«Je
n’ai jamais dormi. Je travaille sans fin / Pour enrichir l’espace
de chefs-d’œuvre éphémères»,
scrive Filippo Tommaso Marinetti ne Le
monoplan du Pape,
pubblicato in francese nel 1912. Blasfemo
inno a una modernità lontana da ogni tradizionalismo di matrice
cattolica, il testo celebra un’insonne creazione effimera. E
all’insegna di una laica modernità, il 30 giugno dello stesso anno
si inaugura a Roma la prima centrale elettrica municipale, su
progetto degli ingegneri Puccioni,
Carocci, degli Abati,
intitolata nel 1913 a Giovanni Montemartini e destinata a contribuire
al fabbisogno cittadino fino alla definitiva interruzione della sua
produzione di energia nel 1963.
Manifesti,
dipinti e progetti del futurismo proclamano l’avvento di una
«bellezza
passeggera»,
all’insegna della valenza poetica di un progresso chiamato a
ridefinire il mondo, anche e soprattutto come campo di forze e luogo
di produzione/distribuzione di energie .
Le rappresentazioni urbane espresse da tale immaginario, pittorico e
letterario, evidenziano dinamismo spaziale e metafora della
costruzione come figura privilegiata del conflitto e dello sviluppo
sociale. Sono il fulcro di assi diacronici che metamorfizzano la
progettualità in piano ludico, ove l’edificio s’innalza come
organismo altro,
sorta di totem dell’avvenire: e pensiamo alle tavole della Città
nuova
di Antonio Sant’Elia, con elementi urbani, una stazione
aeroferroviaria, centrali elettriche e termiche, schizzi
d’architettura. Sant’Elia
non progetta né realizza la città nuova: la disegna
e
la dipinge.
Apporta così il proprio contributo all’elaborazione dei miti
futuristi, che postulano la necessità dell’innovazione tecnica
come metafora e metamorfosi della vita umana in relazione al mondo
degli oggetti: e il perfezionamento estetico della forma dovrà
coincidere con la sua perpetua trasformazione. È
in nome di effetti transitori e caduchi che afferma: «Le case
dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua
città».
Opponendosi radicalmente ad ogni idea di durata
e
di continuità nel tempo, Sant’Elia percepisce la civiltà del XX
secolo come il momento in cui il trionfo delle macchine si rivela
incompatibile con le vestigia del passato.
La
centrale romana dell’Ostiense, all’insegna di un moderato
eclettismo, si definisce per una pregnanza di volumi prevalentemente
orizzontali, lontani dalle vibrazioni verticali immaginate da
Sant’Elia. Ma se, come
proclama il “Manifesto tecnico della letteratura futurista”
dell’11 maggio 1912, si è alla ricerca estetico-esistenziale di
forze meccaniche e termiche in grado di suscitare passioni, la
Montemartini corrisponde ad alcune di queste possibilità espressive.
Ancora nel 1912, i versi de Il
canto dei motori di Luciano Folgore
inseguono tracce del dinamismo elettrico in chiave mitopoietica:
«Strumenti
di forza, arnesi di lavoro, / manovrati da questa volontà, / traini
pesanti, / divoranti con bramosia / lo spazio, il tempo, e la
velocità, / o braccia dell’Elettrico / distese in ogni luogo, / a
prendere la vita, a trasformarla, / ad impastarla, / con rapidi
elementi, / o ingranaggi potenti, / superbi figli dell’Elettrico /
che stritolate il sogno e la materia, / odo le vostre sibilanti note
/ concorrere da tutte le fabbriche, / da tutti i cantieri, / per le
strade robuste di suoni, / con l’inno dei carrozzoni, / e
magnificare / divinamente / la volontà / che ogni prodigio fa / la
libera Elettricità».
