Il Royal
Ontario Museum, comunemente conosciuto come ROM, è il più grande museo del
Canada con i suoi sei milioni di oggetti custoditi.
La sua storia
ha inizio nel 1857 quando viene fondato il Museum of Natural History and Fine Arts
presso la Toronto Normal School, anche se la vera e propria concretizzazione è
avvenuta nel 1912 dopo la decisione del governo canadese di dare origine a un
nuovo museo, il Rom, cui progetto viene affidato ai due architetti canadesi
Frank Darling e John A. Pearson. La struttura rispecchia a pieno quello stile
neoromanico italiano che caratterizzò la fine del diciannovesimo secolo sulla
scia del revivalismo architettonico.
L’inaugurazione
del museo avviene nel marzo del 1914 alla presenza del principe Arturo, duca di
Coonaught e governatore generale del Canada.
Nell’arco di un
secolo – soprattutto a causa della continua crescita delle sue collezioni – il
museo ha subito numerosi ampliamenti. Il primo risale al 1933 e consiste nella
realizzazione dell’ala est di fronte al Queen’s Park: una nuova grande entrata
e un elaborato mosaico in stile neobizantino nella rotonda della cupola. Queste
costruzioni, progettate dagli architetti Alfred H.Chapman e James Oxley
verranno successivamente prese a modello per la realizzazione di altri edifici
canadesi.
La seconda
importante espansione risale al 1964 quando viene aggiunto il planetario McLaughlin nella parte
meridionale dell’edificio, chiuso nel 1995 e riaperto tre anni dopo come museo
temporaneo per bambini. Oggi i suoi ambienti vengono utilizzati perlopiù come
uffici e magazzini.
Nel 1975 viene
aggiunto un atrio multi - livello con la solo funzione di raddoppiare gli spazi
del piano. Questa espansione, costata cinquantacinque milioni di dollari – e
realizzata rispondendo a uno stile semplice e moderno dagli architetti Gene
Kinoshita e Mathers & Haldenby – viene inaugurata nel 1984 da Elisabetta
II, regina d’Inghilterra e del Canada.
È tra la fine
del 2001 e l’inizio del 2002 che il museo subisce la più importante
ristrutturazione definita Rinascimento
del Rom. Operazione questa che ha come principale obiettivo l’innovazione,
la promozione della struttura e l’opportunità di ricavare finanziamenti che
vadano a sostenere le varie attività di ricerca, di conservazione, di didattica
svolte dal museo stesso.
Una vera e
propria rinascita, sia in termini di immagine e contenuti sia in termini di
adeguamento sociale, nei confronti di una città come Toronto che negli ultimi
anni è stata caratterizzata da uno sviluppo sempre più veloce e inaspettato.
Al centro
dell’intero progetto c’è dunque la realizzazione di una grande ala che si
aggiunge al quadro originale dell’edificio: una struttura innovativa realizzata
dall’architetto polacco Daniel Libeskind, scelto tra cinquanta finalisti
dell’apposito concorso internazionale, in collaborazione con lo studio Bregman
+ Hamann Architects.
La struttura
realizzata da Libeskind per il Royal Ontario Museum, si presenta come un tipico
edificio di matrice decostruttivista
che, assumendo le sembianze di un immenso cristallo, si erge tra Queen’s Park e
Bloor Street.
Questa nuova
costruzione è stata denominata Michael
Lee-Chin Crystal, dal mecenate giamaicano - canadese che ha donato trenta
milioni di dollari per la sua costruzione (costata in totale duecentosettanta
milioni di dollari canadesi) e già dalla sua inaugurazione, avvenuta il 2
giugno 2007, ha immediatamente diviso l’opinione pubblica e gli addetti ai
lavori.
Il suo design
particolare, infatti, è stato giudicato da alcuni come pesante e opprimente
mentre da altri considerato come il nuovo capolavoro dell’architettura moderna.
La morfologia costitutiva dell’edificio
riporta alla mente altre due opere di Libeskind: quella del Jüdisches museum di
Berlino e del Denver Art museum dove angoli acuti si intrecciano seguendo
mutamenti improvvisi accentuati in rottura con l’ambiente circostante.
