionale susiana.
Attorno al 1900 a.C. Napirisha (= DINGIR GAL) è introdotto per la prima volta
nel pantheon elamita, compare su un’iscrizione di sigillo, in una
formula di giuramento e forse come teoforo. Gli
stessi codici iconografici sembrano essere fortemente appiattiti su schemi
figurativi che restituiscono la coppia elamita, appunto Napirisha e Kiririsha,
nell’atto di officiare ricorrenze religiose ovvero ad accogliere alte cariche
pubbliche riconoscendone ruolo e preminenze politiche. Il dio Inshushinak
sembra, ora, essere perlopiù circoscritto alla città di Susa, di cui continua
ad essere il dio cittadino, con un ruolo, sebbene ancora particolarmente
importante, assai marginale rispetto alla nuova coppia divina.
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Fig. 3 - Le rappresentazioni del dio Napirisha con la sua paredra Kiririsha
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La
contrapposizione tra la tradizione rappresentata dal classicismo susiano e
dalla sua massima divinità Inshushinak e la forza riformatrice da riconoscersi
in Napirisha sembra essere ben documentata in un’impronta di sigillo databile
al XVII secolo a.C. (Fig. 3),
proveniente da Susa, dove si esplicita il dualismo, o almeno la valenza duale,
della religiosità elamita; su un
alto trono, sorretto da due geni minori, che si erge sulla stilizzazione delle
montagne dell’Elam, siede il dio Napirisha, massima espressione religiosa della
componente montanara del regno elamita, intento a donare cerchio e regolo,
strumenti simbolo della corretta e illuminata amministrazione pubblica, a un
dio, certo preminente, che si deve riconoscere in Inshushinak, dio della
tradizionale città di Susa ed espressione della componente alluvionale dello
stato elamita, stante sopra a una piattaforma sacra anch’essa da considerarsi
simbolo del centro del Khuzistan. L’impronta, di cui purtroppo ignoriamo
l’iscrizione perlopiù andata persa, ricorda un certo Ishmekarab-ilu funzionario
vissuto sotto Temti-Agun e deve considerarsi un chiaro esempio della ricerca di
nuovi equilibri all’interno della religiosità del pantheon elamita, ora stravolto
dall’ascesa di Napirisha e della sua paredra Kiririsha.
Questo
nuovo e programmatico bipolarismo religioso, sconosciuto con i Simashki, appare
peraltro ben documentato nei più tardi testi medio-elamiti che ricordano
l’erezione del cosiddetto «Tempio dell’Alleanza di Anshan», al cui
interno furono portati i simulacri divini delle massime divinità del regno:
Shimut («Grande dio dell’Elam»), Napirisha e Kiririsha («Grande dio e dea di
Anshan») e Inshushinak («Grande dio di Susa»).
Tuttavia l’esigenza di costruire un tempio monumentale, peraltro
significativamente ad Anshan e non a Susa, definito dell’Alleanza, in cui le
massime divinità cittadine di Susa ed Anshan, assieme alla forza unificatrice
di Shimut (non casualmente definito ‘dio dell’Elam’ cioè ‘del tutto’), vengono
rappresentate con i propri simulacri, deve essere interpretata come un forte
segno di debolezza mirato a rendere omogeneo un regno che, 5 secoli dopo le
prime riforme Sukkalmakh, ancora non aveva raggiunto unità e coesione. Sembra
evidente che l’impianto propagandistico medio-elamita s’impegnò su quanto
impostato a inizio del XIX secolo a.C. dai sovrani Sukkalmakh, provando a
risolvere un problema che non era stato ancora superato. Il regno elamita
dovette faticare a unificarsi per l’eterogeneità e la varietà delle componenti
etniche dell’altopiano che furono certo attive nell’assorbire i nuovi piani
programmatici dinastici Sukkalmakh ma, allo stesso modo, rispondevano a logiche
consolidate nei millenni, dove alla componente nomade si contrapponeva quella
stanziale, ai processi di occupazione e sfruttamento del territorio conosciuti
in Susiana e Mesopotamia seguivano le logiche tribali conosciute nelle impervie
valli e, a volte, impenetrabili alture delle terre di Anshan. Edificare un complesso
monumentale religioso ad Anshan, come il ‘Tempio dell’Alleanza’, al tempo di
Khutelutush-Inshushinak, deve necessariamente essere spiegato con la volontà di
definitiva affermazione del centro di Anshan su quello di Susa e con il
fallimento del tentativo d’integrazione avviato dai Sukkalmakh mezzo millennio
prima; la necessità di costruire un complesso religioso, in cui l’alleanza tra
le due massime divinità di Anshan e Susa doveva manifestarsi, deve essere letto
come un tentativo di propagandare unione e coesione del regno che evidentemente
ancora, dalla riforma Sukkalmakh, non erano state raggiunte.