Le
architetture primo-Novecento della Centrale Montemartini, con
decorativismi che rivestono a tratti l’ambientazione industriale di
elementi para-ludici come festoni e danze femminili, sono il sostrato
di un aggregarsi e trasformarsi di volumi nell’arco di decenni
. Articolazioni degli spazi,
demolizioni di strutture e rifunzionalizzazione delle aree della
struttura appaiono segni di un’ibridazione “genetica”
corrispondente al suo eclettismo
artistico-funzionale: in grado di
produrre elettricità sfruttando turbine a vapore o motori diesel, la
Montemartini si determina (in)consapevolmente come insieme
ludico-modulare. È
poi il 21 aprile del 1933, “Natale
di Roma”, quando Mussolini procede alla nuova inaugurazione di una
struttura adattata e potenziata nelle sue capacità produttive,
disponendo ormai di due giganteschi motori diesel da transatlantico,
capaci di una potenza di 7500 HP ciascuno.
Su
“L’Osservatore romano” del 22 ottobre 1933 compare uno scritto
di Carlo Emilio Gadda – La
nuova centrale termoelettrica della Città del Vaticano
– tra l’encomiastico e il tecnico. A pochi mesi dal potenziamento
dell’impianto ostiense, si risponde oltretevere in termini
analoghi. Scrive il romanziere: «Sua
Santità Pio XI inaugura oggi i modernissimi impianti destinati a
fornire l’energia elettrica e l’energia termica alla Città del
Vaticano. Essi sono stati condotti a termine nel corso di un anno,
sotto la direzione di S. E. il conte Ing. Franco Ratti […] Un
edificio architettonicamente sobrio, dalle linee eleganti, curato
negli ultimi particolari con motivata ricerca d’ogni finitezza,
contiene la sala caldaie, gli apparecchi di epurazione dell’acqua
che le alimenta, la sala delle macchine e il sottopiano per i
condensatori e i servizii di macchina. Si aggiunga il grande
serbatoio della nafta, a lato dell’edificio».
Il
“cameo” giornalistico dell’ingegner Gadda sulla centrale
vaticana contribuisce a delineare il clima di un interesse diffuso,
all’insegna della modernità
e della costruttività. Per quanto concerne la Montemartini, i lavori
di rinnovamento si susseguono negli anni mentre la funzionalità
ibrida della Centrale permane, poiché viene abbattuta nel 1940 la
Sala Caldaie n. 1 per costruirne un’altra ove ospitare due nuove
caldaie a vapore. Al di là della narrazione che vuole che su di essa
sia stata issata la bandiera vaticana durante le fasi più
drammatiche della guerra per preservarla da attacchi e bombardamenti,
dopo la conclusione del conflitto, all’inizio degli anni ’50, la
struttura si configura con un assetto simile all’attuale, mantenuto
fino al termine del suo ciclo produttivo.
Sarà
dopo un parziale abbandono che la Montemartini, nel solco
architettonico e concettuale del postmodernismo, virerà dagli anni
’90 verso la dimensione espositivo-museale – prima con limitate
esposizioni temporanee, poi con l’allestimento provvisorio
proveniente dai Musei Capitolini – fino alla sistemazione
definitiva con la ripulitura e la riproposizione “filologica” dei
grandi motori, chiamati a condurre lo sguardo nella Sala Macchine e a
fronteggiare le sculture che popolano lo spazio.
Adottato
non come paradigma di una neo-temporalità estesa e indeterminata, il
postmodernismo della Montemartini propone «un
disvelamento, una sorta di risveglio della dimensione critica [per]
consentirci di ripensare le coordinate e il funzionamento
dell’episteme Moderno, e soprattutto le sue relazioni implicite con
il potere e la politica».