«Questo
edificio racconta una storia particolare che cristallizza il contenuto
programmatico del ROM e la singolarità del suo sito. Il Crystal trasforma il
carattere del ROM in un’atmosfera dedicata al risorgere del museo come un
centro dinamico di Toronto». (D. Libeskind)
Una delle
peculiarità appartenenti a questo nuovo edificio è sicuramente la sua
conformazione anticlassica o meglio – liquida
– generata da una creazione di geometrie di cristalli e dalla successiva
formazione di cinque elementi di forma prismatica autoportante ed interconnesse
fra loro collegate alla struttura del museo esistente.
È lo stesso
Libeskind a raccontare come l’idea strutturale del prisma sia nata proprio
dalla vista di un particolare cristallo esposto nella collezione del museo.
Idea che lui stesso ha riportato istantaneamente su un tovagliolo di carta e
che attesta ancora oggi la forma dell’ampliamento della struttura.
Il cristallo
nasce con l’intento di rappresentare i complessi principi della natura e, allo
stesso tempo, la stabilità della sua geometria. Questa sorta di accordo
stipulato con la natura non acquisisce alcun ruolo mimetico: il progetto
manifesta chiaramente i materiali e le linee guida che ne hanno condotto
l’idealizzazione e la costruzione.
La stessa
scelta dei materiali come il vetro, l’acciaio e l’alluminio, risponde in
maniera soddisfacente alle peculiarità che i diversi elementi devono produrre
all’interno della costruzione. L’acciaio costituisce la struttura delle grandi
facciate e assicura robustezza e sicurezza per le ampie vetrate mentre
l’alluminio per le superfici di rivestimento e non autoportanti.
Una
conformazione così estranea si rende elemento determinante che genera una forte
sorpresa nel contatto con la struttura del museo preesistente.
Tutta l’opera
di Daniel Libeskind – sicuramente uno degli architetti più vitali di questi
ultimi due decenni – si presenta come una linea zigzagante tra luoghi, idee e
saperi. Una linea che ha lo scopo di incidere il superamento della nostra
presunta razionalità di dominio sul mondo e sulle cose, mettendo radicalmente
in crisi le nostre certezze.
È lui stesso
nella biografia del 2005
a raccontare come la propria esperienza personale abbia sempre viaggiato di
pari passo con la creazione delle sue opere, attraverso un’affascinante fusione
tra la sua stessa vita e il mondo dell’architettura. «Il mio lavoro prende il
via da alcune contraddizioni insanabili tra il metodo, l’idea e il desiderio. è
come avere un milioni di pezzi di mosaico che non compongono la stessa figura,
che non potranno mai essere assemblati e costituire unità, poiché non
provengono da un insieme unitario … è proprio questa la differenza tra
costruire veramente qualcosa, conciliando questi bizzarri elementi
inconciliabili in opposizione a un procedimento meccanico come l’assemblaggio
di pezzi già pronti e scollegati».
Ed è questa
biografia che fornisce la chiave giusta di lettura verso tutta l’opera di
Libeskind – fatta non solo di architettura, ma anche di musica,
storia e letteratura - in cui si possono
trovare almeno due delle sei proposte per il millennio prossimo delle Lezioni Americane di Italo Calvino. Le
celebri lezioni dove il grande scrittore anticipa le teorie del terzo millennio
descrivendo i due elementi in grado di far progredire l’uomo: il cristallo e il
fuoco – la razionalità e l’istinto.
Quello di
Libeskind può sembrare, dunque, una sorta di simbolismo che tenta di entrare nelle
stesse viscere dell’architettura o meglio un’architettura che tenta di
appropriarsi profondamente della costruzione dello spazio.
In un’opera del
1964 Architettura senza Architetti,
lo storico Bernard Rudofsky, affronta esempi di costruzione nate per
sottrazione, scavate nella roccia attraverso il lento processo della natura in
cui si percepisce l’unione tra natura e artificio. Un’architettura perciò senza
architetti che racconta una realtà complessa concepita dal luogo, resistente, vivace
ma soprattutto originale.
Natura e
artificio vengono indagati da Paul Valéry nel 1921, in uno dei più importanti
testi della letteratura critica, Eupalinos
o l’architetto, in cui Fedro e Socrate dialogano sulla continua ricerca
dell’uomo di interpretare i processi naturali e dove è lo stesso Valéry ad
asserire sull’impossibilità dell’uomo di risolvere la dicotomia, assente in
natura, tra pensiero e azione.