Questo
aspetto bipolare del mondo divino elamita fu certo espressione di quanto
dovette accadere con la sovranità dell’Elam strutturata su un complesso sistema
dinastico che prevedeva, come evinto dalla documentazione testuale, un grande
re dell’Elam (= Anshan) e un sukkal
di Susa, il primo regnante su tutto il paese, il secondo legato alla città di
Susa e, contemporaneamente, principe ereditario alla sovranità elamita. Una
sovranità che cercò di risolvere, con i primi anni del XIX secolo a.C., la
forte frammentazione statale del proprio regno attraverso un capillare e
rivoluzionario programma dinastico figurativo che tuttavia rimase irrisolto
almeno fino all’inizio del I millennio a.C. quando un nuovo stato si andava a
compattare attorno alla città di Susa sotto la pressione esterna del
consolidato regno neo-assiro.
Le
nuove iconografie e i nuovi impianti figurativi mostrano, dunque, nuovi
rapporti all’interno del pantheon elamita dove le gerarchie sembrano ora
stabilizzarsi a vantaggio della componente orientale (Anshan) a scapito di
quella occidentale di più arcaica tradizione (Susiana). Medesime evidenze
sembrano potersi raccogliere dalle analisi insediamentali svolte nel Fars ed in
Susiana dove, più recenti ricognizioni territoriali, hanno
permesso di tracciare un quadro evolutivo occupazionale di entrambe le regioni
assai significativo sulla supposta traslazione politica e amministrativa,
oltreché religiosa e culturale, voluta dai dinasti Sukkalmakh. Tra il XIX e
l’ultimo quarto del XVI secolo a.C., infatti, si assiste, se si esclude l’assai
più tardo processo di sedentarizzazione del Ferro II e III in Elam, al più
grande aumento demografico conosciuto nella storia del Marv Dasht, tanto da
raggiungere, in un contesto geografico tradizionalmente a valenza nomade, per
estensione dei singoli insediamenti e numero degli stessi, una densità
occupazionale pari a quella degli storici centri della Susiana da sempre
stanziali all’interno dell’alluvio del Khuzistan, attraversati dai fiumi Kerkha
e Karun che confluiscono, tutt’oggi, nel Golfo Persico.
Affianco
ad una più ampia e articolata analisi territoriale svolta nei contesti
regionali del Fars si deve, inoltre, riconoscere, sulla base delle più recenti
analisi stratigrafiche svolte a Tall-i Malyan (= antica Anshan), una crescita
esponenziale demografica del nuovo centro elamita che, proprio con i
Sukkalmakh, toccherà i 130 ettari di estensione territoriale con una stima di
almeno 30.000 abitanti, raggiungendo le dimensioni della occidentale Susa,
maggiore centro del Khuzistan iraniano. è questo il periodo in cui Tall-i
Malyan ovvero Anshan assurge a ruolo dominante all’interno della struttura
politica e amministrativa del regno Sukkalmakh, sostituendo gradualmente la
tradizione di Susa, a cui si continua a riconoscere, tuttavia, una preminenza
culturale e religiosa. Con il periodo Kaftari di Tall-i Malyan, conosciuto
anche a Tal-i Nokhodi I-II, dove
la ceramica raccolta fu inizialmente attribuita al più arcaico periodo Lapui, un
nuovo orizzonte vascolare si afferma, completamente avulso dalle
sperimentazioni ceramiche del periodo precedente. La frequentissima e nuova Buff Ware del periodo Kaftari mostra
avere decorazioni dipinte che alternano bande verticali di natura geometrica a
tipologie assai eterogenee di volatili,
incisioni (linee orizzontali ondulate) e rari
rilievi applicati; i confronti
più stretti con la Mesopotamia sono da cercare sin da Susa IVA (Protodinastico
IIIb), mentre
le basse ciotole a tre supporti conosciute a Tall-i Malyan sono attestate a
Susa IVB (Ville Royale, liv. 4-3). In una
più generale analisi, la ceramica Kaftari, espressione autoctona delle
popolazioni dell’altopiano già con la seconda metà del III millennio a.C.,
avrà, dunque, ampia diffusione anche in Susiana, almeno fino alla fine del
terzo quarto del II millennio a.C., mostrando la forza penetrativa e invasiva
delle nuove sperimentazioni anshanite e, allo stesso tempo, l’ascesa di una
regione che andava gradualmente a spostare l’epicentro elamita verso oriente,
verso le valli del Fars. Anshan assurgerà a nuova capitale all’interno di una
nuova struttura gerarchica di tipo duale dove alla capitale, sede ufficiale del
sovrano Sukkalmakh, si affiancherà il centro di Susa, residenza del fratello
del sovrano e principe ereditario al trono elamita. Questa struttura,
conosciuta anche da evidenze testuali più recenti, avrebbe garantito,
all’interno di un equilibrio centralizzato, una convivenza etno-sociale tra le
tante manifestazioni tribali del regno Sukkalmakh, cercando di superare con
slancio le fortissime spinte centrifughe rappresentate dai numerosi e
differenti elementi etnici, culturali, sociali e storici presenti nelle variegate
popolazioni conosciute all’interno del regno elamita.