Esasperando la materialità dei marmi o di metalli, le strutture e
l’allestimento tendono a riconnettersi anche alle pratiche
materiche dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70, nei quali
Kounellis e l’arte povera mettevano in scena – come teatralità
del quotidiano – le proprietà del ferro e del legno, del fuoco e
del carbone. In opposizione alle scelte progettuali e museali della
Tate Modern di Londra, ove alla “modernità” della struttura
corrispondono opere esposte del pieno Novecento, la Montemartini
giustappone “ludicamente” gli opposti – produzione
/ museo,
archeologia
industriale / archeologia classica
–, sottraendosi ad ogni possibile liquefazione materica o pulsione
verso la virtualità.
Nel
solco di un mettersi in mostra trasversale, l’esposizione di
Patricia Cronin «Le
Macchine, gli Dei e i Fantasmi», con la curatela di Ludovico
Pratesi, ha
presentato nel 2013 (10 ottobre – 20
novembre) suggestioni dell’artista
americana, creazioni site-specific
concepite in relazione con gli ambienti della Centrale. Sei opere
monumentali, stampate su pannelli di seta traslucida e dedicate alla
riscoperta dell’opera della scultrice neoclassica americana Harriet
Hosmer (1830-1908)
che trascorse a Roma anni di tirocinio artistico e raffinamento
tecnico, sono state esposte nella Sala Macchine. Erano Ghosts:
fantasmatiche immagini fluttuanti di acquarelli stampati su tessuto
suggeriscono legami tra statuaria classica, rivisitazione del
neoclassico, macchinismo da archeologia industriale, tracce di lavoro
e di presenze operaie. E la
diversa esposizione «Petrolio» di Xavier Bueno, nella Sala Caldaie
(18 aprile – 29 settembre 2013),
fra tralicci, trivelle e tubi anticipa e bidimensionalizza la
macro-struttura della caldaia sullo sfondo.
Riconsiderazione del processo estrattivo, produttivo e della ricerca,
il grande acrilico su tavola – di oltre 7 metri di lunghezza – si
dipana come “fregio” d’arte industriale e pubblica, non
immemore degli insegnamenti della pittura murale italiana o degli
artisti messicani.
Oltre
a rivestire un carattere giocosamente e provocatoriamente
neo-futurista, la musealizzazione a
contrariis
della Montemartini rientra, infine, in una visione dialettica del
patrimonio: «[...]
le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano imprigionarci
senza speranza»,
scrive Walter Benjamin a proposito di «avventurosi
viaggi»
cinematografici in mezzo a «sparse
rovine».
Ma lungi da frammentismi neo-decadenti, egli avvia alla conclusione
L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
ricordando come la struttura architettonica sia
necessariamente punto di snodo per consapevolezze e riflessioni da
estrinsecare in ambito comune – «L’architettura
non ha mai conosciuto pause. La sua storia è più lunga di quella
di ogni altra arte [...]»
– divenendo possibile emblema del rapporto tra elemento pubblico e
sua percezione, tra rispetto degli spazi e pratiche di
risemantizzazione.
NOTE
BIBLIOGRAFIA
Rosario
Assunto, La città di Anfione e la
città di Prometeo. Idea e poetiche della città,
Milano 1984, p. 166.
Walter
Benjamin,
L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica,
1936-39, ediz. cit. Torino 1998, p. 30 e p. 35.
Luciano
Folgore, Il Canto dei Motori,
Milano 1912, cit. da E. Sanguineti
(a cura di), Poesia italiana del
Novecento, II, Torino 1971, p. 606.
Carlo
Emilio Gadda, La nuova centrale
termoelettrica della Città del Vaticano,
1933, cit. da A. Andreini,
Studi e testi gaddiani,
Palermo 1988, p. 179.
Claudio
Minca, Il soggetto, il paesaggio e il gioco
postmoderno, in Els
paisatges de la postmodernitat, atti
del II Seminario internazionale sul Paesaggio (Olot, 21-23 ottobre
2004), p. 3.
Antonio
Sant’Elia,
L’architettura futurista.
Manifesto, in L.
De Maria (a cura di), Marinetti
e il futurismo, Milano 1977, p. 148.
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