«Socrate: […]
gli oggetti creati dall’uomo sono dovuti agli atti di un pensiero. I principi
sono separati dalla costruzione come imposti dalla materia da un tiranno
straniero che a essa mediante atti li comunichi. La natura, nella propria
opera, non distingue i particolari dal complesso; ma sbuca simultaneamente da
ogni dove, a se stessa, vincolandosi, senza esperimenti, senza ritorni, senza
modelli, senza mire particolari, senza riserve; non divide mai un progetto
dall’esecuzione; non procede mai direttamente e senza riguardo agli ostacoli,
ma con questi componendosi, li mescola al proprio moto, li gira o li utilizza,
quasi che a una stessa sostanza appartengano la strada presa, la cosa che per
quella strada si mette il tempo impiegato a percorrerla. Se un uomo agita un
braccio si concepisce un rapporto puramente possibile. Ma, dal punto di vista
della natura quel gesto del braccio e il gesto stesso non si possono separare
…».
Un brano che offre la possibilità di captare le differenze primarie tra i
percorsi creativi della natura e quelli della mente umana.
Nel progetto
del Royal Ontario Museum, Daniel Libeskind lavora per trovare questo accordo
con la natura: ne interpreta i processi, la visione e il senso totale che si
percepisce ancora a Toronto. Cerca di rispondere, inoltre, al quesito della
separazione netta tra processo e azione di Valéry con un’apertura ai temi dello
spazio elastico, modellato da una forza vitale, magmatica, come lava
solidificatasi dopo un forte raffreddamento.
A volte risulta
difficile capire il messaggio o lo stesso valore di un’architettura, anche per
chi di solito è abituato all’interpretazione di segni e spazi. Alcuni di
questi, infatti, possono stupire, fermo restando che non sempre la sensazione
che si prova dinanzi a tali costruzioni possa essere positiva. E forse è
proprio questo il caso di Daniel Libeskind.
Secondo alcuni studiosi ed esperti del settore questa opera di Libeskind
sembra quasi voler aprire una nuova frontiera architettonica: un «rifugio» di
grandi cristalli, in apparenza piovuti dal cielo come un meteorite o spinti
all’esterno dalle viscere della terra da una forza immane.
Un classico
edificio degli anni Venti di pianta rettangolare cui si incastra perfettamente
e senza mai toccare questa nuova costruzione con il solo risultato di
un’esplosione di prismi in alluminio e vetro, dove la storia di conflitti,
tensioni, diversità e sovrapposizioni culturali – che il museo documenta –
trova la sua esternazione e il suo simbolo nello stesso oggetto architettonico.
Libeskind, qui a Toronto, traduce la materia architettonica in sostanza
dall’aspetto vivo ed espressivo. Una materia che esprime un cambiamento ma al
tempo stesso in grado di invecchiare come fosse un corpo vivo, soggetto al
trascorrere del tempo.
Processo,
evoluzione, invecchiamento, contrasto.
Sono questi i principi cui Libeskind si unisce per esprimere al meglio
il suo personale percorso, per raccontare questo processo dinamico a tratti
anche drammatico.
Nel suo
progetto l’architetto polacco traduce e interpreta questa visione globale,
questa energia vitale che si respira anche nella città stessa di Toronto,
andandosi però a scontrare con il vecchio museo storico della città: una sorta
di architettura mutante dove movimento e trasformazione della natura si stringono
in una nuova alleanza.
Con tutti i
suoi progetti, il Royal, il museo ebraico di Berlino o il museo di Denver –
solo per citarne alcuni – Libeskind pone come principale obiettivo quello di
comunicare allo spettatore il senso dello spazio e della materia come aveva
sentenziato Louis Khan anni prima.
La materia,
infatti, deve essere autentica, onesta e in grado di raccontare attraverso la
sua natura le sensazioni e i rimandi all’altro, a ciò che non si avverte
automaticamente.
I due edifici
si sfiorano quanto basta a creare uno campo interno di relazione, una spazio
chiuso che dà modo ai visitatori di leggere e comprendere i due ambienti, in
relazione tra loro solo tramite passerelle: la struttura di un cristallo e il
funzionamento interno di una macchina barocca in cui diagonali a diversi
livelli tagliano lo spazio.
Disequilibri
questi realizzati appositamente da Daniel Libeskind con lo scopo di rievocare i
conflitti tra cultura e natura, tra naturale e artificiale. Il risultato finale
è una costruzione in cui il peso di questo preambolo ideativo si trasforma in
austerità materica che, in apparenza, neanche l’utilizzo del vetro e dell’alluminio
riesce ad alleggerire.