Anche
le nuove titolature reali usate dai dinasti Sukkalmakh sembrano confermare sia
una struttura di tipo bipolare, sia una particolare attenzione verso la
tradizione, nonostante le forti riforme che ponevano ora Anshan (= Tall-i
Malyan) come capitale del nuovo regno. Viene da chiedersi se le loro titolature
(‘Re di Anshan e Susa’), la nascita di una nuova arte dinastica nella
tradizione sfragistica dei sigilli, la
nuova arte di propaganda rupestre sull’altopiano (Kurangun,
Naqsh-i Rustam,
Hong-i Nowruzi, Shah Savar), la
crescita esponenziale di Anshan che assurge a capitale del regno, la riforma
religiosa e l’ascesa dell’elamita Napirisha e della sua paredra Kiririsha, come
evinta dai nuovi impianti figurativi, non debbano essere valutati come forti
evidenze sulla possibile origine anshanita della dinastia Sukkalmakh, un
origine da cercare nel Marv Dasht, in regioni che, più di un millennio più
tardi, vedranno l’ascesa dei Persiani e la fondazioni delle loro più famose
capitali: Pasargade e Persepoli.
È
indubbio che, sebbene con i Sukkalmakh ben 17 diverse titolature vengano usate
nelle iscrizioni celebrative dei sovrani, per la prima volta un epiteto reale
(che sia Sukkal, Adda Lugal, Ippir o Ruhushak) viene usato, apparentemente
indistintamente, associandolo all’Elam, ovvero a Susa ovvero ad Anshan, quasi a
voler distinguere sfere e contesti diversi dove si esercita il controllo
dell’autorità dinastica. Senza entrare in merito al significato di ogni singola
titolatura,
sembra possibile pensare che questa apparente tripartizione possa essere
spiegata con la natura eterogenea del regno elamita, dove Susa ed Anshan
rappresentavano la bicefalia politica e amministrativa del regno e con il
termine Elam s’intendesse l’insieme di una struttura politica al cui interno
l’elemento storico alluvionale (Susiana) conviveva con quello di più recente
formazione (Anshan) che aveva dato origine alla nuova dinastia regnante.
4. Catastasi
La creazione del mito fondante
Le nuove direttrici
politiche non dovettero, tuttavia, essere da subito comprese dalla gran parte
dei gruppi tribali e stanziali che popolavano l’antico Elam; un così forte e
drastico cambiamento negli impianti iconografici, che esprimevano riforme che
investivano ogni campo della politica e della religione, è probabile che non fu
immediatamente compreso ovvero condiviso, in particolare dal gruppo stanziale
centrato in Susiana che dovette certo continuare a organizzarsi attorno alla
preminente e storica figura del dio Inshushinak (dio della città di Susa) e far
leva sulla lunga e millenaria tradizione culturale del centro del Khuzistan. La
forte resistenza, dei centri occidentali di più lunga tradizione, ai nuovi
percorsi rivoluzionari dei sovrani Sukkalmakh, in particolare l’imposizione di
una nuova coppia divina e la creazione di una nuova capitale amministrativa, e
la ‘scollata’ componente nomade dell’altopiano che, in quanto tale, creava seri
problemi di coesione territoriale e amministrativa, dovette imporre la ricerca
di elementi culturali di coesione tra le varie componenti del regno che
potessero permettere unità attorno a un comune sentimento identitario. In tal
senso va interpretata la ricerca di un passato mitico nella storia dell’Elam
attuato dai dinasti Sukkalmakh, un richiamo forte, mirato, da una parte, a
restituire una base storica comune a un regno fortemente frammentario che
necessitava di compattezza e, dall’altra, a legittimare i nuovi dinasti
attraverso l’affiliazione alla più arcaica dinastia di Awan, di ca. mezzo millennio
più antica, prima dinastia storica che regnò su Susa e parte dell’altopiano.