Una sorta di
destabilizzazione psichica ma al tempo stesso strutturale che riporta al
problema della forma in architettura anticipata dal maestro Peter Eisenman
negli anni Sessanta. L’architetto statunitense pone in discussione la teoria
della filosofa svizzera Jeanne Hersch secondo cui «non esiste l’in sé della
forma ma quest’ultima viene sempre definita dalla polarità tra ciò che è attivo
– ovvero la forma – e ciò che è passivo – ovvero l’orizzonte contro il quale si
staglia la forma e rispetto al quale il soggetto dietro la forma vuole
intervenire».
Lo fa, quindi, considerando la forma non più quello strumento cognitivo e
discriminatorio tra ciò che è attivo e ciò che passivo ma dissolvendo ogni gerarchia
di significato tra i vari elementi formali e liberandoli da ogni volontà di
significazione.
Una
destabilizzazione che in Libeskind si carica di valori emozionali dove
l’ambiente è in grado di comunicare il suo valore simbolico, con richiami storici
e imprevedibili che generano nello spettatore dubbi e interrogativi rendendolo
– allo stesso tempo – partecipe di una situazione in apparenza irrazionale e no sense. «Parlare di architettura […]
vuol dire parlare del paradigma dell’irrazionale. Dal mio punto di vista, le
opere più alte dello spirito contemporaneo vengono dall’irrazionale, mentre ciò
che prevale il mondo, che domina e spesso uccide, lo fa sempre in nome della
ragione».
Questo è
esattamente lo spirito con cui Libeskind e gran parte di quella architettura
che consideriamo liquida, affrontano
lo sviluppo delle loro ricerche strutturali che conducono a una ricapitolazione
e a una riscrittura delle passate esperienze architettoniche, attraverso
l’esasperazione di motivi noti che vengono associati liberamente.
Il risultato
quindi di tutta questa ricerca è un’architettura che si abbandona in toto alla
spettacolarità, tralasciando a volte, i caratteri di una più specifica
funzionalità a favore di un chiaro riferimento della rivelazione architettonica
nel campo dell’esecuzione artistica. Una sorta di simbolismo architettonico che
penetra eccentricamente nella costruzione dello spazio.
Sicuramente nel
caso del ROM, l’originalità della costruzione è andata di pari passo con quanto
pensato dal direttore del museo William Thorsell il quale ha manifestato la
volontà di rendere l’ampliamento una sorta di moderna wunderkammer che contenesse gli oggetti più disparati: dipinti,
minerali, tessuti, manufatti di popoli indigeni. Un ambiente e un allestimento
caratterizzati dalla moltitudine e diversificazione degli oggetti esposti
rielaborando temi sicuramente suggestivi.
Ambiente e
allestimento rispondono perfettamente all’unicità dello spazio interno: gli
angoli retti sono quasi assenti, le pareti inclinate e la luce che entra
seguendo insoliti tragitti si staglia nel cuore centrale e vuoto dell’edificio,
la Spirit House, attraversato da
percorrenze diagonali.
La Spirit House
Chair è considerata come la parte fondamentale, il cuore del museo. è una sedia
in acciaio inossidabile ideata per essere orientata seguendo cinque differenti
posizioni, all’interno del grande spazio cavo della sala a tutt’altezza del
museo. L’atmosfera surreale data dall’effetto di riflesso e scomposizione della
luce incidente, ne fanno uno spazio di contemplazione e unico nel suo genere.
Ne viene fuori
una costruzione in cui il peso di questa parabola ideativa si è trasformata in
gravità materica che, aggiunta alla monocromaticità e all’intersecazione di
superfici ed elementi possono creare disequilibrio e la perdita del senso
dell’orientamento.
Libeskind
raggiunge questo obiettivo attraverso il procedimento della “contaminazione”:
un intervento svolto appunto su architetture tradizionali che si apprestano
allo stravolgimento attraverso l’inserimento di forme e materiali estranei alla
costruzione originale.
Le linee di
Libeskind non sono spazi caotici ma espressione di speranza verso nuovi ordini
coerenti di differenziazione tra le cose, di qualcosa che va oltre il limite
della percezione. Lo spazio per Libeskind non è solo «percezione fisica, è
qualcosa di sociale e culturale, è lo spazio dell’immaginazione, lo spazio del
non conosciuto, lo spazio dell’invisibile, insomma lo spazio è qualcosa di più
di quello che percepiamo attorno a noi e questo è certamente il mio
fondamentale modo di vedere tale concetto, in particolare quando avvicinandomi
ad ambienti o progetti che devono creare emozioni».