L’affiliazione storica a un tempo mitico come strumento di legittimazione
dinastica e di coesione culturale e politica è un esercizio ripetitivo e
funzionale che ha attraversato i secoli della storia con esiti perlopiù
positivi. Tuttavia le difficoltà nell’attuare un programma capillare e, allo
stesso tempo, così decisamente rivoluzionario dovette imporre pianificazioni
storiche che passarono attraverso il richiamo a un passato storico che diventò
mitico, un passato comune che legava tutte le componenti dell’altopiano a un
antenato comune, unico e di discendenza diretta che fu riconosciuto nella
dinastia di Awan e nei suoi sovrani che per primi operarono un embrionale tentativo
di ‘elamitizzazione’ dei singoli aspetti artistici e politici senza tuttavia
riuscirci appieno; è indubbio, infatti, che a fronte di nuovi impianti
figurativi, attorno al 2300 a.C., nati per l’ambizione di alcuni sovrani
awaniti (in primis Epirmupi), che
introdussero nella glittica nuove espressioni dinastiche ‘scollate’ dalle coeve
esperienze accadiche, la più arcaica dinastia elamita fu, per tutta la sua
durata, sotto il controllo diretto dell’amministrazione del regno di Accad e
dei suoi sovrani che prima con Sargon e poi con Naram Sin esercitarono un
controllo diretto sulle appendici orientali della Mesopotamia. Gli esiti
storici di quel periodo, tuttavia, non dovettero interessare la propaganda
Sukkalmakh che riconobbe in Awan, il cui epicentro politico era peraltro la
stessa Susa, il tempo mitico a cui ispirarsi e attraverso il quale creare un
nuovo sentimento di coesione identitaria che unisse le tre principali
componenti del regno (quella alluvionale, montanara e nomade). In questo modo
si possono spiegare le nuove titolature della Casa Regnante
(‘Sukkalmakh’) e il ricupero di singole manifestazioni figurative ormai desuete e
sconosciute da mezzo millennio che permisero di raccordare le esperienze
dinastiche di Awan a quelle Sukkalmakh.
In questo periodo
awanita, da circoscriversi approssimativamente tra la metà del XXIII e la metà
del XXI secolo a.C., infatti, compaiono i prodomi di una ricerca stilistica e
iconografica completamente scollata dalle coeve esperienze mesopotamiche, tanto
da permettere l'identificazione di un localismo artistico delle botteghe di
Susa nonostante il dominio della regione del neo impero Accadico; quello che
può essere rintracciata, infatti, è una spinta artistica indipendente dai
codici figurativi usati nella stessa Susa, codici d'arte che mostrano vincoli e
legami con i percorsi culturali voluti dai sovrani accadici. Un gruppo
consistente di sigilli, che precedono le riforme Sukkalmakh di ca. 4/5 secoli,
deve riconoscersi, infatti, in una produzione susiana, frutto di botteghe
locali, che mostrano aspetti provinciali accentuati frutto di condizionamenti
dovuti al sostrato elamita presente nella stessa città di Susa. Da un
punto di vista stilistico questo gruppo di sigilli restituisce figure meno
volumetriche, più piatte, dove la superficie viene appena solcata tralasciando
quel plasticismo che caratterizza la produzione contemporanea accadica; anche
le soluzioni iconografiche, sconosciute alla glittica di Accad, restituiscono
originali invenzioni come la rappresentazione di profilo dei personaggi
rappresentati, resi con tratto sommario, con corti capelli, dalla resa
complessiva poco sinuosa, più squadrata che esplicita una certa difficoltà
nella resa delle proporzioni e delle distanze. In alcuni casi si esaspera lo
schematismo per giungere a una generica e assai sbrigativa resa stilistica che,
sebbene adotti un’equa ripartizione dello spazio metopale secondo i dettami
della sfragistica accadica, mostra sommarie raffigurazioni, spesso di difficile
identificazione. Anche le tematiche di alcuni sigilli sembrano, con alcuni
sovrani di Awan, essere originate dal serbatoio culturale elamita piuttosto che
dal vasto patrimonio mitologico della tradizione mesopotamica. In questi gruppo
di sigilli, quindi, si scorge un tratto figurativo distintivo della più tarda
tradizione glittica elamita che mostra continuità d’uso dal periodo Accadico
fino alla metà del II millennio a.C.; più in generale è dunque possibile
attribuire alle botteghe accadiche, probabilmente della sola Susiana, la
nascita di uno stile, di temi e di singole icone che verranno ripresi qualche
secolo più tardi nella sfragistica paleoelamita della dinastia Sukkalmakh.