Considerato
maestro nel realizzare edifici che rispondono alle richieste del proprio tempo,
Daniel Libeskind, interpreta le stesse attraverso una personalissima
spiritualità, cercando di narrare la storia in un modo entusiasta e partecipe
allo stesso tempo.
Idee, progetti,
emozioni e metafore che si trasformano semplicemente in gesto d’architettura.
BREVE CRONOLOGIA DELLE TRASFORMAZIONE DEL ROM NEL
CORSO DEL SECOLO
1857 – Fondazione del Museo di Storia naturale e Arte presso la Toronto Normal
School.
1912/1914 – Creazione del Royal Ontario Museum su progetto degli architetti Frank
Darling e John A. Pearson.
1933 – Realizzazione dell’ala est fronte Queen’s Park e della cupola in stile
neobizantino.
1964 – Aggiunta del planetario planetario McLaughlin.
1975 – Aggiunta di un atrio multi livello su progetto degli architetti Gene
Kinoshita e Mathers & Haldenby.
2001/2002 – Viene scelto il progetto di Daniel Libeskind, realizzato con la
collaborazione del B+H Architects, per la costruzione di una nuova ala del
museo.
2 giugno
2007 –Inaugurazione della nuova
ala che verrà denominata Michael Lee-Chin Crystal dal mecenate che ne ha
finanziato i lavori.
NOTE
L’architettura
decostruttivista trae origine dal pensiero del filosofo francese Jacques
Derrida mentre la nascita del fenomeno è avvenuta con una mostra organizzata a
New York nel 1988 da Philip Johnson, in cui - per la prima volta - appare il nome di questa nuova tendenza
architettonica, che fu definita Deconstructivist
Architecture. Alla mostra di New York furono esposti progetti di Frank O.
Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard
Tschumi e del gruppo Coop Himmelb(l)au. In questa mostra tutte le parti
dell’oggetto vengono completamente smembrate per poi essere ricomposte secondo
nuove regole, alternative rispetto a quelle tradizionali: si decostruisce per
poi ricostruire.
A.
MAROTTA, Daniel Libeskind, Roma,
Edilstampa, 2007.
D.
LIBESKIND, Breaking Ground, un’avventura tra architettura e vita,
Sperling&Kupfer editori, 2005.
D.
LIBESKIND, Tra metodo idea e desiderio,
in Domus, n. 731, 1991.
Daniel
Libeskind nasce nel 1946 in Polonia, studia musica – diventando un virtuoso
della fisarmonica – per poi passare
alla Cooper Union di John Hejduk e Petere Eisenman e specializzandosi in
seguito anche in storia e filosofia.
A.
TRENTIN, Louis I Khan, Motta
architettura, 2008, p.23. Gli edifici di
Louis Isadore Kahn(1901-1974) sono originati da una geometria di solidi elementari,
fondati su una composizione modulare, idealmente riconducibili al reticolo
quadrangolare di Jean Nicolas Louis Durand (1760-1834), il quale come Louis
Kahn, attingeva agli elementi della storia, rendendoli neutri, convertendoli in
elementi indifferenti in grado di acquisire un significato solo nel momento in
cui veniva assegnato loro un luogo e un ruolo.
P.V.
AURELI, La strategia del Rifiuto.
Formalismo, autonomia, testo, passività nell’opera di Peter Eisenmann,
1963-2005 in Peter Eisenmann tutte le
opere, a cura di Pier Vittorio Aureli, Marco Biraghi, Franco Purini,
Firenze, 2010, pp. 11-21.
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l’architettura, vol. II, dal Barocco
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Intervista a Daniel Libeskind, a cura di Veronica
Dal Buono, rilasciata in occasione della conferenza Counterpoint presso la Facoltà di Architettura di Ferrara,
nell’ambito delle attività promosse dall'Ufficio di Relazioni esterne e
Comunicazione. http://www.materialdesign.it/
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http://www.materialdesign.it/it/post-it/intervista-a-daniel-libeskind-a-cura-di-veronica-dal-buono_13_139.htm
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http://www.epab.bme.hu/oktatas/2009-2010-2/v-CA-B-Ms/FreeForm/Examples/OntarioMuseum.pdf
Vedi anche nel BTA:
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