L'eredità iconografica
più significativa delle innovazioni awanite, riprese non senza un disegno
politico dai codici programmatici di espressione dinastica Sukkalmakh, fu il
cosiddetto 'dio-serpente'
profondamente radicato nel vasto e complesso pensiero religioso elamita tanto
da essere, come scritto, ripreso qualche secolo più tardi per sviluppare e
legittimare la nuova coppia divina, Napirisha e Kiririsha, a capo del pantheon
elamita.
Impronte e sigilli susiani databili al secondo quarto del II millennio, i
rilievi rupestri di Kurangun e
Naqsh-i Rustam,
la stele di Untash-Napirisha (XII secolo a.C.) e un
nuovo sigillo ora conservato nel museo di Haft Tepe ci
permettono, infatti, di conoscere il grande dio elamita, seduto su di un trono
formato dalle spirali di un serpente, reso secondo canoni descrittivi certo
analoghi a quanto conosciuto sui più arcaici sigilli susiani prodotti dalle
cancelleria di Awan (Figg. 3-5).
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Fig. 4 - Trasmissioni iconografiche da Awan ai Sukkalmakh
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Fig. 5 - Trasmissioni iconografiche da Awan ai Sukkalmakh
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Il processo di
emancipazione artistica e culturale dell'enclave susiana, avulso dai codici
figurativi delle coeve botteghe accadiche, rimarrà tuttavia inespresso, la
personalità artistica dell'arte figurativa susiana rimarrà incompiuta, ancora
troppo schiacciata sugli impianti di propaganda della dinastia sargonide,
lasciando alle dinastie successive il peso di definire appieno un nuovo tratto
distintivo ‘elamita’ che produrrà un nuovo sistema di codici più omogeneo, meno
dispersivo e con elementi figurativi comuni; questo tentativo, sebbene
incompleto, come evinto dall'ampio corpus di sigilli provenienti da Susa,
dovette tuttavia rappresentare un primo sforzo di 'autonomizzazione' artistica,
probabilmente da mettere in relazione con nuovi fermenti dinastici e politici
che la Susiana e l'entroterra elamita dovettero affrontare verso la fine del
regno accadico. La creazione di elementi figurativi e iconografici, meno quelli
di tipo stilistico, difformi, lontani dall'arte imperiale accadica, distanti
dalla produzione ufficiale delle botteghe mesopotamiche, potrebbe, infatti,
essere il sintomo di un percorso politico prestabilito in cui il governatorato
della Susiana, sotto il controllo amministrativo della sovranità accadica,
celebrasse sé stesso, la propria reggenza, alla ricerca di una maggiore
visibilità politica che ne certificasse e ne riconoscesse ruolo e valore.
Questa storicizzazione di una parte dei sigilli awaniti prodotta tra il XXIII e
il XXII secolo a.C. sembra, peraltro, se non certa, assai probabile, per la
numerosa presenza di esemplari recanti i nomi dei governatori di Awan che,
sebbene mostrino titoli dimessi, espressione del controllo accadico sulla regione,
sembrano, tuttavia, particolarmente attenti alla loro celebrazione (si vedano
in particolare le iscrizioni sui sigilli di Epirmupi).
Se questo processo
d'identificazione tra le distanze figurative (iconografiche, tematiche e
stilistiche) della glittica di Susa dalla produzione dell'impero (Accad),
supportata dalle iscrizioni celebrative dei dinasti Awan sugli stessi sigilli
susiani, e le spinte politiche indipendentiste dei governatori susiani fosse
confermata, e non rimanesse una semplice congettura, avremmo allora
significative evidenze sulle motivazioni che spinsero i dinasti Sukkalmakh a
celebrare Awan come un tempo mitico, un periodo a cui ispirarsi e tramite il
quale compattare il nuovo regno che si andava a formare, una coesione da
cercare internamente all'Elam contro un nemico comune da riconoscersi nei regni
di Mesopotamia rappresentati, nel 'tempo mitico' di Awan, da Accad e, nel
'tempo storico' dei Sukkalmakh, da Larsa e Babilonia.
5. Catastrofe
Conclusioni
Il quadro che si dovette
determinare, con la negazione dei codici figurativi della dinastia Simashki e
l'assunzione di un nuovo sistema propagandistico dei re Sukkalmakh, cambiò
radicalmente i rapporti di forza tra le due dinastie elamite. L'arrivo dei
nuovi dinasti, attorno al 1920 a.C., ebbe certo aspetti di grande rottura con
il passato, gli aspetti rivoluzionari del capillare programma figurativo
Sukkalmakh rappresentarono un periodo di grande fertilità intellettuale, il cui
spirito rivoluzionario risiedeva nello stravolgimento di assetti religiosi,
artistici, politici, etnici ormai sedimentati da secoli nella storia del Bronzo
Iraniano. In particolare lo stravolgimento linguistico, sociale e religioso
della base elamita rappresentò una rivoluzione 'copernicana' all'interno del
classicismo culturale Simashki; le nuove idee, per quanto rivoluzionarie, non
attecchirono nell'immediato, si dovette aspettare l'ascesa al trono di
Sirukutuh (inizio XIX secolo a.C.), un secolo più tardi la fondazione della
nuova dinastia, per riconoscere l'affermazione di un nuovo modello ora
sistematizzato e facile da decodificare. Ma proprio quando la 'rivoluzione'
Sukkalmakh, sorta sul conformismo celebrativo e propagandistico dei Simashki,
si attuò, la spinta propulsiva della rivoluzione culturale si spense,
l'anti-classicismo Sukkalmakh finì di esistere, il piano di stravolgimento di
ogni codice si trasformò da rivoluzionario a reazionario. Il superamento del
classicismo elamita Simashki confluì, un secolo più tardi, in un piano
reazionario di vocazione tradizionalista dove 'l'anti-classicismo' Sukkalmakh
divenne 'classicismo', dove il cambiamento si trasformò in una diffusa
cristallizzazione di ogni codice artistico, religioso e politico, la dinamicità
divenne staticità, l'innovazione fu sostituita dalla tradizione. Dallo
stravolgimento dei canali celebrativi e culturali della storia elamita, e
successivamente all'affermazione di un nuovo sistema figurativo, si giunse,
infatti, nei quattro secoli successivi, alla monopolizzazione degli apparati
figurativi, allo loro standardizzazione attraverso la creazione di una
classicità artistica che qualche anno prima rappresentò la rottura col passato;
la rivoluzione subì una contro-rivoluzione, l'anti-classicismo ripiegò in una
nuova forma di classicismo, definendo, nello stesso tempo, l'esclusione di
nuove forme e serbatoi artistici e culturali, ora espressione 'contro' di un
nuovo impianto ideologico e reazionario.
Quello che emerge dopo
l'ascesa di Sirukutuh è un'ossessiva attenzione delle cancellerie reali elamite
nel determinare un classicismo artistico che dovette intendersi come mero
strumento di propaganda finalizzato alla celebrazione dei nuovi dinasti e alla
creazione di un nuovo sistema di codici figurativi che dovette essere
necessariamente standardizzato, reso omogeneo su tutto il territorio, di chiara
fruizione e di forte allontanamento dalle precedenti sperimentazioni visive dei
sovrani Simashki. Quello che accadde fu la creazione di un nuovo codice
figurativo che dovette esaltare il ruolo della nuova sovranità e con essa
celebrare coesione politica, religiosa ed etnica/tribale, superando di slancio
le difficoltà d'integrazione tra la proprie capitali, la vecchia e alluvionale
Susa, perlopiù di formazione culturale mesopotamica, e la nuova Anshan, la cui
genesi va cercata sugli altopiani iranici depositari della tradizione elamita.
L'ambizioso piano propagandistico e la supposta imposizione di canali
iconografici, stilistici e figurativi in tutto il regno, che si riconobbero nei
modelli delle officine reali Sukkalmakh, produssero un'arte ufficiale a cui
anche le produzioni minori si sarebbero successivamente adeguate. Un nuovo
modello, fortemente coeso, ripetitivo e ridondante, caratterizzò, quindi, quasi
mezzo millennio di storia elamita producendo una classicità culturale che
dovette rappresentare uno straordinario veicolo, un manifesto del nuovo potere
e del nuovo ordine stabilito; come sempre accade, tuttavia, a un classicismo
reazionario, dovette seguire una risposta forte e netta di un'arte lontana dai
canoni espressivi dei dinasti Sukkalmakh e, con essa, i germi di un
espressivismo di rottura con la dinastia ebartide che da rivoluzionaria si
trasformò in reazionaria.
Procedendo dal
particolare al generale, quanto finora scritto sembra riconoscere un dualismo
tra modelli diversi dove la contrapposizione tra sistemi produce un cosiddetto
'classicismo', perlopiù associato alla tradizione, e la sua negazione, cioè
'l'anti-classicismo', che per le nostre categorie mentali, a dir il vero
abbastanza rigide, richiama un'azione di rottura, di scardinamento dei dogmi
culturali già esistenti, e rivoluzionaria, per quanto il termine appaia
piuttosto desueto, forse obsoleto per molti, non per tutti. Insomma questa
visione dualistica di netta contrapposizione tra modelli confluisce in un
paradigma di conoscenza troppo spesso semplicistico in cui l'equazione classico
= tradizione versus anti-classico =
cambiamento/rivoluzione appare, a mio avviso, banale e limitante per successive
analisi mirate alla comprensione di ciò che non si conosce; è mia convinzione
che, al contrario, le due parti, sebbene contrapposte, siano metà di un unico
Sistema, rappresentano un unico modello di controllo delle realtà, senza una
parte non può esistere l'altra. Se questo sembra facilmente comprensibile per
la metà 'anti-qualcosa', per ovvie ragioni, più difficile è riuscire a spiegare
come un sistema complesso, sia esso politico, artistico, espressivo,
architettonico, necessiti di qualcosa 'contro' per potersi esprimere al meglio;
entrambe rappresentano due facce dello stesso paradigma, attraverso cui
esercitare la propria forza e operare il controllo sulla moltitudine, solo in
alcuni casi l'una confluisce nell'altra, come sembra essere documentato in Elam
tra III e II millennio a.C., dove lo spirito rivoluzionario venne sostituito da
quello reazionario, alla 'rivoluzione' seguì la 'contro-rivoluzione'.
Ad ogni modo il
riconoscimento di un unico sistema che produce un modello e la negazione dello
stesso dovette essere usato in Elam con gli ebartidi che idearono un sistema
figurativo e propagandistico fortemente standardizzato e schematico centrato
sulla trasmissione di codici politici e del pensiero vincolati alla nuova
dinastia che si andava a formare, in particolare questa opera radicale, ma,
allo stesso modo, capillare e veemente nelle sue più celebrative
manifestazioni, dovette assumere una forte spinta propositiva e invasiva nella
società elamita per contrastare e modificare quanto pre-esistente; fu un
percorso alimentato non semplicemente da quanto era stato programmaticamente
ideato, ma dall'esigenza di contrastare, delegittimare, superare le precedenti
esperienze politiche maturate con i dinasti Simashki. Nella negazione si
affermarono con maggiore forza i nuovi codici di propaganda, certo ispirati da un
nuovo sistema di comunicazione visuale, ma, tra il XIX e XVIII secolo a.C.,
indotti dal superamento della tradizione precedente, traendo forza e vitalità
dall'essere 'contro', sviluppando con più forza un nuovo modello perché
antitetico a quello di più arcaica formulazione. Sembra evidente che questa
trasposizione tra manifestazione artistica e potere, che permette elucubrazioni
di più ampio respiro, sia possibile per le società complesse del Vicino Oriente
Antico; in un sistema sociale che ha nell'arte una manifestazione di esclusiva
celebrazione dinastica, ancora lontana dalla 'individualizzazione' dell'oggetto
da parte di un artista, le due sfere vengono a sovrapporsi, ad autodeterminarsi
fino a permettere, non sempre, di definire appieno scelte politiche attraverso
l'arte visuale e vice versa.
Riconoscere un nemico,
quindi, non è un semplice esercizio retorico ma uno stimolo necessario che
trova la propria soddisfazione sia in un ambiente reazionario, sia in quello
rivoluzionario, i due modelli per affermarsi devono conoscersi e poi
contrastarsi per approfittare dei reciproci vantaggi che si generano dalla
negazione dell'altro. I dinasti della III dinastia di Ur, per affermare il
proprio modello socio-economico, dovettero 'creare' la minaccia nomade costituita
dagli Amorrei che 'spingevano' in Alta Mesopotamia, allo stesso modo la
propaganda egiziana presentò gli asiatici Hyksos, e la storiografia cinese la
pressione degli Hsyung-nu contro il regno di Chin-Shin Huang-ti.
In una società in cui
l'arte è esclusivamente dinastica, quindi espressione di un potere che
definisce regole, costumi, tradizioni e culti, come nel Vicino Oriente Antico,
anche un singolo rilievo rupestre assume un significato che trascende il suo
valore artistico, diventa espressione complessa di un determinato modello
politico; il riconoscimento, quindi, di una 'rivoluzione' artistica attuata dai
dinasti Sukkalmakh è sintomo di un cambiamento politico di più ampia portata
che si dovette realizzare in antitesi con quanto di 'classico' rappresentava la
dinastia Simashki, nutrendosi di quel sentimento 'anti-classico' radicato
nell'arte Simashki, mettendo in discussione e superando quei paradigmi
culturali prodotti con il periodo precedente. Il loro percorso fu dunque basato
sul riconoscimento 'dell'altro', poco importa se orientato verso il suo
superamento, aiutando a comprendere come i due sistemi fossero parte integrante
di un tutto; le due parti si nutrirono vicendevolmente l'una dell'altra, si
auto-legittimarono e, nella loro visione dualistica, si affermarono.
In conclusione, sorge il
legittimo convincimento sulla possibilità che una visione 'liquida' dell'arte
vicino-orientale, da considerare una produzione dinastica e quindi portatrice
di ideologie e modelli politici, debba essere cercata, non tanto nelle
'rotture' storiche ovvero nelle elaborazioni non ufficiali di un arte
propagandistica, quanto piuttosto nel comprendere che le due parti convergerono
verso un loro reciproco utilizzo, dove gli equilibri tra le parti
rappresentarono la base essenziale della loro sopravvivenza. Questa visione
reciprocativa, peraltro ampiamente contestualizzabile anche in ambiti moderni e
post-moderni, che supera un'impostazione dualistica della storia, dovette
agevolare i Sukkalmakh nell'elaborare un rivoluzionario e capillare programma
di propaganda dinastica; allo stesso modo, le successive spinte conservative
della fine del XVI secolo a.C., quando la stessa dinastia ebartide mostrava
forti e inequivocabili segni di decadimento politico e scadimento artistico,
furono fortemente aiutate da un nemico ora rappresentato dall'ascesa della
dinastia igihalkide, trasformando l'anti-classico in classico, il 'nuovo'
confluì nella 'tradizione', la spinta rivoluzionaria della vecchia dinastia si
raccolse in un contenitore reazionario di forma e idee.
Permane quindi la
convinzione che i due sistemi, 'classico' e 'anticlassico', siano un'unica
categoria del pensiero politico e artistico, la cui liquidità, intesa come la
summa di valori contrari ad un dato o a un sistema convenzionalmente
prestabilito, debba cercarsi nel non riconoscimento di un'antitesi, perché essa
stessa generata da convenzioni umane e, infine, parte integrante di un unico
sistema.
Rimane il concreto
dubbio che a questo tipo di 'liquidità' non siamo ancora pronti, in una società
dove codici e paradigmi sono espressione ormai di astrattismi verbali, analisi
superficiali, slogan urlati, dove il bianco deve essere bianco e il nero non
diverso dal nero, dove c'è sempre un buono e un cattivo, un bello e un brutto,
uno che vince e uno che perde, la complessità perde il suo valore, non definisce,
non chiarisce, ci confonde. Pensare con le sfumature, i vuoti, le assenze, le
mancate comprensioni, i dubbi e le irragionevolezze, dovrebbe rappresentare
quella 'liquidità' indice di cambiamento contro l'autoritarismo, contro le
azioni reazionarie delle società complesse che hanno solcato la storia
dell'uomo, società che si nutrono e si sono nutrite di una visione dualistica
dell'esistenza umana contrapponendo valori (bello e brutto, buono e cattivo),
modelli sociali (nomade e sedentario, ricco e povero), religiosi (cristianità e
islamismo) e culturali, incapaci d'ibridarsi, di compenetrarsi per poi capirsi.
NOTE
In tal senso si è voluto dividere questo contributo
usando termini che hanno origine nel teatro greco classico nel disperato
tentativo di creare, nel rispetto della loro contestualizzazione storica, una
sincresi tra la forma (la drammaturgia greca) e il contenuto (vicino oriente
pre-classico), per provare a far confluire, in modo sommario, una tradizione in
altre tradizioni, una struttura espositiva in una storiografia lontana.
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Vedi anche nel BTA:
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